Roberta Martinis
Ca’ Loredan-Vendramin-Calergi a Venezia:
Mauro Codussi e il palazzo di Andrea Loredan*
1. Palazzo Loredan, veduta della facciata.
Nel 1581 Francesco Sansovino individua in palazzo Loredan l’opera che inaugura la serie delle grandi macchine ricoperte di pietra d’Istria e
marmi grechi cui appartengono i palazzi cinquecenteschi del padre (ill. 1): “E per tanto a sapere
ch’i principalissimi di tutti i palazzi del Canal
Grande, sono quattro […] cioè il Loredano a
San Marcuola, il Grimano a San Luca, il Delfino a San Salvadore, e il Cornaro a San Maurizio.
[…] Il Loredano adunque, di gran corpo e di
grand’altezza, e anteriore in tempo a tutti gli altri,
e quasi posto in Isola, è molto nobile, percioché oltre
alla copia delle stanze di dentro, ha la faccia coperta
di marmi grechi, con grandi finestroni tutti colonnati alla corinthia […]”1.
I quesiti che lo stato degli studi lascia insoluti sull’architettura e l’autore di palazzo Loredan
riguardano la genesi e il ruolo di un edificio eccezionale per dimensioni e forme nel panorama
dell’edilizia privata veneziana, nella fase che
precede la stagione dei grandi palazzi sansoviniani; ed inoltre, la verifica dell’attribuzione a
Codussi, che non risulta menzionato nelle fonti
e nei documenti.
La sovrapposizione di tre ordini “all’antica”,
posti ad inquadrare bifore a tutto sesto – una va-
riante dello schema del Tabularium, del teatro di
Marcello e del Colosseo – associata alla riproposizione del modello dell’arco trionfale – nel binato delle campate estreme – connota il palazzo
come oggetto eccentrico rispetto al contesto lagunare. Non si tratta tuttavia di un organismo
completamente all’antica: la facciata si innesta
infatti su una pianta tradizionale, con saloni passanti a “crozzola” (o crocciola, impianto planimetrico in forma di T) 2 fiancheggiati da sale secondarie, che sarà oggetto delle censure di Daniele
Barbaro nel Vitruvio del 15563. Ma l’esibizione
di aggiornamento linguistico acquista un significato ancora più profondo tenendo conto della
collocazione strategica del palazzo, all’estremità
opposta del Canal Grande rispetto alla platea
marciana, tale da renderlo simbolicamente
“omologo” a palazzo Ducale: quasi una sorta di
porta “da terra” della città. L’architettura di
questa facciata risulta inoltre straordinariamente in sintonia con le più avanzate elaborazioni
romane sul tema dell’abitazione privata: il suo
impaginato sembra richiamare, per la travata
ritmica e per la sovrapposizione degli ordini, il
fronte principale del palazzo della Cancelleria
(iniziato verso il 1488-89) e quello, di poco suc-
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2. Jacopo de’ Barbari, Veduta di Venezia,
1500. Particolare con gli stabili dei
Loredan nei pressi di San Marcuola
sul Canal Grande (in grigio). (Venezia,
Museo Correr).
cessivo, di palazzo Castellesi. Un ulteriore confronto si può istituire con palazzo Caprini, uno
dei risultati più alti delle sperimentazioni bramantesche, per l’impiego di elementi tridimensionali in facciata e per la soluzione d’angolo4.
Tali ricerche, da ritenersi del tutto indipendenti, produrranno tuttavia esiti diversi: a Roma,
Bramante con palazzo Caprini definisce un “tipo” del palazzo romano che si diffonderà per
tutto il Cinquecento5; il contesto veneziano, al
contrario, tende a isolare questo esperimento.
Palazzo Loredan è sì il primo palazzo “alla moderna” realizzato sul Canal Grande, ma saranno
necessari più di quarant’anni e un architetto venuto da Roma – Jacopo Sansovino – per realizzare volumi analoghi. Nel frattempo, il nome
del suo ideatore sarà stato dimenticato.
Dopo i riconoscimenti di Francesco Sansovino del 1581, palazzo Loredan è oggetto di una
singolare damnatio memoriae, e bisognerà aspettare circa due secoli perché si ponga il problema
della sua attribuzione. Temanza, nel 1778, lo assegna a Sante Lombardo, figlio di Tullio, mettendo in rilievo la sovrapposizione dei tre ordini
corinzi e il “sopraornato” che compete con le
cornici dei palazzi Medici e Strozzi a Firenze6.
La prima attribuzione del palazzo a Mauro Codussi è del Paoletti, cui va anche il merito della
“riscoperta” dell’architetto e della messa a punto
del suo catalogo in base a considerazioni stilistiche e documentarie. L’attribuzione si fonda su
considerazioni circa l’“insieme grandioso e ardito della facciata”, in cui gli ordini per la prima
volta sono impiegati nell’architettura civile, e
sulla presenza delle grandi bifore, caratteristiche
che ritornano in altri edifici codussiani7. Nonostante le sue eccezionali caratteristiche l’edificio
è stato poco considerato dalla storiografia contemporanea. La lettura di Sergio Bettini, che in
palazzo Loredan individua l’assimilazione di una
strutturalità albertiana con figure bizantine, affi-
da alla grande transenna – pura superfice cromatica elevata sull’acqua – quel passaggio da “una
lingua coloristica, anticlassica […]” a “uno spazio
di senso prevalentemente plastico, razionalizzato
dalle leggi della prospettiva”8. A distanza di
trent’anni le parole di Bettini riecheggiano nell’analisi di Mc Andrew, che riconosce nella facciata di palazzo Loredan un apparato fittizio
quasi autosufficiente9: un’architettura del “comese” – questa la definizione di Mc Andrew – che
sottolinea dunque con una sola espressione le valenze albertiane e insieme più profondamente
veneziane di quest’architettura10.
Le proprietà su cui Andrea Loredan di Nicolò costruisce il proprio palazzo risultano in
parte patrimonio della famiglia fin dal XIV secolo. Nato nel 1450 da Nicolò di Zorzi e Agnese Vitturi di Lorenzo11, Andrea sposa nel 1485
Maria Badoer di Albertino il dottore, priore della chiesa di San Giovanni Evangelista12, ed entra
in Senato nel 149413. Savio di Terraferma nel
150214, Podestà a Brescia negli anni 1503-150415,
Loredan è coinvolto, nelle sue funzioni di governo, in alcune vicende architettoniche significative. Il 17 giugno 1505 è membro del Collegio
al momento della valutazione dei progetti per il
nuovo fondaco dei Tedeschi16. Nel 1506 si trova
nel Consiglio dei Dieci17 quando viene deliberato il finanziamento per la ricostruzione della
chiesa di San Salvador, e si dispone, cinque giorni dopo, la condotta di fra Giocondo18. In qualità
di Capo del Consiglio di Dieci Andrea potrebbe
essere stato uno dei responsabili, nel mese di
giugno, del dirottamento delle competenze di
fra Giocondo al servizio dello Stato da Mar per
rinnovare le architetture militari di Corfù19. In
seguito Loredan è Luogotenente della Patria del
Friuli (1507-1509)20 e nel maggio 1509, nei
giorni di Agnadello, membro del Consiglio dei
Dieci e Provveditore all’Arsenale21. Nel 1511,
ancora in qualità di Capo dei Dieci, è uno dei
protagonisti delle trattative tra Agostino Chigi e
la Repubblica, relative al prestito da parte del
banchiere pontificio a Venezia22. Eletto Provveditore Generale in campo, con Andrea Gritti,
Domenico Contarini e Bartolomeo d’Alviano
capitano23, nel 1513 si trova nella battaglia di
Creazzo contro spagnoli e tedeschi che si trasforma, al contrario delle aspettative veneziane,
in una disfatta24. Loredan muore combattendo il
9 ottobre 1513. Nel riportare la notizia, sia Sanudo che Priuli sottolineano la sua condotta impeccabile, ma non mancano di ricordare le sue
ricchezze, la “bella casa” e la cappella in San Michele in Isola di cui era stato Procuratore25.
Il 15 giugno 1513, alla vigilia della partenza
come Provveditore in Campo, Andrea aveva testato predisponendo la propria sepoltura nella
cappella maggiore della chiesa di San Michele e
istituendo un fidecommesso sul proprio palaz-
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3. Palazzo Loredan, sovrapposizione
della pianta delle coperture alla pianta del
piano terreno (da T. Talamini, Il Canale
Grande. Il rilievo, Bologna 1990.
Elaborazione del disegno di F. Pagliani).
4. Palazzo Loredan, planimetria generale
del piano terreno (da Talamini,
Il Canale Grande. Il rilievo, cit.).
zo26 . Risulta immediatamente chiara l’associazione di palazzo e cappella, casa della vita e casa
della morte. Rispetto a un atteggiamento comune nel contesto fiorentino, a Venezia non sono
molte le famiglie che nella seconda metà del
Quattrocento sono impegnate su entrambi i
fronti: i Corner, con il palazzo (non realizzato) a
San Samuele e la cappella ai Santi Apostoli, i
Gussoni, con palazzo su rio della Fava e cappella a San Lio, Marco Zorzi con il palazzo a San
Severo e la cappella a San Michele in Isola. Tra
questi esempi, solo il palazzo di Marco e Andrea
Corner sul Canal Grande a San Samuele, dal
programma talmente ambizioso da dover essere
abbandonato, costituisce un modello paragonabile per mole e magnificenza a palazzo Loredan.
La concessione dell’uso esclusivo della cappella maggiore di una chiesa di tale rilievo qual’è
quella di San Michele in Isola indicherebbe in
Loredan un personaggio di spicco nell’ambito
camaldolese. Ed infatti, è il ruolo svolto da Andrea nelle vicende relative alla cappella maggiore di San Michele ad aver consentito al Paoletti
di argomentare l’attribuzione di palazzo Loredan a Codussi: la presenza di quest’ultimo nel
cantiere di San Michele in Isola, com’è noto, è
accertata dal 146827. Andrea avrebbe dunque
coinvolto lo stesso architetto in una duplice operazione di progettazione della propria cappella e
del palazzo di famiglia. Questa ipotesi è stata
successivamente accolta dagli studiosi; ma non è
stata precisata la natura e la cronologia dei rapporti tra Loredan e i Camaldolesi, né risulta ve-
rificata la presenza di Codussi nel cantiere relativo al corpo della chiesa di San Michele. Sulla
base di una rilettura di documenti già editi è
possibile stabilire nel 1505 il termine post quem
per l’avvio di questi rapporti28, vale a dire in una
data molto lontana dall’apertura del cantiere codussiano della chiesa; mentre la nomina di Loredan a Procuratore della cappella maggiore risale
al 1513, quando la cappella era già costruita29.
Tuttavia, a partire da questo accertato legame
si può tentare di ricostruire – se pure in modo indiretto e nonostante l’ostinato silenzio dei documenti – il quadro delle inclinazioni politiche e religiose di Andrea. Gaetano Cozzi ha infatti identificato nell’ambiente camaldolese l’ambito di elaborazione della linea politica che negli anni successivi ad Agnadello sarà rappresentata da Andrea
Gritti, e che avrà come teorizzatore Gasparo
Contarini (la cui fisionomia culturale – ancora secondo Cozzi – risulta riconducibile al medesimo
ambiente). Un orientamento che rientra, “per il
suo ideale patrizio e politico, nella linea politica
veneziana più tradizionale, che aveva annoverato
il doge Tommaso Mocenigo e Bernardo Giustiniani, lo storico delle origini di Venezia, e gli
scritti di Domenico Morosini”30. Di Andrea Loredan non è possibile, per il momento, illuminare
più a fondo il ruolo nella politica veneziana, data
la morte relativamente prematura31; e se egli si
trovi effettivamente nel solco della mentalità
espressa da Domenico Morosini non è sin qui sostenibile con certezza. Sul suo palazzo le fonti
continuano a mantenere un’“afasia eloquente”,
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5. Palazzo Loredan, pilastro nel portego
al primo piano nobile.
6. Palazzo Loredan, particolare della
mensola nella controfacciata al piano terreno.
come a zittire un avvenimento troppo precoce,
una sfasatura temporale. Palazzo Loredan si colloca in quello che si potrebbe definire il punto di
flesso di una mentalità, coincidente con il trauma
seguito alla sconfitta di Agnadello, quando le ambizioni della Venezia quattrocentesca si frantumano; mentre il principio di mediocritas enunciato da Domenico Morosini, cui Andrea Loredan
sembra derogare, diventerà normativo solo nel
periodo successivo, quando l’opzione per un’architettura “all’antica” diventerà espressione di
scelte politiche precise32.
Girolamo Priuli, il primo a fornire notizie
sul palazzo di Andrea Loredan, lo descrive finito nell’agosto 1509: “Neli superiori zorni […] fu
ellecto Provedictor generale in la Patria del
Friuli ser Andrea Loredan, quondam ser Nicolò
[…]. Et havea facto questo nobile veneto una honoratissima et degna caxa sopra il Canale Grando cum
una faza davanti, la piu’ bella, che ahora se atrova
in Venetia, come se puol vedere molto chiaramente”33.
Dopo questa data, il palazzo viene menzionato
diverse volte da Marin Sanudo come oggetto di
interesse da parte di stranieri in visita a Venezia,
da mostrare per la sua eccezionalità34.
La rilettura delle fonti d’archivio e una nuova indagine documentaria hanno consentito di
arricchire le informazioni già note precisando
l’ambito cronologico del progetto e i tempi di
costruzione del palazzo35. L’operazione immobiliare di Andrea Loredan prende avvio nel
1479, con l’acquisizione dell’intera proprietà di
famiglia – la casa da stazio a San Marcuola – e
procede per successivi acquisti e permute fino al
149436. Questi nuovi elementi consentono di
correggere la datazione dell’inizio dei lavori fissata al 1481 da Giovan Antonio Selva e accolta
da Lionello Puppi e Loredana Olivato, e di individuare intorno alla metà degli anni novanta
un nodo cronologico essenziale. Un termine
dei lavori al 1509, secondo quanto afferma Girolamo Priuli, sembra verosimile: il testamento
di Andrea Loredan lascia infatti intendere che il
palazzo fosse finito, non trovandosi in esso alcun accenno a un eventuale completamento dei
lavori, a fronte di una grande attenzione alle
sorti della casa e delle sue collezioni37.
Nella mappa di Jacopo de’ Barbari (1500) la
casa dominicale dei Loredan è composta da un
blocco principale a due corpi paralleli di due
piani ciascuno, ancora riconoscibili per tracce
nella tessitura attuale del tetto caratterizzata da
una marcata eterogeneità (ill. 2-4). La porzione di copertura a destra (sud-est) rispetto al
Canal Grande – che comprende parte della
crozzola e l’ala delle stanze orientali, e presenta
il colmo pressoché coincidente con uno dei
muri della crozzola – potrebbe essere il residuo
di uno dei due corpi lunghi e stretti mostrati da
de’ Barbari. Un’altra porzione di tetto perpendicolare a questa e parallela al Canal Grande
sembra inoltre corrispondere al risvolto del
tetto presente nella veduta cinquecentesca. Come nel caso di altri palazzi veneziani, anche il
nuovo palazzo Loredan sembra dunque aver
avuto origine dall’unione di due corpi di fabbrica paralleli, uno dei quali ancora individuabile nella struttura attuale38.
La veduta di de’ Barbari mostra inoltre un
primo accorpamento già avvenuto e un’unica
facciata a due livelli. Ma non si tratta ancora
della sistemazione definitiva: la facciata nuova a
tre ordini, costruita per volontà di Andrea Loredan, sorgerà sullo spazio occupato nel 1500
dalla fondamenta39. Il sostanziale punto di discontinuità che caratterizza il palazzo – una facciata innovativa e antichizzante, un impianto
tradizionale a crozzola – sembra essere spiegabile proprio a partire da queste osservazioni. La
crozzola potrebbe infatti essere frutto dell’ac-
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7. Palazzo Loredan, pianta del piano terreno
con riportate le misure della scala esterna
prevista nel 1502 (da Talamini, Il Canal
Grande. Il rilievo, cit. Elaborazione del
disegno di F. Pagliani).
8. Palazzo Loredan, pianta del piano terreno
con evidenziate le tre scale interne (da
Talamini, Il Canal Grande. Il rilievo, cit.
Elaborazione del disegno di F. Pagliani).
corpamento ante 1500 già registrato da de’ Barbari; e l’operazione promossa da Andrea consistere, sostanzialmente, nell’innalzamento di un
piano della fabbrica e nella costruzione di una
nuova, monumentale facciata anteposta al corpo
preesistente. A sostegno di questa ipotesi è possibile portare considerazioni di carattere statico
e distributivo. Nel portego del piano terreno due
paraste corinzie piegate a libro segnano gli angoli interni della crozzola verso il Canal Grande
(ill. 5). Ad esse sono sovrapposte mensole che
reggono due travi trasversali rispetto alla tessitura del solaio, parallela alla facciata; le travi,
perpendicolari ad essa, si appoggiano sul cervello degli archi delle finestre (ill. 6). Questa giacitura, del tutto anomala, denuncia un evidente
scontro tra due sistemi diversi, tale da originare
un paradosso statico: le travi insistono infatti su
un vuoto, a conferma dell’indipendenza tra la
facciata e il corpo dell’edificio.
Il caso di palazzo Loredan sembra dunque assimilabile a quello, di mezzo secolo precedente, di
palazzo Rucellai, nel quale una facciata all’antica
viene anteposta a un edificio frutto dell’accorpamento di proprietà immobiliari distinte e successivamente collegate40. È possibile che Andrea Loredan fosse a conoscenza della genesi del palazzo
fiorentino: la fonte avrebbero potuto essere i Camaldolesi – in documentati contatti con i Rucellai – oppure l’architetto stesso di palazzo Loredan
– se, come si può dedurre dal suo linguaggio architettonico, si è recato a Firenze. In questo caso,
l’operazione condotta da Giovanni Rucellai, che
richiede l’intervento di Leon Battista Alberti solo
per la progettazione della facciata, potrebbe essere stata assunta a modello da Andrea. I lavori relativi all’interno del palazzo potrebbero essere
stati iniziati nel 1482, quando Loredan entra in
pieno possesso della proprietà di famiglia, e senza
l’intervento di un architetto, non necessario per
impostare uno schema planimetrico di tipo tradizionale. L’impegno per la costruzione di una facciata all’antica e il ricorso ad un architetto in grado di delinearne il progetto, risalirebbero al 1494,
data dell’ultimo acquisto di immobili e dell’ingresso di Andrea in Senato. Andrea, con il proprio palazzo, sembra quasi mettere le basi per una
futura candidatura al dogado (come aveva fatto
Antonio Contarini – con poca fortuna – con la ca’
d’Oro)41. E forse le parole con cui Priuli descrive
il palazzo “una caxa […] con una faza davanti” a
questo punto vanno interpretate alla lettera: si
tratta cioé di una facciata più che di un palazzo,
quasi un vero Septizonium42.
La progettazione di una facciata aggiunta a
corpi di fabbrica preesistenti deve aver presentato difficoltà nel coordinamento tra le quote
degli ordini e quelle dei solai retrostanti. Sembra inoltre che la realizzazione sia stata condotta in tempi serrati. Dall’analisi dei dissesti degli
elementi lapidei del piano terreno è stato infatti dedotto che le malte abbiano subito una compressione (dalla messa in opera al completo essicamento) con un valore medio del 5% (inversamente proporzionale all’altezza), e che i dissesti strutturali siano dovuti a una compressione
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9. Palazzo Loredan, rilievo della facciata
(da Talamini, Il Canal Grande. Il
rilievo, cit.).
10. Palazzo Loredan, veduta della
soluzione d’angolo.
11. Palazzo Loredan, coppia di lesene
al piano terreno.
della muratura in laterizio di almeno 5 centimetri. Queste osservazioni consentono di ipotizzare che le lastre di rivestimento siano state
montate senza aspettare la completa asciugatura della malta e i relativi assestamenti della muratura43. L’intaglio delle pietre per una facciata
richiedeva un tempo considerevole, e per evita-
re interruzioni del cantiere in genere si anticipavano i lavori di tagliapietra rispetto all’avvio
delle opere in muratura; in alternativa, si potevano sospendere i lavori in attesa che le pietre
fossero pronte per la posa in opera44. In questo
caso sembra che il cantiere abbia proceduto con
una certa fretta, oppure che sia stato diretto
male. La scarsità di dati e di studi sui cantieri
veneziani quattro-cinquecenteschi, e l’impossibilità – almeno per ora – di studiare lo stato effettivo e i modi di aggregazione delle murature
di palazzo Loredan, obbligano per il momento
a mantenere sospeso il problema45.
Resta, comunque, il fatto che il palazzo di Andrea Loredan è largamente condizionato dalle
preesistenze, come dimostra un documento inedito che consente di ricostruire i sistemi di distribuzione della fabbrica all’inizio del Cinquecento.
Olivato e Puppi avevano rinvenuto una sentenza
di composizione tra Andrea Loredan e Alvise
Emo, le cui proprietà erano confinanti, in una
causa riguardante la costruzione del palazzo (“per
fabricar il palazzo a San Marcuola”46); ma l’oggetto della lite era rimasto sin qui sconosciuto. Una
causa più tarda che coinvolge nel 1593 il nuovo
proprietario del palazzo, Vettor Calergi, fornisce
ora informazioni “a ritroso”: in essa si fa infatti
esplicito riferimento a una scala esterna, in due
rampe, posta nella corte di ca’ Loredan e appoggiata alla proprietà confinante, che in questa occasione viene ricostruita più lunga, e dunque più
comoda. La scala, già esistente nel 1502, era stata oggetto della lite tra Andrea Loredan e Alvise
Emo47. Il nuovo documento fornisce le dimensioni della prima rampa della scala nel 1502 (8,5 metri di lunghezza), quelle della prima rampa della
nuova scala ricostruita nel 1593 (14 metri) e la
profondità della corte: 25 metri circa, corrispondenti alla dimensione attuale, a conferma del fatto che i confini della corte non subiscono variazioni nel tempo (ill. 7).
Il palazzo era dunque dotato sin dal 1502 di
una scala esterna, secondo i canoni della più tradizionale prassi edilizia veneziana48. Attualmente i
sistemi di collegamento verticale si compongono
di tre corpi scala (ill. 8): lungo il lato occidentale
lo scalone principale che collega il portego terreno
con il primo piano nobile, le cui rampe incrociano quelle di una scala secondaria di comunicazione tra tutti i piani del palazzo compresi i mezzanini, con uscita esterna sul giardino occidentale.
Ad esse si aggiunge, sull’angolo orientale verso la
corte, una terza scala che nuovamente collega
tutti i piani compresi i mezzanini. La configurazione stessa del palazzo deve aver richiesto fin
dall’inizio la presenza di una scala per ciascun lato della crozzola, in quanto i mezzanini, sui due lati, risultano separati dai saloni a tutta altezza dei
piani nobili. Il fatto che lo scalone principale si
fermi al primo piano nobile assicura della funzio-
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12. Palazzo Loredan, finestra al piano
terreno.
13. Palazzo Loredan, finestra al secondo
livello.
14. Palazzo Loredan, capitelli delle lesene
del primo ordine.
15. Palazzo Loredan, dettaglio degli
elementi inferiori del primo ordine.
ne della scala esterna, demolita in una data ignota: essa si rendeva necessaria per disimpegnare il
secondo piano nobile – aggiunto da Andrea Loredan alle preesistenze – consentendo di utilizzare i
due piani separatamente, com’era prassi quando
più nuclei famigliari abitavano lo stesso palazzo.
Le due scale incrociate – la scala di servizio e lo
scalone principale – data la configurazione “intrecciata” devono essere nate insieme al palazzo;
ma potrebbero essere state rimaneggiate in un secondo momento, probabilmente in concomitanza
dei lavori promossi da Vettore Calergi alla fine
del Cinquecento. Anche l’attuale scala est potrebbe essere frutto di una modifica tarda, probabilmente apportata quando viene demolita la scala
esterna per liberare la facciata del palazzo verso la
corte; precedentemente i mezzanini dell’ala est
dovevano comunque essere serviti da una scala
autonoma posta in questo settore del palazzo.
La mancanza di inventari cinquecenteschi non
consente di ricostruire l’originaria distribuzione
interna degli ambienti del palazzo; ma poiché l’o-
perazione avviata da Andrea sembra consistere
principalmente nella costruzione di una facciata,
sulla facciata, che trasforma le case Loredan in un
palazzo unitario, andrà concentrata l’analisi. Nessuna delle fonti menziona il nome di architetti o
lapicidi coinvolti nella sua realizzazione, i quali
andranno dunque individuati attraverso un’analisi stilistica mirata alla ricostruzione del repertorio
formale da essi posseduto.
La facciata presenta una suddivisione orizzontale in tre ordini. In ciascun livello le campate estreme sono inquadrate da due coppie di sostegni, mentre sostegni semplici inquadrano le
campate centrali secondo uno schema assimilabile a una travata ritmica (ill. 9, 10). Un piano trattato a lesene, appoggiato su un’alta rilegatura a
parete che riunisce tutte le modanature inferiori,
fa da basamento ai due piani nobili ritmati da semicolonne corinzie49. All’interno di questo basamento domina il gruppo centrale di aperture costituito dalla porta d’acqua e dalle due bifore laterali, che configura un elemento ideale a tre for-
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16, 17. Palazzo Loredan, rilievo degli
elementi dell’ordine (da L. Cicognara,
A. Diedo, G.A. Selva, Le fabbriche...,
Venezia, 1838-1840).
nici – un arco trionfale – prospiciente il Canal
Grande. Possenti mensole inserite nel fregio del
primo ordine, in corrispondenza delle lesene,
reggono i balconi del piano nobile; la loro assenza al di sopra delle lesene più esterne consente di
individuare una rigorosa legge di coerenza interna che regola tutti gli elementi della facciata. La
sequenza verticale degli aggetti e dei risalti fa
emergere infatti la presenza di un principio verticale forte – il binato – che scandisce un ritmo
lento; ma le lesene e le semicolonne che lo compongono possono essere letti anche come elementi tra loro disgiunti. Nella zona basamentale
gli aggetti delle modanature rilegate tra loro sottolineano le coppie di lesene estreme e l’elemento a tre fornici; i risalti delle fasce d’architrave
isolano nuovamente i binati ma anche le lesene
singole inquadranti il portale. Le mensole che
invadono il fregio del primo ordine partecipano
invece ad un’altra sequenza, legata non più all’ordine ma al ritmo delle aperture del livello superiore (trifora centrale e bifore laterali). In questa seconda logica gli elementi che formano il binato superiore si disgiungono, e le semicolonne
più interne assumono la funzione di ordine inquadrante gli archi a tutto sesto sovrapposti alle
bifore. Scompare, infatti, la rilegatura a parete
delle modanature delle basi, e il binato si ripresenta integro solo a livello del piedistallo50. L’ordine presenta qui proporzioni più allungate rispetto a quelle del livello terreno, e il capitello
sale sopra il cervello degli archi a tutto sesto, alla stessa quota delle mensole-chiavi poste a sostegno della trabeazione aggettante. L’astragalo è
continuo per l’intera larghezza della facciata, e
capitelli e mensole sono ulteriormente collegati
tra loro da festoni; questi elementi, insieme alla
mancanza di risalti della trabeazione in corrispondenza dell’ordine, istituiscono una dominante orizzontale. Al terzo livello il binato riacquista identità univoca: appoggiato su un ambiguo fregio-basamento, l’ordine si contrae verticalmente rinunciando sia ad un proprio piedistallo, così da rispettare la regola della diminuzione delle altezze, sia ad una rilegatura orizzontale. La contrazione “trascina” anche i capitelli,
che giacciono qui, come già al primo ordine, sotto la linea tangente al cervello degli archi maggiori delle finestre. Di conseguenza le mensolechiavi d’arco, allineate ai capitelli, agganciano
l’arco e l’oculo ad esso sottoposto: una soluzione
sintatticamente incongrua, ma staticamente inevitabile per gli elementi posti a sostegno del
grande cornicione terminale.
L’articolazione del livello basamentale, caratterizzata da una grande attenzione alla logica tettonica delle sue componenti, viene estesa anche
alle porzioni di muro “neutro” comprese tra le
coppie di lesene, dotate, come queste ultime, di
una specchiatura e di tutte le modanature dei capitelli: astragalo, echino, e abaco rettificato. In
questo modo si definisce concettualmente una
sorta di grande “pilastro” composto dalle due lesene e dalla muratura interposta, con capitello e
base “estesi” (ill. 11, 14, 15). Le modanature inferiori costituiscono infatti un frammento di base
attica “ingigantito”, composto da scozia-listellotoro-plinto. A questo basamento, adeguato alle
dimensioni del “pilastro”, fa riscontro superiormente l’alta trabeazione corinzia, dimensionata
sull’intera altezza del fronte51. L’unità della composizione è ulteriormente confermata dal fregio
decorato con sculture disposte in modo funzionale alla struttura architettonica, come avviene nell’arco di Costantino. Coppie di aquile sono collocate in corrispondenza dei sostegni verticali binati, scudi con lo stemma Loredan si trovano sugli
assi delle colonne delle bifore laterali, liocorni su
quelle più interne, vasi fiammeggianti sull’asse
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18. Francesco di Giorgio Martini, codice
Magliabechiano, f. 44 r. (Firenze, Biblioteca
Nazionale).
delle colonne singole e un’aquila ad ali spiegate
segna la mezzeria della facciata52.
All’interno di questa “macchina” ben congegnata, si rilevano una serie di incongruenze nel
disegno di alcuni dettagli che però non compromettono l’ordine generale.
Le bifore, che “svuotano” la superficie del
fronte, inquadrate da un arco maggiore a tutto
sesto con oculo interposto tra gli elementi curvi,
presentano leggere variazioni ai diversi livelli. Gli
archi minori delle aperture al piano terreno sono
a sesto leggermente rialzato, e hanno modanature continue, parallele, al centro, all’abaco del capitello intermedio (ill. 12). L’imposta dell’arco
maggiore, dotata di base attica, è suddivisa verticalmente in due: verso l’esterno si presenta liscia,
verso l’interno è articolata da una specchiatura a
doppia C, piegata in maniera asimmetrica. Nel
secondo ordine gli archi maggiori impostano su
paraste aderenti a semicolonne, con capitelli e basi continue su entrambi gli elementi; a differenza
di quanto avviene nel primo e nel terzo ordine, le
modanature degli archi minori risultano tangenti
fra loro, e si uniscono sopra il capitello senza soluzione di continuità (ill. 13). Mentre al primo livello le modanature degli archi maggiori sono
tangenti all’architrave, al secondo i cervelli degli
archi oltrepassano la quota del collarino dei capitelli per agganciarsi alle mensole-chiavi; al terzo
livello, a parte la diversa posizione delle mensole,
le finestre presentano imposta e modanature
identiche a quelle del primo livello.
Anche nel disegno dei capitelli gli ordini si differenziano sui tre piani. Al piano terreno si adotta
uno pseudo-corinzio a un solo ordine di foglie,
con volute a S unite al centro del vaso, echino ad
ovoli e lancette, abaco curvo con un fiore o testa
di cherubino al centro (ill. 14, 16, 17)53. I capitelli
del secondo ordine sono di due tipi diversi: l’uno
assimilabile al modello dell’ordine inferiore, l’altro con proporzioni più slanciate, foglie a lobi
piuttosto lunghi e nervature ben distinte. I capitelli di questo secondo tipo hanno volute che si allacciano a metà del vaso su uno stelo che lo divide
verticalmente in due, echino intagliato a ovoli e
lancette, e abaco curvo con fiore al centro. Al terzo livello i capitelli, tutti uguali, riprendono lo
stesso modello adottato per il primo ordine, pur
presentando volute allacciate più in alto.
Un ultimo elemento degno di nota è l’originale configurazione delle mensole-chiavi poste
sui cervelli degli archi maggiori delle bifore ai livelli superiori. Secondo la stessa logica che informa il trattamento dell’ordine sottostante, in cui il
prolungamento delle modanature a parete sottintende un’estensione della valenza tettonica alla
muratura interposta tra le lesene, le mensole del
piano nobile – a voluta discendente con foglia applicata – sono dotate di abaco curvo, per analogia
funzionale e dimensionale con i capitelli.
Le differenze rilevate nel trattamento degli
ordini sui tre livelli sembrano essere riconducibili a diverse fasi cronologiche del cantiere. Il
piano terreno è caratterizzato da un linguaggio
più arcaico, ma gli elementi più originali si trovano proprio al suo interno: il muro columnato, il
partito dell’arco trionfale con i risalti di trabeazione in corrispondenza del binato, l’elemento
centrale a tre fornici. Anche la distribuzione delle mensole, che regola il passaggio al piano superiore, risulta formalmente assimilata agli elementi del primo livello. Al secondo ordine si
trovano soluzioni più mature: il binato di colonne scanalate su piedistallo, veramente trionfale,
e l’angolo risolto con la colonna a tre quarti ribattuta dalla lesena. Il disegno delle finestre, opportunamente reso più plastico e adeguato all’ordine di semicolonne, è però meno originale.
La capacità di declinare e di variare il concetto
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19. Codice Zichy, f. 126 (Budapest,
Biblioteca pubblica Szabò Ervin).
20. Codice Ashburnam 1828 App., f. 106
(Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana).
di rilegatura diventa qui occasione per l’invenzione della mensola con abaco curvo, che, seppur già presente altrove, solo qui assume una
profonda logica di necessità. Al confronto con i
primi due, il terzo livello appare stilisticamente
più tardo e composto di elementi “standardizzati” ripresi dai due piani inferiori. Tuttavia, nonostante i salti stilistici rilevati, l’impaginato di facciata risulta assolutamente unitario, e le differenze al suo interno dipendono solo da problemi
di esecuzione. L’ultimo livello non poteva che
conseguire dai primi due, e anche se fossero
mancati l’architetto e le maestranze che avevano
avviato l’esecuzione del palazzo, il progetto originale risultava così forte da non poter essere alterato: una concinnitas di tipo albertiano, cui nulla si poteva aggiungere, togliere o cambiare senza alterare “tutta quella musica”54.
L’analisi della facciata di palazzo Loredan
mette in luce elementi e relazioni che testimoniano di un artista con una conoscenza diretta
dell’architettura fiorentina, con una cultura archeologica estesa all’antico istriano e veronese,
aggiornato rispetto alle realizzazioni urbinati e
martiniane. I modelli fiorentini citati sono nu-
merosi, a partire dal progetto albertiano per palazzo Rucellai, di cui l’ideatore della facciata accoglie la originaria suddivisione in cinque campate, la sovrapposizione di tre ordini all’antica e
la rilegatura a parete delle basi. La parasta raddoppiata collegata tramite astragalo continuo è
motivo prediletto da architetti toscani quali Giuliano da Sangallo, e Bernardo Rossellino. Anche
il fregio invaso da mensole del primo ordine –
dall’ultimo livello del Colosseo – sembra seguire
le riprese fiorentine delle cornici terminali dei
palazzi Rucellai e Medici. Ad essi palazzi fa riferimento la forma delle bifore, anche se le finestre
di palazzo Loredan sono decisamente più plastiche di quelle fiorentine appena “ritagliate” nella
muratura55. Ma è proprio con questo tipo di bifora che si oltrepassa l’ambito fiorentino e si sconfina nel linguaggio martiniano, riferimento costante, come si vedrà, per l’ideatore di palazzo
Loredan: una finestra analoga risulta infatti annotata da Francesco di Giorgio nel codice Magliabechiano II.I.141 (f. 44 r; ill. 18), compare nel
codice Ashburnam 1828 Appendice (f. 106, dis.
153; ill. 20)56, e viene riprodotta in ambito veneziano nel codice Zichy (f. 126; ill. 19)57.
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21. Francesco di Giorgio Martini, codice
Saluzziano 148, f. 20 v (Torino, Biblioteca
Reale).
22. Codice Zichy, f. 152 (Budapest,
Biblioteca pubblica Szabò Ervin).
Nelle architetture lagunari degli ultimi
vent’anni del Quattrocento questo elemento
sembra restare appannaggio delle maestranze
codussiane: lo stesso modello è infatti presente
nel cleristorio della chiesa di San Zaccaria (in
una versione con oculo cuspidato58), in palazzo
Lando, nel finestrone della Scuola Grande di
San Giovanni Evangelista in una variante più
elaborata e più vicina a quella di palazzo Loredan59. La sua limitata diffusione, il suo carattere
rigorosamente plastico e la logica tettonica dei
suoi elementi costitutivi – l’imposta dell’arco
che assume il valore di ordine minore rispetto
alle semicolonne inquadranti che scandiscono la
facciata – consentono dunque di isolarla sia rispetto ai modi in cui evolve il modello veneziano della finestra-transenna gotica, sia nei confronti degli esempi fiorentini sopra citati.
L’adozione di colonne scanalate ha anch’essa
precedenti fiorentini – si vedano i tabernacoli di
Michelozzo e i portali rosselliniani – ma soprattutto albertiani, segnatamente la facciata del
Tempio Malatestiano60; mentre il motivo delle
mensole che sorreggono la trabeazione, e si trasformano in chiavi al terzo livello in corrispon-
denza dell’arco, sembra riprodurre il prototipo
brunelleschiano della scarsella della sacrestia di
San Lorenzo. D’altra parte la connessione mediante un grande concio di chiave tra arco e trabeazione, con omologazione dimensionale delle
chiavi d’arco ai capitelli dell’ordine, si presenta
negli archi trionfali romani61, e come motivo antico viene introdotto in area veneta da Donatello nel Miracolo della Mula, a Padova. L’associazione dell’abaco curvo alla mensola non sembra
però avere un precedente antico62: mensolechiavi d’arco sormontate da un abaco rettilineo
si trovano nel nartece dell’albertiano Sant’Andrea a Mantova63, mentre a Venezia questa associazione diventa una vera e propria “cifra” codussiana. Si trova in San Zaccaria – in forma più
allungata e con una decorazione figurata – applicata ai peducci posti a sostegno della trabeazione interna, e in Santa Maria Formosa applicata
sui cervelli degli archi che reggono la cupola64.
Come s’è anticipato, accanto agli elementi
fiorentini compaiono in palazzo Loredan citazioni dalle architetture e dai trattati di Francesco di Giorgio Martini. La rilegatura delle modanature orizzontali degli elementi dell’ordine
53
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23. San Zaccaria, veduta della facciata
(foto Fototeca del CISA “A. Palladio”).
24. Codice Ashburnam 1828 Appendice,
f. 134 (Firenze, Biblioteca Medicea
Laurenziana).
rappresenta infatti un tratto tipico martiniano65. Una facciata di palazzo definita alle estremità da coppie di lesene sovrapposte, con tutti
gli elementi orizzontali degli ordini rilegati a
parete – basi, imposte, capitelli, trabeazioni –
si trova nel codice Saluzziano (f. 20 v; ill. 21) e
nel codice Zichy (f. 152; ill. 22). Marvin Trachtenberg ha recentemente attirato l’attenzione su di un singolare montaggio di capitelli che
Michelozzo mette in opera nella loggia di San
Paolo a Firenze, in cui un peduccio composito
e un analogo frammento dello stesso ordine
sono collegati da una fascia con astragalo e
modanatura a ovoli e lancette66. Nel suo studio
Trachtenberg ha messo a fuoco l’atteggiamento di Michelozzo nei confronti degli elementi
degli ordini, considerati “malleabili ed elastici,
comprimibili ed espandibili”, secondo una logica non tettonica ma di carattere figurativo e
scultoreo67. La logica sottesa alle rilegature di
palazzo Loredan è invece intimamente tettonica, assai lontana da quella di Michelozzo e affine piuttosto alla ricerca di Francesco di Giorgio.
Il prolungamento a parete degli elementi
dell’ordine ha una certa fortuna in Venezia: lo si
osserva nel monumento a Pietro Mocenigo in
San Giovanni e Paolo di Pietro Lombardo
(1476-81), all’interno di Santa Maria dei Miracoli – peducci dal vaso scanalato prolungati lungo la navata – e negli sfondi prospettici della
Scuola Grande di San Marco di Tullio Lombardo, in cui capitelli-imposte sono resi continui
sulla parete di fondo68. In ambito codussiano ri-
torna nella cappella Corner ai Santi Apostoli:
all’esterno, nelle forme di un abaco modanato
che dal capitello recinge la scarsella in corrispondenza della quota del fregio interno; all’interno, come capitello rudentato prolungato
lungo le pareti della scarsella69. Consonanze più
evidenti con la mentalità martiniana si notano
anche nella facciata di San Zaccaria (ill. 23), in
cui l’imposta dell’arco viene prolungata lungo
l’intera parete di fondo del quinto livello come
in un disegno del codice Ashburnham 1828 Appendice (f. 106; ill. 20); e all’interno, nelle mensole ad abaco ricurvo ribattute dai peducci che
prolungano a muro le modanature dell’abaco.
Come elemento ancora più propriamente martiniano la rilegatura a parete degli elementi superiori dell’ordine si riscontra nelle architetture codussiane databili dopo il 1490: in San Giovanni Crisostomo e in Santa Maria Formosa, in
cui le modanature di un ordine “telescopico”
sono prolungate a parete in funzione di “ricinti”. Anche il sintagma della coppia di colonne su
piedistallo unico, determinante nell’impaginato
di palazzo Loredan, è registrato da Francesco di
Giorgio nel codice Saluzziano (f. 12v), e ritorna
nel codice Zichy (ff. 126, 129, 139); mentre una
coppia di ordini sovrapposti con il binato interamente aggettante si trova nel codice Ashburnam 1828 Appendice (f. 134; ill. 24). Un’altra
soluzione martiniana pienamente espressa in
palazzo Loredan, e adottata solo come particolare secondario in alcuni monumenti funebri
della bottega dei Lombardo70, è la specchiatura
a C delle imposte degli archi: Francesco di
54
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Giorgio la usa in Santa Maria del Calcinaio e
nel portico della villa a Le Volte presso Siena71.
L’impalcatura degli ordini di palazzo Loredan proviene invece dall’antico istriano e veronese. La conoscenza dell’arco dei Sergi e dell’arco dei Gavi è dimostrata dall’impiego del partito trionfale del binato su piedistallo, con colonna scanalata aggettante e soluzione angolare con
colonna a tre quarti, oltre che dall’accoglimento
di elementi di dettaglio: la rilegatura a parete
delle basi delle colonne, la base attica, l’astragalo prolungato tra i capitelli, i fusti delle lesene riquadrati da specchiature, il ritmo “allentato” del
binato (sul lato minore degli archi), i risalti di
trabeazione in corrispondenza dell’ordine, le fasce inclinate dell’architrave.
L’analisi stilistica della facciata di palazzo
Loredan lascia emergere una serie di indizi riconducibili alle personalità di Pietro Lombardo
(e dei componenti della sua bottega), e di Mauro Codussi. Tuttavia, una serie di temi formali
originali e la mentalità compositiva sottesa al
progetto sono propri del solo Codussi. Se in
quegli anni infatti non esiste a Venezia alcun
modello realizzato che possa essere indicato come un precedente diretto per il palazzo, la sperimentazione a grande scala della sovrapposizione di ordini e un’attitudine progettuale in cui
coesistono slittamenti semantici e trionfalismo
architettonico sono peculiari del modo di pensare l’architettura proprio di Codussi. La soluzione plastica dell’angolo, il motivo dell’arco
trionfale, la mensola-chiave d’arco con abaco
curvo72, sono tutti temi rintracciabili nella ricerca architettonica di Mauro. Decisivo risulta il
confronto con il settore codussiano della facciata di San Zaccaria (1483 e sgg.), in cui il motivo
dei sostegni appaiati sottolineati da risalti di trabeazione e dal piedistallo unificato si associa a
quello del pilastro-contrafforte. Quest’ultimo,
riconducibile al modello della facciata di San
Marco, è reiterato nella facciata-scena di San
Zaccaria nei quattro “contrafforti” composti da
una sequenza verticale di elementi diversi: pilastro e nicchia (realizzati da Antonio Gambello),
colonne binate pseudocorinzie, coppia di pilastri, colonne binate. L’insieme sembra tener
conto dei modelli antichi della “grande” sovrapposizione di ordini del Septizonium – visibile anche nell’antico più accessibile degli anfiteatri di
Pola e Verona – e dello schema dell’arco trionfale con colonne libere73. Il confronto con la facciata di San Zaccaria è inoltre prezioso per notare come Codussi declini gli ordini in modo
ambiguo: si veda la fascia neutra – una sorta di
attico – che separa i piani articolati dai nuclei di
colonne, ritmata da un ordine “bastardo” con
basi ma privo di capitello. Ancora, seguendo le
corrispondenze verticali, si nota uno slittamento nel passaggio dal terzo livello a quelli supe-
riori: il ritmo da triadico diventa binario, e sul
vuoto del fornice centrale del terzo livello viene
a trovarsi il pieno in asse costituito da un partito binato. È questa la linea di ricerca, intorno
alla verifica della flessibilità nell’uso dell’ordine,
che entrerà in sintonia con quella di Francesco
di Giorgio Martini.
Un viaggio di Francesco di Giorgio a Venezia è documentato tra la fine di novembre e la
fine di dicembre del 149074, e i modi codussiani
sembrano risentire immediatamente di questo
passaggio: si veda la tecnica di sovrapposizione
o prolungamento “telescopico” degli ordini di
Santa Maria Formosa e di San Giovanni Crisostomo, che Manfredo Tafuri ha associato al linguaggio martiniano75. Ma è probabile che un
contatto di Codussi con l’architettura di Francesco di Giorgio preceda l’incontro del 1490, e
possa risalire alla messa a punto del progetto
della cappella Corner ai Santi Apostoli (primi
anni ottanta del Quattrocento), che secondo
Matteo Ceriana rappresenterebbe infatti l’interpretazione codussiana del presbiterio di San
Bernardino a Urbino76. Risulta interessante notare però come, a partire dagli elementi più
martiniani delle architetture di Codussi, si
diffondano a Venezia soluzioni facilmente riproducibili – dalla rilegatura degli elementi dell’ordine, fino agli ordini “a fasce” – la cui fortuna è forse dovuta proprio alla loro semplicità
esecutiva77. La diffusione dei modi martiniani a
Venezia – cui è interessato anche il proto Angelo del Cortivo, l’autore del codice Zichy78 –
sembra infatti dovuta a una loro possibilità di
assimilazione a diversi livelli di consapevolezza,
che consente di adottare un linguaggio all’“antica”, legittimato da una “trascrizione” urbinate,
senza per questo entrare in conflitto con la
prassi veneziana79. Motivi urbinati vengono infatti accolti da architetti e scultori molto diversi tra loro, i cui cataloghi non risultano per ora
affatto chiari: protagonisti dell’architettura veneziana nel periodo a ridosso delle guerre cambraiche dalle personalità non precisamente definibili80. Il tessuto connettivo che collega le botteghe dei principali attori di questa scena, Mauro Codussi, Pietro Lombardo e Antonio Rizzo,
sono maestranze di alto livello, come Giovanni
Buora – che lavora con i primi due – in grado di
“trasportare” da una bottega all’altra soluzioni
architettoniche e motivi decorativi. È chiaro come Pietro sia il più attento agli aggiornamenti
di provenienza urbinate soprattutto per quanto
riguarda i motivi decorativi. Nulla o quasi di
questa attitudine si trova in Codussi, il cui linguaggio, rispetto a tale indirizzo dell’architettura veneziana, sembra andare in senso opposto.
Quanto l’uno è attento al recupero di un’atmosfera antiquaria attraverso una generica sintassi
decorativa antichizzante, tanto l’altro è proteso
55
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verso interpretazioni dell’antico di natura strutturale. Ciò che Codussi assimila sono i “principi architettonici” di Francesco di Giorgio: in
questo senso, l’influenza del codice Zichy sembra più determinante per il repertorio decorativo lombardesco che non per l’impostazione delle architetture codussiane. Nell’assorbimento
dei modi martiniani, i Lombardo e Codussi si
differenziano dunque nettamente: una considerazione, questa, grazie alla quale sarà forse possibile riconsiderare i cataloghi degli autori che
si sono contesi la scena veneziana alla fine del
‘400, riflettendo anche sulla possibilità che altri
artisti, di cui per ora non conosciamo i nomi, vi
fossero attivi.
Palazzo Loredan è probabilmente l’opera ultima di Mauro Codussi: dopo la sua morte, nel
1504, la sua figura viene dimenticata, e neppure
Francesco Sansovino è in grado di nominare
l’autore dell’edificio segnalato come unico degno precedente dei palazzi del padre. Manfredo
Tafuri ha scritto che il clima architettonico lagunare fra la morte di Mauro Codussi e il 1527,
condizionato dalle tragiche vicende seguite dal-
Appendice
Desidero ringraziare Patrizia Bortolozzo e Marco
Folin per l’aiuto nella trascrizione dei documenti.
1. ASVe, Giudici dell’Esaminador, Preces, b. 37, cc.
64r-64v
(1479, 4 agosto)
Die iiii augusti,
Manifestum facio ego Bertucius Lauredano quondam domini Georgii cum meis successoribus quia
in Dei et Christi nomine do, vendo atque transacto vobis domini Andree et Iohanni Baptiste Lauredano quondam domini Nicolai, in specie et
tamquam heredibus dicti quondam domini Nicolai patris vestri, vestrisque successoris cunctam et
super totam quandam proprietatem seu proprietatis partem que est una tercia pars pro indiviso
unius domus a stacio cum omnibus suis habentiis
et pertinenciis sita in confinio Sancti Hermacore
super canale magno cum una alia domo a sergentibus posita in dicto confinio in curia longa, que
sorte et divisione advenerat michi tamquam de
bonis domine Iacomine Memo, pretio ducatorum
quadringentorum; de quibus denariis ego Bertucius confiteor habuisse et recepisse in hunc modum, videlicet quod alias quondam dominus Nicolaus Lauredano persolvit quondam domino Angelo da Cha da Pexaro ducatos trecentos pro hac
vendictione; et ducati centum diffalcari debent de
una sententia lata in favorem domine Agnesine
Lauredano matris vestre et contra me Bertucium
Lauredano, quos eidem solvere promittitis; pro ut
sic inter nos Bertucium Lauredano et Andream
Lauredano nomine vestro et nomine fratrum vestrum pro quo promissit de rato concordes remansimus.
Domini iudices qui supra
Testis presbiter Isidorus Bagnolo
Testis Marcus Antonius Novello
Preco Carlo Pignollo
la disfatta di Agnadello, appare – nei confronti
del “centro” romano – quello di una distante
“periferia”81. In questo “flesso temporale”, palazzo Loredan e il suo autore costituiscono
un’anomalia, la cui memoria non riesce a sedimentarsi nel tempo. Si tratta, forse non casualmente, della stessa sorte subita da Giorgione,
uno dei principali protagonisti della scena artistica veneziana degli stessi anni, coinvolto anche nella decorazione di palazzo Loredan82. Come Francesco Sansovino non indaga sull’identità dell’architetto di palazzo Loredan, così
Giorgio Vasari rinuncia a comprendere il significato delle allegorie affrescate da Giorgione
sulla facciata del fondaco dei Tedeschi: “Il Giorgione, non pensò se non a farvi figure a sua fantasia per mostrar l’arte; ch’è nel vero non si ritrova storie che abbino ordine o rappresentino i fatti
di nesuna persona segnalata o antica o moderna;
ed io per me non l’ho mai intese, né anche, per
dimanda che si sia fatta, ho trovato chi l’intenda”83. Consapevoli di vivere nella “pienezza del
tempo”, entrambi – forse – non avvertono gli
interrogativi posti dalle origini di tale pienezza.
2. ASVe, Giudici dell’Esaminador, Preces, b. 39, c.
19v
(1482, 19 giugno)
Die xviiii iunii
Manifestum facio ego Marcus Lauredano quondam domini Georgii cum meis successoris quia in
Dei et Christi nomine do, vendo atque transacto
vobis domino Andree Lauredano quondam domini
Nicolai vestrisque successoris cunctam et super totam quondam proprietatem seu proprietatis partem, que est una tercia pars unius domus a statio
divise cum una domo parva a sergentibus cum omnibus suis habentiis et pertinentiis sita in confinio
Sancti Hermacore, que sorte et divisione facta inter nos michi advenit pro ut in divisione ipsa apparet, pretio ducatorum 480 iuxta formam mercati.
Domini iudices qui supra
Testis ser Paulus Vaserno aurifex
Testis Carlo Pignolo preco
Preco Carlo Pignolo
3. ASVe, Giudici dell’Esaminador, Preces, b. 43, c.
57r
(1489, 3 settembre)
Die iii septembris
Manifestum facio ego Andreas Lauredano quondam domini Nicolai cum meis successoris quia in
Dei et Christi nomine do, vendo atque transacto
vobis ser Antonio Francho quondam ser Francisci
vestrisque successoris cunctam et super totam
quandam proprietatem que est unum terrenum
vacuum cum suis muraleis ruinatis cum omnibus
et cetera, situm in confinio Sancti Hermacore
pretio ducatorum 300 auri iuxta formam mercati.
Domini iudices qui supra
testis ser Alvixe Novello
testis Iacobus Bagatino preco
preco Tadeus
4. ASVe, Giudici dell’Esaminador, Preces, b. 45, c.
33r
(1494, 15 settembre)
Die xv septembris indictione xiiia
Manifestum facio ego Iohannes Natalis Salamono
quondam domini Thomae cum meis successoris
quia in Dei et Christi nomine do, vendo atque
transacto vobis domino Andreae Lauredano
quondam domini Nicolai vestrisque successoris
cunctam et super totam quandam proprietatem
que est una domus a sergentibus ad pedem planum cum omnibus suis habentiis et pertinentiis
sita in confinio Sancti Hermacore pretio ducatorum .80. iuxta formam mercati. Promittens ego
Iohannes Natalis venditor deffendere vos dominum Andream emptorem et heredes vestros ab
omni homine et persona et precipue ab affinibus
meis qui propter dictam venditionem ullo umquam tempore vobis vel heredibus vestris aliquam
molestiam non dabunt. Quod si secutum fuerit
promitto vos deffendere et guarentare laboribus
et sumtibus meis.
Domini iudices qui supra
testes precones
preco Thadeus
5. ASVe, Dieci Savi sopra le Decime, Redecima 1514,
b. 43, cedola 108.
+ 1514 adì 22 settembre.
Chondizion del quondam messer Andrea Loredan asegnata ali magnifici signori X savi per i suo
chomesari et prima [d’altra mano fino a testamento] da esser messa in nome de madonna Maria fo
sua mogiere per fino che la vive secondo la forma
del testamento.
Una chaxa da stazio posta in la chontrà de San
Marchuola sopra Chanal Grando chon lo suo mezado in la qual abita in lo primo soler madona
Maria Loredan fo sua chonsorte et in lo segondo
messer Lorenzo e Silvestro Minio fo de messer
Andrea suo fradeli li qual non pagano fito alguno
la qual chaxa è sta vista et stimada per i magnifici
signori X savi per ducati 100. Chon due chaxete
orbe chontigue ala dita chaxa et chon duo magazeni, le qual sono sta redute in una sola chomo
56
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per termenazion fata nel l’ano 1510 adì 28 zener
de man de ser Ieronimo Amai et sotoscrita per li
magnifici signori X savi apar, la qual è in l’ofizio
di le signorie vostre.
Item in dita chontrà due chaxette in soler in una
dile qual abita ser Ogniben Zigoto, paga de fito
al’ano ducati 14; et in l’altra ser Zuan Maria de
Pentor da Trevixo paga de fito al’ano ducati 13.
Item in la vila de Fossa Lovara una chaxa de muro chon lo suo chortivo et brolo chon una pusision de chanpi 33 infra tere e pradi posti in dita
vila afitadi a ser Piero Rodela per li infrascriti afiti et prima: Formento stara veniziani n° 25
Vin ala mità che si schuode uno anno per l’altro
per dita mità masteli 10
megio stara padoani n° 2
Porcho uno de pexo de lire 140
Item in la vila de Peraruol in Padoana soto el vicharia’ de Oriago uno chortivo chon una chiexura de chanpi 7 in zircha tra pradi e tereni afitada a
ser Zuan Brochato per li sotoscriti afiti et prima
Formento stara veniziani n° 7
Vin masteli 10
Li qual fiti non si puol schuoder dali diti lavoradori per esser la mazor parte dele dite tere pradi:
li quali pradi è stado pascholadi dali bestiami del
Vexentin e de altre parte et anche per esser li poveri chontadini del tuto ruinati et destruti chome
benisimo puol chonprender vostre signorie.
[d’altra mano fino a subscripsit:] 1514 adì 23 setembre recepta per mi Iacomo Trivisan ai X savii
et zurada per messer Silvestro Minio. Piero Foserollo ai X savii subscripsit.
In San Marchuola la chaxa da statio per ducati
100
Do chaxe in dicto locho per ducati 27
ducati 127 de tocha
per decima lire 1: 5: 4:26
Possa de fora chaxe in vila
de uxo e consumo ducati 5: 4: 4
formento stara 32
ducati 21: 8
vin masteli 20
ducati 5
meio stara 2 padoani
ducati 0: 5:10
porco n° 1
ducati 1:12
summa ducati 33: 5:14
per decima lire 0: 6: 7:24
summa lire 1:12: 0:18
Tratto di là fra V. ducati 61 lire 1:10:11:18
cresse lire 0: 1: 1
6. ASVe, Notarile Atti, notaio Marc’Antonio Figolin, b. 5284, cc. 206r-207v
(1593, 16 luglio)
Die Veneri 16 Iulij 1593 ad.
Havendo il clarissimo ser Vettor Calerghi del
quondam clarissimo signor Mattio come patrone
dello stabile et proprietà in confino di San Marcuola sopra il canal grande, che soleva essere delli clarissimi Loredani nominata non Nobis domine, levato via la scala vecchia nella corte discoperta di essa sua proprietà, e principiato à fabricare
da novo in detta corte un’altra scala di pietra, ma
in molto maggior lunghezza et nel modo, et maniera, che dal principio fatto si vede. La qual scala s’accosta al muro dello stabile et proprietà el
clarissimo signor Alvise Soranzo quondam clarissimo signor Zuanne quondam clarissimo signor
Pietro respicente in, et per sopra la detta corte discoperta di esso clarissimo Calergi, et essendo stato impedito ditto lavoro dal predetto clarissimo
Soranzo mediante il chiamore per lui fatto fare
per l’officio clarissimo di Proprio fin sotto dì 10
Marzo 1591: regolato poi tutto dì XI Agusto
1592: fondato sopra la carta vecchia, sive sententia arbitraria fatta fino dell’anno 1502 dì 30 Marzo tra li autori dell’una et dell’altra di esse parte
patroni di esse proprietà supradette, per la qual
bizzarria consta chiaro, che detta scala vecchia
hora ruinata arrivava solamente et terminava per
mezzo il muro della casa di esso clarissimo Soranzo dividente la sala della crozzola del suo portego,
et più uno più verso la sua balconada, onde detta
scala occupava detta corte per piedi vintiquattro
once 2 solamente; fermando il passo nel muro
maestro di detta casa di detto clarissimo Calergi,
venendo al termine et confini supradetto, il qual
termine era distante piedi quarantanove dal muro
verso le chà basse dividente detta corte dal campiello fermado el passo in esso muro el studietto
fra il confin della scalla supradetta per essere detta corte larga fra detti dui muri in tutto piedi settantatre once 2 come dalla mesura si è visto tolta
alla presentia de ambe le parte.
Et havendo finalmente detto clarissimo Calergi
come desideroso di far detta scalla instantemente
ricercato et fatto ricercare detto clarissimo Soranzo con proponendogli anco diversi partiti in tal
proposito, et volendo esso clarissimo Soranzo farli cosa grata. De qui è che con il mezzo di communi amici sono finalmente devenuti all’infrascripte conventioni, et accordo; cioè che detto
clarissimo signor Soranzo concede autorità al detto clarissimo signor Callergi et contenta che quello non ostante il chiamor, et sententia arbitraria
supranominata, possi et voglia ad ogni suo beneplacito far finire el lavoro incominciato dalla scalla supradetta di lunghezza però, altezza, et mesura infradechiarite, et non altrimenti, la qual scala
sia in libertà di esso clarissimo Calergi, et suoi heredi di poter perpetuamente tenir, et anco levar
via quandocumque le paresse senza contraddictione alcuna.
Et questo ha fatto, et fo detto clarissimo Alvise
Soranzo perchè all’incontro clarissimo signor
Alessandro Molena fo di messer Evangelista procurator del clarissimo Calergi, et qual promette
che rattificarà alla presentia di messer nodaro et
testes infrascripti ha dato, et attualmente esborsado al detto clarissimo signor Alvise Soranzo pre-
sente et ha recevudo ducati veneti quattrocento
da lire 6 soldi 4 per ducato per cassa, et ricompensa della concessione supradetta.
Dovendo dicto clarissimo Soranzo, et suoi rapresentanti, stante l’esborso supra perpetuamente
conservar il clarissimo Callergi, et suoi rappresentanti nel quieto et pacifico possesso di detta scala,
et questo a tutte spese di detto clarissimo Soranzo, il quale in caso di privation di detta scalain
perpetuo sia obligato ut perpetuo restituir a ditto
clarissimo Calergi di predetti ducati 400 et inoltre
pagarli tutte le spese andate nel far di quella dovendo però ogni materia restar per conto et benefficio di esso clarissimo Soranzo et suoi rappresentanti con questa espressa dechiaratione, senza
la quale dicto clarissimo Soranzo non saria condesieso alla presente scrittura, che per quella non
sii, ne se intendi pregiudiciato in parte alcuna alle
ragioni, et attioni dell’antecedente sententia arbitraria 1502, la quale da questa conventione in fuori, resti in tutte l’altre sue parti nel suo vegor, et in
tutto, et per tutto.
Misure de quali si fa mentione di supra.
Che il primo scallin della scalla per ascender sia
distante per altezza dalli ferri inzancadi del balcon
della camera appresso la crozzola del portego del
clarissimo Soranzo pie diese quarte 3 frontando il
passo su il zapar di esso scalin fin al livello delli
ferri inzancadi supra.
Che il primo scalin supradicto sii distante dal muro verso le case basse verso il campiello pie 32 1/2
frontando el passo nel dicto muro fino al baston
di dicto primo scalin.
Che il zappar di dicto primo scalin sii in livello del
piano di tutta la corte del clarissimo Callergi si
fattamente che detta corte venghi ad essere sotto
detto scalin. Super quibus rogatus
Testes D. Jo. Nicolaus Dorinus notarius venetiarum
Excellentissimo D. Philippus de Georggi quondam excellentissimo domino pietri
7. Genealogia del ramo familiare di Andrea Loredan
(da M. Barbaro, Arbori de’ Patrizi Veneti, ASVe,
Misc. Codd. St. Ven. 18, vol. IV, c. 334. Le date indicate si riferiscono alla cerimonia di presentazione per la “Balla d’Oro”).
Bertucci
1365
Nicolò
Zorzi
Bertucci
1442
Bertucci
Alvise
1487
Piero
1504
Andrea
1521
Piero
Nicolò
1432
Zorzi
1446
Andrea
1468
Zuan. Batt. Antonio
1506
1508
Antonio
1551
Marco
1430
G. Batta
1471
Zorzi
1446
Lorenzo
1511
Alvise
1544
Francesco
Piero
1473
Bernardo
1510
Marco
1505
Domenico
1549
57
10-11|1998-99 Annali di architettura
Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza
www.cisapalladio.org
* Questo saggio è frutto della rielaborazione di parte della mia tesi di laurea, discussa presso il Dipartimento di Storia
dell’Architettura dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, dal titolo
Ca’ Loredan Vendramin Calergi a Venezia:
la figura di Mauro Codussi attraverso il palazzo di Andrea Loredan (1479-1581), relatrice prof. Manuela Morresi (aa. 199697). Questo lavoro deve molto al confronto costante con la professoressa Manuela Morresi cui rivolgo un sentito ringraziamento. Desidero ringraziare inoltre tutti coloro che mi hanno aiutato con
indicazioni, consigli e suggerimenti preziosi, in particolare la dottoressa Maria
Francesca Tiepolo dell’Archivio di Stato
di Venezia, il professor Eugenio Vassallo,
Andrea Guerra, Matteo Ceriana e Filippo
Pagliani.
A Manfredo Tafuri, sotto la cui guida è
stata avviata questa ricerca, ai suoi consigli, al suo insegnamento, va la mia più
profonda riconoscenza.
1. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia 1581, pp. 140
e 149 (corsivi miei). Il termine “macchina” è impiegato da Francesco Sansovino
per il corpo al rustico della fabbrica della
Scuola Grande della Misericordia del padre Jacopo. Sull’edilizia civile veneziana
tra XV e XVI secolo cfr. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, pp. 323; id., Ricerca del Rinascimento, Torino
1992, pp. 305-359; id., Il pubblico e il privato. Architettura e committenza a Venezia,
in Storia di Venezia. Dal Rinascimento al
Barocco, vol. VI, Roma 1994, pp. 367-447.
Cfr. anche J. Mc Andrew, L’architettura
veneziana del primo rinascimento, a cura di
M. Bulgarelli, Venezia 1995 (ed. orig.
1980); E. Concina, Storia dell’architettura
di Venezia dal VII al XX secolo, Milano
1996; M. Morresi, Renovatio et Prudentia.
Venezia e le città del Dominio, in Storia dell’Architettura Italiana. Il Quattrocento, a
cura di F.P. Fiore, Milano 1998, pp. 200241. Sul tema della residenza civile nel
Rinascimento cfr. Il palazzo dal rinascimento a oggi, atti del convegno, a cura di
S. Valtieri, Roma 1988; C.L. Frommel,
Abitare all’antica: il palazzo e la villa da
Brunelleschi a Bramante, in Rinascimento.
Da Brunelleschi a Michelangelo, Catalogo
della mostra, a cura di H. Millon, Milano
1994, pp. 183-230.
2. “Le sale [dei palazzi privati] si facevano
da gli antichi in crocciola, cioé in forma
di T”. Sansovino, Venetia..., cit. [cfr. nota
1], p. 245. Cit. in E. Concina, Pietre, parole, storia. Glossario della costruzione nelle
fonti veneziane (secoli XV-XVIII), Venezia
1988, p. 67.
3. Daniele Barbaro, I dieci Libri dell’Architettura tradotti e commentati, Venezia
1556, VI, p. 179.
4. Secondo Arnaldo Bruschi lo schema a
travata ritmica dei palazzi della Cancelleria e Castellesi è da ricondurre a una contaminazione dello schema brunelleschiano del palazzo di Parte Guelfa con palazzo Rucellai. Cfr. A. Bruschi, Bramante architetto, Roma-Bari 1969, p. 598. Sul palazzo della Cancelleria cfr. C.L. Frommel, Raffalele Riario committente della Cancelleria, in Arte, committenza ed economia a
Roma e nelle corti del Rinascimento, 14201530 Atti del convegno Internazionale
(Roma 24-27 ottobre 1990), Torino 1995,
cit., pp. 206-207; M. Morresi, Baccio Pontelli tra romanico e romano: la chiesa di Santa Maria Nuova a Orciano di Pesaro, il Belvedere di Innocenzo VIII e il palazzo della
Cancelleria, in “Architettura. Storia e Documenti”, 1991-1996, pp. 99-151. Soluzioni d’angolo comparabili con elemento
di cerniera emergente si trovano in ambito martiniano nel codice Ashburnam
1828 App. a c. 134. Un certo interesse per
questo tipo di soluzione è dimostrato da
Leonardo da Vinci nei disegni del codice
Atlantico fol. 114 r.b. (datato da Pedretti
al 1515); fol. 281 v.a. (1515); fol. 295 v.a.
(1489); negli studi di villa per Carlo
d’Amboise (progetto 1506-8) all’interno
della copertina posteriore del codice sul
volo degli uccelli (ca. 1506, Torino Biblioteca Reale); negli studi di facciate di
palazzo (ca. 1506-8), Cod. Arundel, f.106
v; nello studio per palazzo Medici a Firenze (1515), Cod. Atlantico, fol.315 r.b.
Il disegno della Biblioteca Reale di Torino è stato già messo in relazione con la
visita di Leonardo del 1500 a Venezia e
con palazzo Loredan: C. Pedretti, Leonardo, Studi di architettura, in I tempi di
Giorgione (Atti del Convegno, Castelfranco 1974), a cura di R. Maschio, Roma
1994, pp. 107-108.
5. Cfr. M. Tafuri, scheda su palazzo Caprini in C. L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Raffaello architetto, Milano 1984, pp.
239-240, dove si riportano le principali
ipotesi di datazione.
6. T. Temanza, Vite dei più celebri architetti e scultori veneziani, Venezia 1778, p.
124. Giovan Antonio Selva attribuisce la
fabbrica a Martino Lombardo, ponendo
nuovamente l’accento sui tre ordini corinzi e sulla trabeazione che “con il suo
aggetto corona con maestosa grandezza
tutto il fabbricato”: L. Cicognara, A. Diedo, G. A. Selva, Le fabbriche e i monumenti più cospicui di Venezia, Venezia 1838, vol.
I, pp. 127-128. L’attribuzione del Temanza a Sante Lombardo è corretta dal Fontana, il quale, considerando l’incongruenza tra le date di edificazione del palazzo e
la data di nascita di Sante, avanza il nome
di Pietro Lombardo. In un secondo momento lo stesso Fontana si orienta sui nomi di Martino Lombardo e del figlio Moro, tenendo però aperta l’ipotesi dell’avvicendamento di diverse maestranze all’interno del cantiere: G. J. Fontana, Cento palazzi di Venezia, Venezia 1912 (1865),
pp. 403-408; id., Venezia monumentale. I
palazzi, Venezia 1967 (1845-1863), pp.
16-20. L’attribuzione ai Lombardo (in
particolare a Martino) è ribadita da Pietro
Selvatico, Sull’architettura e sulla scultura a
Venezia, Venezia 1847, pp. 193-194, in
base a considerazioni stilistiche. Jacob
Burckhardt, Der Cicerone, Basel 1885 (ed.
it. Firenze 1952), pp. 245-246, segue
Francesco Sansovino quando indica palazzo Loredan come unico esempio presansoviniano degno di essere descritto nel
Cicerone.
7. P. Paoletti, L’architettura e la scultura
del Rinascimento a Venezia, Venezia 1893,
vol. II, pp. 187-188. Anche dall’analisi
dei particolari Paoletti è portato a concludere per una paternità codussiana.
Egli tuttavia condivide parzialmente l’opinione di Fontana precisando come parecchi elementi del palazzo possano essere ascritti a un secondo periodo della fabbrica, la cui direzione potrebbe essere
stata affidata a Pietro Lombardo o a suo
figlio Tullio. A. Venturi, Storia dell’arte
italiana, vol. VII, L’architettura del Quattrocento, II, Milano 1924, pp. 586-589,
segue Paoletti riguardo ai dubbi circa
l’autografia delle singole parti, sottolineando comunque che Codussi “ne è stato il vero, il grande iniziatore, (e) ha ispirato quel trionfale termine dell’architettura quattrocentesca”.
8. S. Bettini, La critica dell’ architettura e l’
arte del Palladio, in “Arte Veneta”, III,
1949, pp. 55-69, p. 65.
9. Mc Andrew, L’architettura veneziana del
primo rinascimento, [cfr. nota 1], pp. 297300.
10. Ibidem, p. 300. La prima monografia
sul palazzo, in forma di guida, è di Maria
Luxoro, Il palazzo Vendramin Calergi, Firenze 1957, che raccoglie gli studi precedenti, editi e inediti, ricostruendo i passaggi di proprietà e la genesi delle collezioni d’arte presenti nel palazzo. Sulla
stessa linea e senza aggiunte cfr. la guida
di G. Mariacher, Il palazzo Vendramin Calergi, Treviso 1965. L. Olivato e L. Puppi,
Mauro Codussi, Milano 1977, pp. 164-165,
221-226, assumono senza discussione l’attribuzione codussiana di palazzo Loredan,
riproponendo i passaggi di proprietà del
palazzo e identificando, attraverso alcuni
nuovi documenti (che saranno discussi oltre) estremi cronologici più precisi per la
sua edificazione. Un’utile rassegna degli
arredi del palazzo e della loro storia è discussa in M. Gemin e M. Pedrocco, Ca’
Vendramin Calergi, Milano 1990.
11. Archivio di Stato di Venezia (d’ora in
poi: ASVe), Avogaria di Comun, Balla d’Oro, Reg. 164/III, c. 203v Per la genealogia
di Andrea Loredan cfr. M. Barbaro, Arbori de patrizi veneti, ASVe, Misc. Codd. St.
Ven. 18, vol. IV, c. 334.; G.A. Cappellari
Vivaro, Campidoglio Veneto, Biblioteca
Nazionale Marciana (d’ora in poi BNM)
Cod. It. Cl. VII/16, 8305, ad vocem Loredan, albero H. Cfr. inoltre E. A. Cicogna,
Delle iscrizioni veneziane, Venezia 1824,
vol. II, pp. 382-387.
12. ASVe, Avogaria di Comun, Matrimoni
di nobili veneti, b. 106/1. Alla famiglia Badoer apparteneva lo iuspatronato della
Scuola Grande di San Giovanni Evangelista. Ai Badoer è assegnata la promozione degli interventi riguardanti la prima
sistemazione della sede della Scuola nel
1349, e il suo ripristino edilizio nel 1453.
Cfr. L. Olivato, L. Puppi, Mauro Codussi,
cit. [cfr. nota 10], pp. 93, 137 n. 195.
13. ASVe, Segretario alle voci, Misti, reg.
9, c. 6v Per la ricostruzione dettagliata
del cursus honorum di Andrea Loredan,
l’analisi della sua figura politica e la sua
attività di committente d’arte si veda R.
Martinis, Cà Loredan- Vendramin-Calergi,
[cfr. nota *].
14. ASVe, Segretario alle voci, Misti, reg. 7,
c. 4v; Sanudo, Diarii, a cura di R. Fulin et.
al., Venezia 1879-1903,vol. IV, col. 364.
15. ASVe, Segretario alle voci, Misti, reg. 8,
c. 50r; Sanudo, Diarii, cit., vol. IV, col.
427.
16. Cfr. E. Concina, Fondaci. Architettura,
arte e mercatura tra Levante, Venezia e Ale-
magna, Venezia 1997, pp. 202-212. Tra i
patrizi coinvolti nel dibattito sul nuovo
Fondaco troviamo inoltre i nomi di Andrea Gritti, Antonio Tron, Paolo Trevisan (uno dei Procuratori della fabbrica
codussiana di Santa Maria Formosa),
Zorzi Emo, Bernardo Bembo.
17. Per l’elezione in Consiglio dei Dieci
cfr. ASVe, Segretario alle Voci, Misti, reg. 9,
c. 32; Sanudo, Diarii, cit. [cfr. nota 14],
vol. V, col. 277; vol. VI, coll. 277; 323;
363. Nel 1506 Loredan sarà capo del
Consiglio dei Dieci nei mesi di gennaio
(con Piero Duodo e Piero Cappello),
aprile (con Piero Marcello e Nicolò Donato) e giugno (con Alvise Cappello e
Bernardo Bembo).
18. Cfr. Tafuri, Venezia e il Rinascimento,
cit. [cfr. nota 1], p. 59. Ambedue le parti
sono presentate dai capi dei Dieci per il
mese di maggio: Bernardo Bembo, Pietro
Cappello e Zorzi Emo. I tre sono personaggi estremamente diversi tra loro: Bernardo Bembo, legato alla Santa Sede,
Pietro Cappello, e Zorzi Emo, esponenti
dell’ala politica cosiddetta oltranzista.
Zorzi Emo risulta a sua volta coinvolto
nella trasformazione del transetto della
chiesa di San Giovanni e Paolo in mausoleo degli eroi della guerra cambraica, a
partire dal 1510, e con ruolo di procuratore del convento dal 1513. Su Zorzi
Emo cfr. ibidem, pp. 34-35, n. 31, L. Puppi, Il tempio e gli Eroi, in La grande vetrata
di San Giovanni e Paolo, Venezia 1982, pp.
21-35. Su Bernardo Bembo, che in qualità di Podestà a Ravenna nel 1482 è committente di Pietro Lombardo per il restauro della tomba di Dante e per la costruzione delle colonne in piazza, cfr. A.
Ventura, Bembo Bernardo, in Dizionario
biografico degli italiani, vol. 8, Roma 1966,
pp. 103-109.
19. Il 5 giugno Girolamo Priuli annota
nei suoi Diarii che fra Giocondo “fu
mandato a Corfù per vedere quella citade
et quelli castelli et fortificharli, perchè vi
hera qualche dubietà e diverse opinione
nel modo di fabricharlo, per intendere la
opinion sua”: V. Fontana, Fra Giocondo
“Consilii X Maximus Architectus” (15061514), in I tempi di Giorgione, cit. [cfr. nota 4], pp. 119-124, p. 119.
20. ASVe, Segretario alle voci, Misti, reg. 8;
c. 23v, Sanudo, Diarii, cit. [cfr. nota 14],
vol. VII, col. 67; Biblioteca del Museo
Correr, Ms. PD., c 819, fasc. 8.
21. Sanudo, Diarii, cit.[cfr. nota 14], vol.
VIII, coll. 28, 81, 271, 299-301, 328.
22. Cfr. Sanudo, Diarii, cit. [cfr. nota 14],
vol. XI, coll. 794, 834-35, 841; I libri
Commemoriali della Repubblica di Venezia.
Regesti, Venezia 1876, vol. VII, pp. 109,
201-202; vol.XIX, pp. 197, 201 vol. XX,
p. 110. Sull’intera vicenda cfr. lo studio
monografico di F. Gilbert, The Pope, his
Banker and Venice, Cambridge (Mass.) and
London 1980.
23. Sanudo, Diarii, cit. [cfr. nota 14], vol.
XIV, col. 350.
24. D. Barbaro, Storia Veneziana, in “Archivio Storico Italiano”, VII/II, 1844, p.
1004: “Messer Andrea Loredano, ancorché vedesse le nostre genti piene d’animo
e di ardire, andava nondimeno intorno la
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notte, facendo ufficio di Capitano; e ricordava loro, che ormai non dovevano
combattere per la Repubblica Veneziana
soltanto, ma per riacquistare e mantenere
l’onore e la libertà di tutta Italia”. L’orazione del Loredan è trascritta in BMC,
Misc. XXI, cc. 1r.- 3r.
25. Girolamo Priuli, Pretiosi frutti del
Maggior Consiglio, BMC, Cod. Cic. 378
(=2890), ad vocem Andrea Loredan: “Spedito l’anno 1513 Provveditor General in
Terraferma, fu nelle guerre con l’Imperator Massimiliano, fatto prigion da nemici
in un fatto d’arme presso Vicenza li 11 ottobre, restò estinto per mano di un soldato, mentre con un altro contendeva di chi
dovesse essere, ritrovandosi egli in età di
63 anni, abbandonato dai suoi, mentre coraggiosamente cercava di fermar chi fuggiva, et portado cadavero a Venezia, riposto nelle Arche a piedi dell’altar maggiore
a San Michiel per andar a Murano […]”.
M. Sanudo, Diarii, cit., [cfr. nota 14] vol.
XVII, coll. 181-182: “Andrea Loredan
[…] virilmente si portoe et è morto da
vero patricio. Era in una cassa et fu posto
in chiexia di San Marcuola […]. Fo sepulto honorifice con assa’ preti e scuole,
e l’honor che si po’ far a ogni degno senator. Erano piate assa’, e portato a San
Michiel di Muran, e posto in deposito,
vol far un arca in la capella granda, e lassa ducati ... per far la cupola di piombo.
Et fo letto il suo testamento. Lassa la casa granda a suo nepote Andrea Loredan
di sier Alvise conditionata, ma prima la
sia in vita soa di soa moglie, a la qual lassa ducati 4000 computà la soa dote e tuto il mobele di casa et certa possession
[…] e fo laudato; et dirò cussì, è morto
con bona et optima fama”.
26. “[…] El corpo mio volio sia sepulto a
San Michiel de Muran in la capella granda, et che li sia ateso ai frati quanto in una
scriptura se contien, che serà con questo
per esser cusì rimasti dacordo. El dito mio
stabille et possesion, da poi la morte dela
mia cara consorte, volio la sia de Andrea
Loredan del sopraditto Alvixe, conditionada talmente, che la vada de heriede in
heriede mascholi ad infinitum fino se ne
troverà, e non se ne trovando nel più
proximo, che sia in cha’ Loredan. […] Et
volio, che mai la non si possa vender ne
inpegnar et segurar dotte, ne far alguna
obbligation possibille, ma che sempre la
resti in cha’ Loredan”: ASVe, Notarile Testamenti, Bernardo Zio, b. 1058, ced. 53.
Una trascrizione parziale del testamento è
pubblicata in Olivato e Puppi, Mauro Codussi, cit. [cfr. nota 10], p. 222. Esistono
tre copie del documento: ASVe, Notarile
Testamenti, Bernardo Zio, b. 1058, cedola
53, ASVe, Miscell. testamenti, Atti Cesare
Ziliolo, Notai Div., b. 29, perg. 3045, e
una trascrizione del 1673 in BNM, Cod.
It. VII 480=7785, c. 197, notaio Alessandro Contarini (probabilmente da mettere
in relazione all’inventario dei beni sottoposti a fidecommesso da Andrea Loredan
di Nicolò redatto nel 1681 in ASVe, Giudici di Petizion, Inventari, b. 388).
27. Su San Michele in Isola cfr. E. Martène, Veterum scriptorum et monumentorum
... amplisima collectio, III, Parisiis 1724
(per la corrispondenza relativa alla committenza dell’edificio); V. Meneghin, San
Michele in Isola di Venezia, Venezia 1962;
Mc Andrew, L’architettura veneziana del
primo Rinascimento, cit. [cfr. nota 1], pp.
202-226; Olivato e Puppi, Mauro Codussi,
cit. [cfr. nota 10], pp. 177-183.
28. Nel 1505 Loredan, insieme ad Antonio Tron, prende posizione contro Andrea Gritti, i Savi del Consiglio e i Savi di
Terraferma, difendendo i frati camaldolesi nella vicenda dell’esproprio dell’Abbazia di Carceri (nei pressi di Padova), il cui
beneficio ecclesiastico è destinato dal papa al cardinale Grimani. A tale vicenda si
può ricondurre un documento del 1513
in cui Loredan viene definito “grande
Protettore del Monastero, anzi della
Congregazione, il che in cagione della lite della commessa delle Carceri, tutti essendosi ritirati, egli solo si mantenne immobile defenditore della Congregazione”. ASVe, San Michele in Isola, b. 2, tomo
1, cc. n. n. (dopo c. 238), in data 14 giugno 1513. L’episodio della commenda
dell’Abbazia di Carceri è riportato anche
dal Sanudo, Diarii, cit. [cfr. nota 14], vol.
IV, coll. 186-187, 17 giugno 1505. Il documento è stato trascritto da V. Meneghin, San Michele in Isola, cit. [cfr. nota
27], vol. I, p. 316-317, il quale tuttavia
non lo mette in relazione con la figura di
Andrea Loredan e con la natura dei rapporti tra questi e i Camaldolesi.
29. ASVe, San Michele in Isola, b. 2, tomo
2, cc. 27r.- 32r., ibidem, b. 3, c. 189r.190r; V. Meneghin, San Michele in Isola,
cit. [cfr. nota 27], vol. I, pp. 313, 316320. La copertura in piombo della cappella grande – cui fa riferimento l’epigrafe posta sulla parete sinistra della cappella “Magnificaque Testvdine Huic Templo Addita”- risale ad un periodo posteriore alla conclusione del cantiere codussiano: la cupola risulta infatti terminata
nel 1482 ad esclusione del guscio esterno, mentre la decorazione del soffitto
della cappella è ultimata nel 1499, come
attestato dal rinvenimento di una ciotolina per colori che reca la data 31 luglio
1499. La cupola costruita con il lascito di
Andrea Loredan, documentata nelle incisioni, nel 1671 venne incendiata da un
fulmine e sostituita nel 1774 da una copertura a spioventi, nonostante le proteste del monastero con la famiglia Loredan che ne manteneva lo iuspatronato.
Andrea Loredan non è il primo ad interessarsi della cappella maggiore di San
Michele: nel febbraio 1482 un certo Girolamo Donato (omonimo dell’umanista
Girolamo Donato quondam Antonio) lasciava nel suo testamento un legato di
cento ducati d’oro affinché fosse “salesato la cappella granda”. Cfr. ASVe, San
Michele in Isola, b. 3, Testamenti 12281705, c. 27; M.L. King, Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, Roma
1989 (ed. orig. 1986), p. 532.
30. G. Cozzi, Domenico Morosini e il “De
bene instituta republica”, in “Studi Veneziani”, XII, 1970, pp. 405-58, p. 431; cfr.
anche I. Cervelli, Storiografia e problemi
intorno alla vita religiosa e spirituale a Venezia nella prima metà del ’500, in “Studi veneziani”, VII, 1966, pp. 447-476; S. Tramontin, La cultura monastica del Quattrocento dal primo patriarca Lorenzo Giustiniani ai camaldolesi Paolo Giustiniani e Pietro
Quirini, in Storia della cultura veneta. Dal
primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, vol. 3/I, pp. 431-457.
31. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, cit. [cfr. nota 25], ad vocem Andrea
Loredan: “[…] fu nominato con gran
concetto […] dignità che non le saria
mancata con la suprema, se maggior gloria non s’havesse la virtù sua procurato”.
Andrea inoltre non compare tra i papalisti che Sanudo non manca di elencare più
volte: Diarii, cit. [cfr. nota 14], vol. VIII,
coll. 734-735 (febbraio 1509); vol. XVI,
coll. 423-424 (giugno 1513).
32. Cfr. Tafuri, Venezia e il Rinascimento,
cit. [cfr. nota 1], pp. 9-10; id., Il pubblico e
il privato..., cit. [cfr. nota 1]
33. Girolamo Priuli, Diari, a cura di R.
Cessi, in “Rerum Italicarum Scriptores”,
XXIV, Città di Castello 1933-37, p. 254.
34. Cfr. Sanudo, Diarii, cit. [cfr. nota 14],
vol. XIII, col. 293 (5 dicembre 1511), registra la visita al palazzo di Alberto Pio da
Carpi. Il 29 giugno 1512 Sanudo nota ancora: “Ozi l’orator dil signor turcho, insieme col signor Frachasso, andono a veder la casa di sier Andrea Loredan, qual
era adornata il portego et una camera per
excellentia, e li preparò una colation honorificha. Li piacque assai, et assa’ altre
persone e zentilhomeni smontoe a veder
l’aparato”. Ibidem, vol. XIV, col. 436. Il 15
maggio 1513 il palazzo viene visitato da
Bartolomeo d’Alviano e dal suo seguito
subito dopo il Tesoro di San Marco e la
Pala d’Oro. Ibidem, vol. XVI, coll. 250252. Nell’ambito dei festeggiamenti per
la cerimonia del Bucintoro del dicembre
1515 Sanudo riporta di una visita a palazzo Loredan insieme al palazzo di Zorzi
Corner. È singolare notare come egli in
questo contesto non colga la differenza
tra i due palazzi – il primo all’antica e il
secondo gotico (si tratta ancora della casa
dei Malombra)- che risultano assimilati
tra loro per mole e magnificenza. Ibidem,
vol. XXI coll. 404, 411; cfr. anche coll.
253-256. Nel 1520 nel palazzo si tengono
alcuni spettacoli delle Compagnie della
Calza. Ibidem, vol. XXVIII, col. 248; nel
1530 vi si rappresenta un’altra commedia.
Ibidem, vol. LII, col. 601, cfr. anche col.
603. La rappresentatività di ca’ Loredan è
riconosciuta ancora nel 1550, in piena
epoca sansoviniana, quando per ospitare
alcuni principi stranieri, viene scelta insieme ai palazzi del Duca di Ferrara (il
Fondaco dei Turchi) e dei Gussoni.
BNM, Mss. It. VII, 519, cit. in M. Luxoro, Il palazzo Vendramin Calergi, cit. [cfr.
nota 10], p. 6.
35. Nel 1815 Giovan Antonio Selva, scrive di aver visto “incontrastabili documenti recentemente favoritici dalla patrizia
famiglia Vendramin” dai quali si deduce
che la fabbrica di palazzo Loredan Vendramin Calergi venne iniziata nel 1481.
Cicognara, Diedo e Selva, Le fabbriche...,
cit. [cfr. nota 6], vol. I, pp. 127-128. Questi documenti, creduti dispersi, sono stati
individuati da Loredana Olivato e Lionello Puppi presso l’Archivio di Stato di
Padova nel fondo privato ValmaranaVendramin; si tratta infatti di un catastico
dei documenti della famiglia Vendramin
Calergi – confluiti nell’archivio attraverso Elena Vendramin Calergi vedova Valmarana– in cui si trova il regesto degli atti legali compiuti dai proprietari del palazzo Loredan in relazione ai possedimenti di San Marcuola. Nel regesto, in
data 1481, è riportato l’acquisto da parte
di Andrea Loredan dal Magistrato delle
Cazude per 592 ducati d’oro di alcuni sta-
bili a San Marcuola già di proprietà della
famiglia Memo. Olivato e Puppi hanno
identificato questo come il documento
cui il Selva fa riferimento, senza escludere – pur in mancanza di prove – che il terreno acquistato si trovasse in vicinanza a
quello che, secondo altre fonti, i Loredan
avrebbero già posseduto nella zona tramite la dote di Campagnola Lando, acquisita attraverso il matrimonio con Pietro Loredan nel 1395. ASPd, Archivio
Valmarana Vendramin, b. 3. Riordinazione
delle carte, o sia, facitura del catastico, relativo ai Beni posseduti dall’EEVV. per conto della Primogenitura della N.D. Marina Calergi Grimani Testatrice nel 1634 ora rappresentata dal N.H. Nicolò Vendramin, compilato da Antonio Valatelli (1803). Cfr. Olivato, Puppi, Mauro Codussi, cit. [cfr. nota
10], pp. 221-226.
36. Andrea Loredan procede all’acquisto
dei due terzi della casa da stazio a
Sant’Ermagora sul Canal Grande di proprietà dei due zii Bertucci e Marco: “Manifestum facio ego Bertucius Lauredano
quondam domini Georgii cum meis successoris quia in Dei et Christi nomine do,
vendo atque transacto vobis domini Andree […] quondam domini Nicolai, in
specie et tamquam heredibus dicti quondam domini Nicolai patris vestri, vestrisque successoris cunctam et super totam
quandam proprietatem seu proprietatis
partem que est una tercia pars pro indiviso unius domus a stacio cum omnibus suis
habentiis et pertinenciis sita in confinio
Sancti Hermacore super canale magno
[…]”. ASVe, Giudici dell’Esaminador, Preces, b. 37, cc. 64r-64v. (4 agosto 1479), documento trascritto in Appendice (n. 1).
Gli altri documenti di compravendita di
trovano in Ibidem, b. 39, c. 19v (19 giugno
1482); b. 43, c. 57r. (3 settembre 1489); b.
45, c. 33r (15 settembre 1494). Documenti trascritti in Appendice (nn. 2, 3, 4).
37. Nella prima redecima disponibile del
1514, immediatamente dopo la morte di
Andrea, la chaxa da statio di San Marcuola è stimata 100 ducati, mentre nella redecima del 1537 risulta parzialmente affittata a Piero Badoer, fratello di Maria,
per cento ducati. Nel 1566 alcune parti
del palazzo risultano ancora affittate. Cfr.
ASVe, Dieci Savi sopra le Decime, Dichiarazioni di Decima, 1514, b. 43, cedola 108
(documento trascritto in Appendice, n.5);
Ibidem, Dichiarazioni di Decima, 1537,
condizione di Andrea II Loredan q. Alvise, Dorsoduro, b. 103; Ibidem, Dichiarazioni di Decima, 1566, Castello n. 1144,
riportata anche in BMC, Mss. P.D., 819,
fasc. 8. Per un’analisi delle rendite immobiliari a Venezia nel Quattrocento cfr. S.
Connell, Gli artigiani nell’edilizia, in “Ricerche Venete”, 2, 1993, pp. 31-92, p. 35.
Essendo sottoposto a fidecommesso, il
palazzo non viene mai menzionato nei testamenti degli eredi Loredan, nè nel testamento di Maria Badoer. Il testamento
di Andrea II Loredan q. Alvise, il primo
erede di Andrea Loredan a ereditare l’immobile, non lo nomina. Il testamento di
Maria Badoer si trova in ASVe, Notarile
Testamenti, Atti Daniel Giordani, b. 569
(29 Agosto 1533). Dello stesso documento esiste una versione più tarda in ibidem,
atti Gio. Batta Padavin, b. 1224, c. 127; e
ibidem (copia), b. 1225 II, c. 112. Il testamento di Andrea II si trova in ASVe, Notarile Testamenti, Atti Bianco, b. 78, ced.
24 (in data 28 settembre 1556).
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10-11|1998-99 Annali di architettura
Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza
www.cisapalladio.org
38. Cfr. la genesi analoga del sansoviniano
palazzo Dolfin, in M. Tafuri, Ricerca del
Rinascimento, Torino 1992, pp. 316-327.
genio Vassallo, il quale attualmente si sta
occupando del progetto di restauro della
facciata di palazzo Loredan.
39. Una prassi analoga è documentata per
la fabbrica di Ca’ del Duca: nello strumento di compravendita tra Marco Corner e il
duca di Milano si legge che è stato fatto
“un magno fundamento et muro proprio
de novo incepto”. Cfr. G. Romanelli, Ca’
Corner della Ca’ Granda, Venezia 1993, p.
66, n. 8. Riguardo a palazzo Loredan, nonostante la presenza di una fondamenta,
necessariamente la prima operazione da effettuare in cantiere deve essere stata quella
di consolidare la sezione anteriore del terreno verso il Canal Grande, su cui avrebbe
poggiato la nuova facciata. La fabbrica risulta infatti costruita seguendo i canoni tradizionali veneziani: una palificata in pali di
olmo o di larice, e zatterone in tavole di larice. La muratura al piano terreno ha uno
spessore di 70 cm circa, ad esclusione del
rivestimento in pietra; tale sezione rimane
costante fino all’imposta del solaio del primo piano nobile ad una quota di 710 cm
(valutata dal piano di arrivo dalla scala verso il Canal Grande). Da tale quota in poi la
sezione della muratura viene ridotta di circa 20 cm e rimane inalterata fino alla cornice di gronda ad un’altezza di 22,43 metri.
Cfr. S. Ruggiero et al., I materiali lapidei della facciata di ca’ Vendramin Calergi, in Le pietre nell’architettura: struttura e superfici, Atti
del convegno di studi (Bressanone 1991),
Padova 1992, pp. 739-751.
44. Cfr. Goy, La fabbrica della Ca’ d’Oro,
cit.[cfr. nota 41], pp. 132-134.
40. Su palazzo Rucellai cfr. Giovanni Rucellai e il suo Zibaldone. A Florentine Patrician and his Palace, London 1981, in part.
il saggio di B. Preyer, The Rucellai Palace,
pp. 155-228. Secondo la Preyer il palazzo
sarebbe frutto di almeno tre diverse campagne di lavori: in una prima fase (databile agli anni 1446-47) viene stabilita la distribuzione interna e costruita la muratura al rustico; una seconda fase riguarderebbe l’intervento di Alberti – negli anni
1452-55 – il quale interviene applicando
una facciata indipendente a cinque campate. La configurazione attuale del palazzo con la facciata a sette campate sarebbe
il risultato di una terza fase, posteriore al
progetto albertiano e successiva all’acquisizione da parte di Giovanni Rucellai di
altri terreni dopo il 1458. Per una discussione delle ipotesi avanzate degli altri studiosi, tra cui Charles Mack che considera
la facciata frutto di un unico progetto datato 1461, cfr. ibidem, pp. 179-181.
41. R. Goy, La fabbrica della Ca’ d’Oro, in
“Ricerche Venete”, 2, 1993, pp. 93-157.
42. La conoscenza del modello del Septizonium a Venezia è documentata in una
guida di Roma pubblicata a Venezia nel
1480: Anonimo, La edifichation de molti
Pallazi e tempii de Roma, Venetia 1480, in
Five Early Guides to Rome and Florence,
London 1972. Cfr. anche K.M. Swoboda,
Römische und römanische Paläste 1919. Cfr.
anche R. Krautheimer, The Carolingian
Revival of Early Christian Architeture, in
“Art Bulletin”, XXIV, 1942, ora in Architettura sacra paleocristiana e medievale, Torino 1993, pp. 151-219, in part. pp. 203212; E. Baldwin Smith, Architectural Symbolism of Imperial Rome and the Middle
Ages, New York 1978, pp. 34-37.
43. Queste informazioni provengono da
una serie di colloqui con il professor Eu-
45. Gli studi di riferimento per la prassi
edilizia veneziana sono quelli di S. Connell, Gli artigiani nell’edilizia, cit. [cfr. nota 37], e di R. Goy, La fabbrica della Ca’
d’Oro, cit. [cfr. nota 41]. Altro riferimento fondamentale è lo studio di R.
Goldthwaite, The Building of the Strozzi
Palace: the Construction Industry in Renaissance Florence, in Banks, Palaces and Entrepeneurs in Renaissance Florence, Adershot,
Hants 1995, pp. 99-193.
46. ASPd, Archivio Valmarana Vendramin,
b. 3. Vedi supra, nota 35.
47. ASVe, Notarile Atti, notaio Marc’Antonio Figolin, b. 5284, cc. 206r-207r. Documento trascritto in appendice (n. 6).
48. Lo stesso sistema, per una coabitazione in regime di fraterna è documentato
ancora a metà del ‘600 in palazzo da Lezze alla Misericordia. Cfr. S. Mason, Questioni di buon vicinato: Ca’ da Lezze e la
Scuola Grande della Misericordia, in “Arte
Veneta”, 49, 1996, pp. 76-85. Nella ca’
d’Oro la scala esterna viene costruita nel
1424-25 quando i lavori sono iniziati da
tre anni: R. Goy, La fabbrica della Ca’ d’Oro, cit. [cfr. nota 41], p. 102, sulla scala
esterna della Ca’ d’Oro pp. 127-131.
49. Gli ordini dei due livelli inferiori sono sollevati su piedistalli: la prima cornice corrisponde al pavimento del piano
nobile e risulta aggettante in modo da sostenere i balconi, mentre al terzo livello la
quota del pavimento corrisponde alla prima fascia di architrave della trabeazione
sottostante. L’indipendenza della facciata
dall’assetto interno si presenta anche in
palazzo Rucellai nel quale i solai dei piani
interni si trovano al di sotto del livello
dell’architrave corrispondente. Cfr. D.
Howard, Exterior Orders and Interior
Planning in Sansovino and Sanmicheli, in
L’emploi des ordres dans l’architecture de la
Renaissance, Actes du Colloque tenu à
Tours (1986), a cura di J. Guillaume, Paris 1992, pp. 184-185. La collocazione
della quota di un solaio in corrispondenza della trabeazione di un ordine inferiore compare fin dall’Ospedale degli Innocenti e dal palazzo di Parte Guelfa di Brunelleschi, ed è ripresa da Rossellino in palazzo Piccolomini a Pienza, nella facciata
ad ali del palazzo ducale di Urbino e nel
palazzo di Giuliano della Rovere a Savona. Questa soluzione è adottata anche in
edifici bramanteschi quali palazzo Castellesi, in cui la trabeazione forma il parapetto delle finestre del piano nobile, nel
cortile di Civita Castellana, nel chiostro
di Santa Maria della Pace e nel Cortile
del Belvedere. Cfr. A. Bruschi, Edifici privati di Bramante a Roma, in “Palladio”,
ns., 4, 1989, pp. 5-44. p. 23 e 30 a p. 41.
A Venezia, nella facciata di palazzo Lando è presente una soluzione analoga, in
cui il piedistallo dell’ordine del secondo
livello può essere letto anche come parte
della trabeazione del livello sottostante.
50. Uno schema binato “disgiunto” è riscontrabile nell’arco dei Gavi a Verona: il
binato viene sottolineato dalla continuità
delle modanature delle basi, ma le colonne sono dotate ognuna di un piedistallo
autonomo; i risalti della trabeazione sopra i capitelli e la prosecuzione di tale
scansione nell’attico evidenziano l’elemento centrale dell’ordine inquadrante il
fornice.
51. Questa presenta un architrave a tre
fasce inclinate, fregio, e un’elaborata cornice. Fasce inclinate si trovano nel Battistero di Firenze (primo ordine interno), a
Verona nella Porta dei Leoni e nell’arco
dei Gavi, e nell’arco dei Sergi a Pola. La
cornice è composta da una guscia, fascia
di dentelli, ovoli alternati a lancette, e
mensole alternate a rosette secondo la disposizione dell’arco dei Sergi, in cui la
mensola in corrispondenza dell’angolo
viene ribattuta a novanta gradi, e sopra
ancora una conclusione con gocciolatoio
e gola diritta.
52. La conoscenza dell’arco di Costantino è dimostrata secondo Mc Andrew da
Tullio Lombardo nella decorazione del
monumento di Andrea Vendramin (fine
anni ottanta-inizio anni novanta), in particolare nei due medaglioni nelle campate laterali. Una citazione diretta di questo
genere è spiegabile attraverso la figura
del committente, Andrea Vendramin,
ambasciatore a Roma alla corte di papa
Paolo II. Cfr. Mc Andrew, L’architettura
veneziana del primo Rinascimento, cit. [cfr.
nota 1], pp. 383-388. È in corso uno studio specifico sulle sculture del fregio di
Palazzo Loredan da parte di chi scrive.
53. L’allaccio delle volute si intreccia a
motivi decorativi: le volute infatti si appoggiano sopra un piccolo vaso da cui si
dipartono rami avvolti in un motivo a
doppi cerchi affrontati, oppure dal quale
germoglia lo stelo che regge il fiore dell’abaco, o ancora che regge un’aquila ad
ali spiegate, secondo quel principio di varietas già teorizzata da Leon Battista Alberti nel De Re Aedificatoria. Forme dello
stesso tipo si trovano nei peducci martiniani nel palazzo Ducale di Urbino, e nei
capitelli della Canonica di Sant’Ambrogio a Milano (anni ’90 del ’400), oltre che
in diversi repertori coevi come il codice
di Kassel (a c. 23 v), il codice Destailleur
di Berlino, e il codice Zichy, a testimoniare della migrazione dei motivi decorativi
ad opera delle maestranze dei principali
cantieri. Cfr. A. Bruschi, Bramante architetto, Bari 1969, pp. 685-700; C. Denker,
I capitelli del Bramante milanese, in La scultura decorativa del primo rinascimento, Roma 1983, pp. 159-178; C. L. Frommel, Il
complesso di Santa Maria presso San Satiro e
l’ordine architettonico del Bramante lombardo, ibidem, pp. 149-158; L. Giordano, Tipologie di capitelli dell’età sforzesca: prima ricognizione, ibidem, pp. 179-206. Sul codice
di Kassel cfr. H. Günther, Das Studium
der antiken Architektur in den Zeichnungen
der Höchrenaissance, Tübingen 1988; sul
codice Destailleur di Berlino cfr. L.
Leoncini, Il codice detto del Mantegna, Roma 1993.
54. Scrive Alberti a Matteo de’ Pasti nel
1454: “le misure et proportioni de’ pilastri tu vedi onde elle nascono: ciò, che tu
muti, si discorda tutta quella musica”. cit.
in Leon Battista Alberti, L’Architettura
(De re aedificatoria), a cura di G. Orlandi,
Milano 1966, p. XIII, cfr. anche libro VI,
c. II, p. 446.
55. Un ulteriore legame con il contesto
fiorentino è testimoniato dalla presenza di
Michelozzo a Venezia nel 1433-34, il quale lavora alla libreria del convento di San
Giorgio Maggiore (distrutta nel 1614) e
costruisce una bifora nel nartece di San
Marco. Cfr. E. Bassi, I palazzi di Venezia,
Venezia 1976, pp. 94-95. La bifora in questione viene impiegata da Rossellino a
Pienza in palazzo Piccolomini, e nel restauro di Santo Stefano Rotondo a Roma
(cfr. un particolare del Ritratto di Francesco
Giamberti di Piero di Cosimo, al Rijksmuseum di Amsterdam). A Firenze, finestre
con questa configurazione si trovano anche nell’entrata del Capitolo del Convento di San Lorenzo, nella sacrestia della
Badia Fiesolana, e nella villa di Andrea
Pazzi a Montughi (cerchia di Michelozzo). Come modello fiorentino si trova
inoltre annotata nel codice Atlantico di
Leonardo al f. 295 (1487), e al f. 281 in un
progetto per un palazzo mediceo (datato
1516-17) e al f. 68 r del codice B. Cfr. C.
Pedretti, Leonardo architetto, Milano 1988
(prima ed. 1978), pp. 21-26.
56. Cfr. M. Ceriana, La Cappella Corner ai
SS. Apostoli, in M. Bulgarelli e M. Ceriana, All’ombra delle volte, Milano 1997, p.
186, n. 200. Finestre a bifora si trovano
nello stesso codice a c. 84, dis. 119, e a c.
199. Il codice Ashburnam 1828 Appendice, di provenienza urbinate, contiene disegni autografi di Francesco di Giorgio,
alcuni disegni di bottega dello stesso, e disegni dell’inizio del XVII secolo di mano
di Muzio Oddi. Cfr. H. Burns, Progetti di
Francesco di Giorgio per i Conventi di San
Bernardino e di Santa Chiara a Urbino, in
Studi Bramanteschi, Roma 1974, pp. 293311; id., Un disegno architettonico di Alberti
e la questione del rapporto tra Brunelleschi e
Alberti, in Brunelleschi, la sua opera e il suo
tempo, Atti del Convegno, Firenze 1980,
pp. 105-23; M. Morresi, Francesco di Giorgio e Bramante: osservazioni su alcuni disegni
degli Uffizi e della Laurenziana, in Il disegno
di architettura, Atti del Convegno, Milano
1989, pp. 117-125.
57. Il codice risulta compilato tra il 1489
e il 1535 da Angelo del Cortivo (14621535), “pertegador et desegnador” dei
Savi ed Esecutori alle Acque, che fu proprietario del libro, secondo alcune annotazioni poste sul verso della prima pagina.
Il contenuto del manoscritto rappresenta
la piu’ antica versione conosciuta del primo trattato di Francesco di Giorgio Martini, il Saluzziano 148 della Biblioteca
Reale di Torino. Cfr. M. Azzi Visentini,
Riflessioni su un inedito trattato di architettura: il Codice Zichy della Biblioteca Comunale di Budapest, in “Arte Veneta”,
XXIXXX, 1975, pp. 139-145; A. Horvàth,
Renaissance Architectural Codex of Five
Hundred Years in Budapest, in “Periodica
Polytechnica. Architecture”, 30, 1986, 14, pp. 81-96; R. Feuer-Tòth, Un traité
italien du XVe siècle dans le Codex Zichy de
Budapest, in Le traités d’architecture de la
Renaissance, Actes du Colloque tenu à
Tours (1981), a cura di J. Guillaume, Paris, 1988, pp. 99-113; C. Lewis Kolb, The
Francesco di Giorgio Material in the Zichy
Codex, in “Journal of the Society of Architectural Historians”, XLVII, 1988, 2,
pp. 132-159; M. Mussini, scheda Trattato
di architettura (Codice Zichy), in Francesco
di Giorgio architetto, a cura di M. Tafuri e
F.P. Fiore, Milano 1994, pp. 390-392; L.
Leoncini, Il codice detto del Mantegna, cit.
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[cfr. nota 53], pp. 48-52.
58. Non mi pare possibile stabilire se
frutto di un restauro o meno: nella veduta di Jacopo de’ Barbari si vedono tre finestre la cui configurazione non risulta
molto chiara. A Venezia allo stesso motivo sembrano più interessati i pittori: esso
si trova infatti, in forma più arcaica, nei
disegni di Jacopo Bellini (fogli 55, 57, 67,
69, 85 dell’Album del British Museum) e
nei dipinti di Vettore Carpaccio (Annunciazione della ca’ d’Oro, Sogno di Sant’Orsola dell’Accademia, Il ritorno degli ambasciatori in Inghilterra all’Accademia), tanto da diventare un elemento di riconoscimento delle architetture dipinte di quest’ultimo.
di Francesco di Giorgio, in Francesco di Giorgio architetto, cit. [cfr. nota 57], pp. 206213; 225-226). La stessa modalità si ritrova nella chiesa di Santa Maria del Calcinaio a Cortona (1484-85), nonché in alcuni disegni del Codice Saluzziano: ff. 84
r e v (Santa Maria in Trastevere), f. 93 v.
66. M. Trachtenberg, Michelozzo e la Cappella dei Pazzi, in “Casabella”, 642, 1997,
pp. 57-75. Trachtenberg definisce questo
particolare una “invenzione polimorfa” tipicamente michelozzesca, accostandola ad
altri esempi di San Francesco al Bosco, dei
chiostri di San Lorenzo e di Santa Croce,
e dei “capitelli mutanti” della lanterna
della cupola di Santa Maria del Fiore.
67. Ibidem, p. 65.
59. Una bifora posta sul pianerottolo
centrale dello scalone codussiano, demolito, della Scuola Grande di San Marco, è
registrata in una planimetria del convento redatta durante il periodo austriaco
(BMC, fondo Gherro, 4, tav. II, 20922093). Cfr. P. Sohm, The Scuola Grande di
San Marco. 1437-1550. The Architecture of
a Venetian Lay Confraternity, New YorkLondon 1982, p. 196. Finestre a bifora
vengono registrate da Albrecht Dürer come elemento veneziano in un disegno di
pianta e alzati di una casa a Venezia. Cfr.
la scheda relativa di P. Carpeggiani, in I
tempi di Giorgione, cit. [cfr. nota 4], p. 117.
60. Si vedano gli esempi della facciata del
Tempio Malatestiano a Rimini e della
cappella Rucellai in San Pancrazio a Firenze. Mentre le colonne scanalate nelle
architetture di Michelozzo e Rossellino
presentano anche la rudentatura, è a
quelle albertiane del Tempio Malatestiano – completamente scanalate – che l’architetto di palazzo Loredan sembra fare
riferimento.
61. Visibile negli archi di Tito, di Settimio Severo, a Roma, e in quello di Traiano a Benevento.
62. Questo elemento avrà una grande
fortuna presso gli scalpellini. Come elemento decorativo è applicato sulla facciata del Fondaco dei Tedeschi a cui viene
appeso un cartiglio sorretto da un’aquila
ad ali spiegate. Una mensola con abaco
curvo si trova inoltre disegnata in un foglio della cerchia di Giovanni Bellini (Uffizi, 6347 F).
63. Devo la segnalazione alla gentilezza
del professor Massimo Bulgarelli.
64. Anche se non è chiaro se frutto di un
restauro stilistico. La cupola venne restaurata dopo il terremoto del 1688 e altri lavori, tra i quali l’apertura di altre finestre nel tamburo della cupola vennero
eseguiti nel 1840. Cfr. Paoletti, L’architettura e la scultura ..., cit. [cfr. nota 7], p.
178. Mensole di questo tipo si trovano
anche all’interno di Santa Maria dei Miracoli a sorreggere la cantoria, e nel monumento a Benedetto Brugnolo (1505) ai
Frari della bottega di Pietro Lombardo.
65. Si può vedere nelle architetture urbinati di Francesco: all’interno di San Bernardino (cfr. codice Ashburnam 1828
App., c. 124), in palazzo Ducale, nella
cappella del Perdono e nella facciata ad ali
(1474); e all’interno del Duomo (cfr. la ricostruzione di Manfredo Tafuri, Le chiese
68. Si tratta sicuramente di un ordine
poiché dotato di base. Risulta inoltre interessante accostare l’architettura delle
nicchie degli altari di San Marco, in cui
tutti gli elementi risultano rilegati all’interno della cavità della nicchia, al foglio
84 v del codice Saluzziano in cui sono
rappresentate nicchie con elementi rilegati a parete. In modo più sintetico lo
stesso elemento compare nelle nicchie
del monumento funebre al doge Nicolò
Marcello della fine degli anni settanta, e
nel Tabernacolo dell’Olio Santo di Tullio
Lombardo in Santa Maria dei Miracoli.
69. Cfr. Ceriana, La Cappella Corner ai SS.
Apostoli, cit. [cfr. nota 56], p. 57.
70. Si veda il trattamento dell’imposta
delle nicchie al secondo ordine del monumento a Giovanni Mocenigo di Tullio
Lombardo (1522, forse una memoria di
palazzo Loredan ?).
71. Sono documentati rapporti tra Andrea Loredan e Agostino Chigi (cfr. supra, nota 22) fratello del committente
della villa a Le Volte, Mariano. La villa risulta terminata nel 1505. Cfr. F. P. Fiore,
Villa Chigi alle Volte 1496-1505, in Francesco di Giorgio architetto, cit. [cfr. nota 57],
pp. 338-355, e id., L’architettura civile di
Francesco di Giorgio, 102-106. Una specchiatura che presenta un trattamento simile si trova nell’ordine superiore dell’arco di Augusto a Fano, ma con una forma
a L rovesciata e non a C. Cfr. R. Weiss,
L’arco di Augusto a Fano, in “Italia Medievale e Umanistica”, 8, 1965, pp. 351-358.
Sulla riproduzione grafica e scultorea dell’arco cfr. A. Nesselrath, I libri di disegni di
antichità. Tentativo di una tipologia, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, a cura di
S. Settis, vol. III, Torino 1986, pp. 89152, in part. pp. 102-105. Cfr. anche Tafuri, Le chiese di Francesco di Giorgio, cit.
[cfr. nota 57], p. 55 n. 10. Altri esempi di
lesene con specchiatura di questo tipo si
trovano a Venezia nelle nicchie del monumento funebre di Nicolò Marcello a
San Giovanni e Paolo, in quelle che accolgono le figure dei guerrieri del monumento di Pietro Mocenigo; e, in epoca
decisamente più tarda, nelle finestre della
facciata sud del transetto di San Giacomo
dell’Orio.
72. Secondo Matteo Ceriana, La cappella
Corner ai SS. Apostoli cit. [cfr. nota 56],
p. 140, risulta decisivo per orientare
un’attribuzione codussiana della cappella
Corner ai SS. Apostoli il trattamento delle mensole che sostengono una trabeazio-
ne aggettante e cadono sul cervello degli
archi divenendo chiavi di volta.
73. Il motivo del pilastro-contrafforte, articolato da un partito di sostegni binati
posto in sequenza verticale con una nicchia si trova anche nel monumento Barbarigo in Santa Maria della Carità, e nel
monumento Tron ai Frari. Si trova inoltre registrato nel codice Zichy a c. 51 v
(nicchia-binato-pilastro), e nel codice
Ashburnam 1828 Appendice, ff. 148 (senza la nicchia), e 179 (binato di colonne
con nicchia sovrapposta). Cfr. M. Ceriana, La Cappella Corner ai SS. Apostoli , cit.
[cfr. nota 56], p. 86, n. 88. Sul monumento Barbarigo cfr. R. Munman, The Last
Work of Antonio Rizzo, in “Arte Lombarda”, 47-48, 1977, pp. 89-98; A. Markham
Schultz, Giovanni Buora lapicida, in “Arte
Lombarda”, 65, 1983, pp. 49-72.
74. Antoniazzo Romano scrive il 1 gennaio 1491 da Roma a Vicinio Orsini,
committente di Francesco di Giorgio per
la rocca di Compagnano: “A questi di
passati mastro Francesco mi venne a trovare e mi disse che era tornato da Venetia
perché haveva comprato tutti quelli colori che li aveva imposto la Vostra Illustrissima Signoria”. Nel 1491 Francesco è a
Venezia, reduce dal soggiorno milanese e
pavese. Il documento è riportato in L.
Borsari, Il castello di Bracciano, Roma
1895, pp. 22-23.
75. Tafuri, Le chiese di Francesco di Giorgio,
cit. [cfr. nota 57], p. 41.
76. Ceriana, La Cappella Corner ai SS.
Apostoli, cit. [cfr. nota 56], pp. 169-170.
Secondo questa ipotesi sarebbe dunque
possibile che i modi martiniani impiegati
da Codussi possano derivare da un primo
contatto avvenuto forse attraverso disegni, e in un secondo tempo attraverso il
codice Zichy.
77. Ritengo emblematico il caso di palazzo Zorzi a San Severo per il quale, da
Paoletti in poi, la storiografia ha accolto
l’attribuzione a Mauro Codussi. Al di là
della congruenza dei singoli elementi rispetto al catalogo codussiano, risulta a
mio parere determinante il confronto tra
la natura dell’ordine “a fasce” di palazzo
Zorzi e l’impiego di questo tipo di ordini
da parte di Codussi, che dimostra di non
perdere mai di vista la gerarchia degli elementi. Sia in Santa Maria Formosa che in
San Giovanni Crisostomo le rilegature
hanno la funzione di prolungare quote significative dell’ordine, come l’imposta
dell’ordine minore oppure il fregio. La
parasta angolare di palazzo Zorzi è invece continuamente interrotta anche dal
prolungamento di quote non significative, Cfr. Olivato e Puppi, Mauro Codussi,
cit. [cfr. nota 10], pp. 183-185; Mc Andrew, L’architettura veneziana del primo rinascimento, cit. [cfr. nota 1], pp. 272-281.
Per altri esempi di ordini a “fasce” si veda la chiesa di San Nicolò di Castello (distrutta) di Giorgio Spavento: M. Tafuri,
Venezia e il Rinascimento, cit. [cfr. nota 1],
pp. 46-48.
78. A carta 30 r del codice Zichy si trova
scritto “Quando andate a urbini dimandate di Francesco di Giorgio da Siena architectore de cha o di sua butjgca”. L’autore dell’iscrizione non è stato identificato. Negli anni ’80 del Quattrocento il
cantiere di palazzo Ducale a Urbino conosce il suo momento di maggiore prestigio: i disegni del palazzo sono infatti richiesti da Federico Gonzaga e da Lorenzo il Magnifico. Negli stessi anni Federico da Montefeltro è Capitano della Serenissima. Cfr. P. Rotondi, Il palazzo ducale
di Urbino, Urbino 1950, vol. II, p. xxxix.
79. Cfr. R. Martinis, Palazzo Lando-Corner-Spinelli. Nuovi documenti sulla datazione e la committenza, in “Arte Veneta”, LV,
2000.
80. L’identità tra la decorazione dei pilastri dell’arco del presbiterio di Santa Maria dei Miracoli e quella dei pilastri al piano nobile dello scalone di palazzo Ducale
a Urbino (datato 1474) – che implica l’uso degli stessi cartoni- ha alimentato l’ipotesi di un viaggio ad Urbino di Pietro e
Tullio Lombardo, datato da Paoletti tra la
fine del cantiere di San Giobbe e l’apertura di quello dei Miracoli, ossia intorno al
1480. Cfr. Rotondi, Il palazzo ducale di Urbino, cit. [cfr. nota 78], vol. II; e R. Lieberman, The Church of Santa Maria dei Miracoli in Venice, New York 1972. L’ipotesi di
un soggiorno urbinate di Pietro non sembra però strettamente necessaria: i motivi
urbinati, soprattutto quelli decorativi, si
diffondono in modo omogeneo in gran
parte delle botteghe veneziane dopo la
metà degli anni ‘80, non costituendo dunque una cifra esclusiva della bottega dei
Lombardo. Ciò induce a cercare un’alternativa nel passaggio a Venezia di architetti e scultori del cantiere urbinate, dopo la
dispersione delle maestranze di palazzo
Ducale nel 1482 (data della morte di Federico da Montefeltro). Cfr. B. Jestaz,
L’apparition de l’ordre composite à Venise, in
L’emploi des ordres..., cit. [cfr. nota 49], pp.
157-168, p. 162. Le ipotesi intorno ad una
presenza di Pietro Lombardo a Urbino
non sono tutt’oggi concordi: cfr. F.P. Fiore, L’architettura civile di Francesco di Giorgio, cit. [cfr. nota 49], p. 81, e nota 31 p.
109. La presenza a Venezia di personaggi
provenienti dalla corte urbinate è attestata anche da Sanudo: fra Giocondo è
acompagnato nel suo viaggio a Corfù da
un ingegnere e uomo d’arme di origine
bergamasca, Lattanzio Borghi, in precedenza al servizio di Guidobaldo da Montefeltro. Cfr. Sanudo, Diarii, cit. [cfr. nota
14], vol. VI, coll. 347, 442. La notizia è riportata in Concina, Fondaci..., cit. [cfr. nota 16], p. 179, nota 96.
81. Tafuri, Il pubblico e il privato..., cit.[cfr.
nota 1], p. 386.
82. Gli affreschi di Giorgione, una figura di Diligenza e una Prudenza, poste nel
portego del palazzo al piano terreno sono,
com’è noto, perduti. Ne resta una riproduzione a stampa dello Zanetti, pubblicata nel 1760. A. M. Zanetti, Varie pitture a fresco de’ principali Maestri Veneziani,
Venezia, 1760, tav. 4. Cfr. T. Pignatti,
Giorgione, Milano, 1978, pp. 160-161; M.
Gemin e M. Pedrocco, Ca’ Vendramin
Calergi, cit. [cfr. nota 10]; J. Anderson,
Giorgione, Paris, 1996. Per una discussione del significato iconografico degli affreschi in relazione al palazzo cfr. R.
Martinis, Cà Loredan- Vendramin-Calergi., cit. [cfr. nota *].
83. Giorgio Vasari, Vite de’ più celebri pittori, scultori, architetti, edizione a cura di
G. Milanesi, Firenze, 1906, vol. IV, p. 96.
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10-11|1998-99 Annali di architettura
Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza
www.cisapalladio.org