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LINGUISTICA E CRITICA LETTERARIA Collana diretta da Maurizio Vitale Nuova serie 10. LORENZO TOMASIN «SCRIVER LA VITA» Lingua e stile nell’autobiografia italiana del Settecento Franco Cesati Editore Volume stampato con il contributo del Dipartimento di Italianistica e Filologia Romanza dell’Università di Venezia ISBN 978-88-7667-380-1 © 2009 proprietà letteraria riservata Franco Cesati Editore via Guasti, 2 - 50134 Firenze INDICE Introduzione pag. 9 Gli esiti di un progetto » 19 Due volti del Settecento meridionale » 71 Le memorie di un conservatore » 117 Due veneziani in Europa » 157 Piemontesi alla ricerca della lingua » 213 Dal vecchio al nuovo mondo » 255 Bibliografia » 309 Indice dei nomi » 329 Indice delle forme e dei fenomeni linguistici » 339 7 INTRODUZIONE Questo libro descrive da un punto di vista storico-linguistico lo svolgimento dell’autobiografia nel Settecento italiano appuntandosi su una dozzina di autori particolarmente rappresentativi (Vico, Martello, Muratori, Vallisneri, Giannone, Genovesi, Carlo Gozzi, Goldoni, Casanova, Alfieri, Denina, Da Ponte e Mazzei) e adottando una duplice prospettiva: interessa osservare da un lato il modo in cui essi discutono, nelle loro opere, di questioni linguistiche; da un altro, la forma che ciascuno di loro elabora per un testo in prosa i cui modelli erano, se non inesistenti, certo marginali e difficilmente attualizzabili. Si tratta insomma di un nuovo tipo di scrittura, che in Italia sollecita – per il suo stesso carattere – la discussione di problemi linguistici, e che di fatto impegna un buon numero di scrittori, tracciando una linea in cui s’esprime uno dei prodotti letterariamente più pregiati della prosa italiana di quel secolo. Entrambe le direzioni della ricerca richiedono qualche avvertenza preliminare. Quanto al capitolo di “storia esterna” della lingua che molte pagine autobiografiche del Settecento italiano compongono con le loro riflessioni – non sempre distratte ed episodiche –, la loro stessa presenza non è certo scontata. Il fatto che quasi tutti gli autori dedichino almeno qualche cenno al tema dell’apprendimento infantile o giovanile dell’italiano (specie in relazione alla didattica del latino e alla costituzione di un personale canone di letture, in assenza di un insegnamento istituzionale della lingua e della letteratura italiane: così è dai tempi di Vico e Genovesi fino a quelli di Da Ponte); il fatto che alcuni di essi siano anche attivi partecipanti ai dibattiti sulla questione della lingua che in quel secolo riprendono vigore nella cultura italiana (così ad esempio Carlo Gozzi); il fatto, ancora, che nel riferire dei loro viaggi e dei loro incontri in Italia e all’estero essi non manchino di soffermarsi sui rapporti fra lingua e dialetti (Casanova, Goldoni), fra italiano letterario e, come diremmo oggi, italiani regionali (Alfieri offre spunti particolarmente precoci su questo tema), e fra quelli e le lingue straniere (si pensi a Giannone, e poi ancora a Alfieri, a Da Ponte e a 9 Mazzei); il fatto, infine, che la descrizione di carriere letterarie non si disgiunga mai, in queste opere, da quella di laboriosi e talvolta sofferti percorsi stilistici (su tutti, ancora Goldoni): tali circostanze sembrano fare dell’autobiografia un punto d’osservazione privilegiato per le vicende linguistiche italiane del Settecento, e denunciano la centralità che simili questioni hanno nella cultura letteraria di quel secolo. Quanto alla “storia interna”, cioè alla lingua delle autobiografie, non sarebbe utile, ormai, descrivere attraverso questi testi le tendenze evolutive dell’italiano settecentesco – tendenze che sono ben note nelle loro linee generali grazie a ricerche pluridecennali. Più interessante sembra l’osservazione dei tratti formali rilevanti di ciascun autore, nel senso, ad esempio, che la cultura linguistica assimilata nell’età della formazione si ripercuote sul concreto sviluppo della prassi di scrittura; e, più in generale, nel senso che la storia (e la geografia) di una vita si riflettono inevitabilmente nel modo in cui la vita stessa viene narrata. Di conseguenza, l’analisi linguistica che si proporrà per i testi affrontati in questo libro seguirà criteri per quanto possibile uniformi, ma non verterà sempre sugli stessi fenomeni. Essa tenterà, cioè, di adattarsi volta per volta al suo oggetto. Poiché l’obiettivo è cogliere le peculiarità linguistiche e stilistiche dei singoli autori nell’àmbito di un disegno complessivo, l’esame cercherà, nel quadro di una generale descrizione storico-grammaticale, di appuntarsi più sugli elementi specificamente rilevanti che su quelli non direttamente riconducibili all’identità degli autori. Spesso tale identità si misura, anziché in un confronto con la norma e con l’usus contemporanei, in una verifica della coerenza tra idee linguistiche (o addirittura filosofico-linguistiche, come nel caso di Vico) professate e concreta prassi di scrittura: verifica da cui, come si vedrà, emerge talvolta l’imprevedibile modernità di autori apparentemente tradizionalisti (perché oggi appiattiti – fors’anche per deformazione di prospettiva storica – su posizioni retrive nei rapporti fra tradizione e innovazione), e d’altro canto un legame con il passato molto più forte del previsto in autori le cui dichiarazioni di principio potrebbero far supporre un totale affrancamento da simili condizionamenti: la coppia dei colleghi/rivali Gozzi e Goldoni è in tal senso paradigmatica, visto che nella concreta gestione della prosa narrativa il primo si presenta ben più maturo e spregiudicato del secondo, tanto incurante – a parole – di taluni aspetti formali quanto di fatto impacciato nella confezione di un testo diverso da quello teatrale. Nel panorama dei dibattiti linguistici, tradizione e innovazione sono del resto poli spesso instabili e difficilmente riducibili a formule semplifi10 catorie. Così, le mirabili sintesi in cui alcuni studiosi hanno descritto, nel corso del Novecento, le vicende linguistiche italiane dell’età dei Lumi si mostrano continuamente integrabili traguardando la stessa materia da diverse angolazioni. Quanto sia complesso il prisma lo hanno dimostrato due maestri della disciplina come Alfredo Schiaffini e Gianfranco Folena: il primo, descrivendo la «crisi linguistica» dell’italiano settecentesco nei termini sostanzialmente negativi di un transitorio indebolimento delle difese immunitarie della cultura italiana nei confronti dell’indiscriminato accoglimento di elementi (socio-culturali, oltre che linguistici) stranieri; il secondo, rileggendo l’europeizzazione dell’italiano nell’ottica positiva – e altrettanto comprensibile, iuxta propria principia – di una salutare «crisi di crescenza». In entrambi i casi, l’ampiezza di descrizioni pionieristiche e fondative ha spinto a privilegiare taluni aspetti – in primo luogo il rapporto con la cultura e la lingua francesi – e a enfatizzare il legame della linea maestra della storia linguistica con la componente almeno in apparenza egemonica nella riflessione filosofica e culturale in genere. Tuttavia, così come l’illuminismo europeo non ha un solo volto, una sola cittadinanza e una sola concretizzazione storica, anche i suoi riflessi sulla storia linguistica italiana presentano aspetti diversi e in parte contrastanti, e tale ovvia considerazione ha forse qualche conseguenza sul modo in cui si possono oggi valutare alcune posizioni del dibattito linguistico di quell’epoca. Un esempio: che nella generale svalutazione della tradizione nazionale e nell’entusiastico accoglimento di “europeismi” di mediazione soprattutto francese s’esprima la componente più produttiva e più culturalmente avvertita della letteratura italiana del Settecento appare almeno in parte smentito da una serie cospicua d’autori di prima magnitudine e di varia provenienza geografica e culturale la cui insofferenza nei confronti degli idola del più vieto conservatorismo linguistico (la cui fattispecie convenzionale è la Crusca) si accompagna ad un rifiuto della tendenza incondizionata all’europeizzazione dell’italiano, e in particolare alla sua francesizzazione (si pensi all’anticruscante e tradizionalista Giannone e al pur diversissimo Da Ponte, avverso al pedantismo del Frullone, ma pronto anche a prender le distanze dall’eccessiva apertura ai gallicismi). Se è già ben noto che l’anglomania settecentesca rappresenta un aspetto meno linguisticamente produttivo (per evidenti ragioni “strutturali”, cioè grammaticali) rispetto alla gallomania, è altrettanto vero che il riferimento a culture straniere diverse da quella francese (quella inglese, appunto, ma anche quella tedesca e, nell’ultima parte del secolo, quella americana) influisce spesso sulla riflessione teorico-linguistica di molti letterati. Difficile immagi11 nare due autori più lontani dalla cultura oltramontana di Vico e Giannone; e pure per il loro conterraneo Genovesi il legame con il razionalismo inglese è decisivo anche per quanto riguarda la teoresi linguistica. All’altro estremo del nostro percorso, Alfieri costruisce la sua intera autobiografia sul rifiuto, insieme linguistico e culturale, del modello espresso dalla rivoluzione francese (e sulla contestuale esaltazione, spesso trascurata, della «vera libertà» anglosassone, i cui riflessi sono anche letterari); le vicende di Da Ponte e Mazzei sono storie di naturalizzazione americana che, anziché adombrare (come nel Goldoni parigino) il patrimonio linguistico originario dei due intellettuali, lo valorizzano e lo esportano in modo fecondo. Si osserverà subito che le avversioni misogalliche (e anti-illuministiche, nel senso che questo termine assunse nella cultura d’Oltralpe) e le costruzione di percorsi alternativi che privilegiano il rapporto con altre tradizioni non fanno che dimostrare la predominanza di una linea maestra, denunciandosi come occasionali deviazioni o come fenomeni laterali. In realtà, le vicende di cui si tratta in questo libro vorrebbero disegnare – limitatamente all’àmbito della storia linguistica italiana – una mappa un poco più complessa di quelle fin qui abbozzate, le cui strade non sono tutte finalisticamente orientate verso quelli che a volte appaiono come gli esiti univoci e ineluttabili dell’età dei Lumi. In cima alla quale non stanno solo le luminose certezze del Saggio sulla filosofia delle lingue di Cesarotti, ma anche le serie – e non del tutto infondate – preoccupazioni di tanti letterati circa lo stato presente della cultura linguistica, dell’istruzione, del rapporto con la tradizione letteraria. Tornando all’analisi dei testi, qualche maggiore larghezza di descrizione si è concessa ad autori finora quasi del tutto trascurati negli studi linguistici (ad esempio Giannone), o a opere (ad esempio le Memorie inutili) per le quali solo da poco si dispone di edizioni sicure per questo tipo d’indagine. All’esame linguistico dei testi si è dovuta infatti sempre anteporre un’istruttoria filologica, da cui purtroppo emerge l’abbondanza delle opere non ancora garantite da un’edizione critica, per le quali continua ad essere indispensabile il ricorso alle editiones principes o, talvolta, persino ai manoscritti. L’apparente, totale affidabilità delle une e degli altri per lo spoglio linguistico è, tuttavia, un miraggio della cui pericolosità bisogna essere avvertiti: gli stessi autori (ad esempio Goldoni) ci informano esplicitamente dell’autonomia – o addirittura dell’incontrollabilità – degli stampatori, e dell’inadeguatezza del loro lavoro (così è ad esempio per Vico) quanto al trattamento dei testi. E anche per i manoscritti, la loro autografia andrebbe sempre verificata, dubitando sistematicamente della qualifica 12 «di pugno dell’autore» che troppo entusiasticamente viene talvolta attribuita all’opera di copisti e segretari. In mancanza di tutte le garanzie, la strada dell’esame linguistico e stilistico non è naturalmente preclusa: ma si tratta di un percorso alternativo a quello possibile per i testi che documentano puntualmente l’uso di scrittura. Anche in questo caso, la situazione è diversa da quella che si prospetta a chi, volendo descrivere i caratteri dell’italiano settecentesco e la sua concreta circolazione, ha potuto fondarsi sulle edizioni dell’epoca come su testimoni pienamente attendibili non tanto della lingua degli autori, ma di quella realmente percepita dai lettori coevi (il concetto è simile a quello filologico di vulgata, oggi assai produttivo nella prassi ecdotica): aspetto che risulta invece marginale in una ricerca come la presente. *** L’uno e l’altro approccio (linguistico “esterno” e linguistico “interno”) che si propongono in questo volume mirano a verificare alcuni significativi dati storici da un punto di vista complementare rispetto a quello teoricoletterario, dal quale l’autobiografia è stata, come è ovvio, più volte considerata (con risultati più solidi, forse in indagini come quella monumentale di Georg Misch o quella, limitata all’Italia medievale e rinascimentale, di Marziano Guglielminetti, rispetto ad astratte categorizzazioni teoricoletterarie come quelle proposte da Philippe Lejeune, quasi del tutto inservibili in ambito italiano). Innanzitutto, balza agli occhi negli autori di cui ci occupiamo la complessiva predominanza degl’interessi letterari su quelli filosofici, che è forse una delle caratteristiche più specifiche della declinazione italiana di questo genere. Da più parti è già stata osservata la significativa differenza esistente tra le autobiografie italiane della prima e della seconda metà del secolo, sottolineando come nella fase iniziale esse mostrino un legame più stretto con la tradizione erudita e con la riflessione filosofica e, quindi, un minore tasso di letterarietà, destinato ad aumentare nel corso del secolo indirizzando il genere verso svolgimenti romanzeschi o para-romanzeschi. È ben vero che le opere suscitate, direttamente o indirettamente, dal Progetto di Giovanartico di Porcìa (il punto di partenza della tradizione autobiografica settecentesca) manifestano un’esplicita volontà di esporre l’acquisizione di metodi critici e, in campo linguistico, di conoscenze e competenze, anziché di costruire una trama “romanzesca” all’interno della quale le esperienze intellettuali del protagonista si dispongano come un percorso di formazione condizionato dalla sequenza delle peripezie. 13 Ciò non toglie che già negli autori che si muovono nel solco di quel Progetto, l’attenzione al metodo degli studi e all’educazione anche linguistica si coniughi con una specifica attenzione per l’apprendistato letterario. Persino Vico, autore dell’unica autobiografia compiutamente filosofica del nostro canone, non si sottrae a questa costante: e pure in lui (filosofo settecentesco sui generis, tanto è decisiva la componente poetica e puramente letteraria della sua elaborazione) la riflessione linguistica scaturisce crucialmente dalla rievocazione e dalla visitazione critica di esperienze di lettura in campo poetico. Nelle autobiografie successive il nesso diviene sistematico. Il fatto stesso che la maggioranza degli autori settecenteschi di Vite e Memorie sia costituita da letterati (e segnatamente da poeti e drammaturghi: da Martello a Gozzi, da Goldoni a Da Ponte fino all’Alfieri) contribuisce a rafforzare il legame fra riflessione letteraria e riflessione linguistica. Così, la polemica agitata dai riformatori primosettecenteschi circa il predominio del latino sull’italiano nella prassi scolastica si rivolge sempre più decisamente contro la trascuratezza, nella didattica, degli autori canonici della letteratura volgare, e in particolare dei grandi poeti. Un motivo ricorrente in quasi tutti gl’intellettuali di cui ci occupiamo riguarda il livello inadeguato dei maestri conosciuti durante l’infanzia e la prima giovinezza segnatamente nel campo dell’educazione letteraria: modulo dietro il quale sta certo la realtà di un sistema educativo sottoposto a una critica sistematica e pressoché universale nel corso di quel secolo, ma anche il rinnovarsi di un topos fortunato già nella letteratura antica, che in un’autobiografia letteraria (cioè nella storia di una carriera poetica o teatrale) acquisisce un ulteriore significato. Quanto più scadenti sono le letture e gli ammaestramenti proposti in gioventù al futuro scrittore, tanto maggiore è il suo merito nel conseguimento dell’eccellenza stilistica. Alfieri provvedrà a rendere esplicito questo nesso. Un simile approccio condiziona il modo in cui si parla di lingua: se negli autori stranieri la riflessione teorico-linguistica era spesso funzione di un sistema filosofico (si pensi al peso che la linguistica ha nella speculazione del razionalismo inglese – Locke – e di quello francese – Condillac), in quelli italiani parlare di lingua significa discorrere, più o meno direttamente, di questione della lingua. Cioè interrogarsi sulla tradizione letteraria e sul suo valore in rapporto al presente e alla concreta pratica della prosa. Non va trascurato che un ulteriore legame collega la scrittura autobiografica settecentesca (non solo italiana) con la prosa letteraria: la grande fortuna, cioè, del romanzo autobiografico nella produzione contempora14 nea – sia in quella straniera, sia in quella italiana “di consumo”. Poiché giusto quella produzione rappresenta spesso un obiettivo polemico apertamente indicato dagli autobiografi italiani (specie in relazione alla “diseducazione” letteraria giovanile, che per più d’uno di essi è imputabile al consumo di paraletteratura romanzesca), la scrittura realmente autobiografica appare come una risposta, esplicita o mal dissimulata, a quell’antimodello. Tornando alle specificità italiane del genere, condizionata da ragioni storiche e geografiche è anche la riflessione sui dialetti, meno continua e meno omogenea di quella sugli istituti letterari, ma altrettanto peculiare. Per l’intellettuale-viaggiatore – tali furono quasi tutti i letterati nell’età di cui ci occupiamo – l’osservazione della varietà linguistica interna dell’Italia non è, spesso, meno acuta di quella della pluralità delle lingue straniere e dei loro reciproci rapporti. Vari autori impegnati nella riflessione sui dialetti, per ragioni letterarie (come Goldoni) o di ricerca erudita (come Denina) alludono a tali interessi nelle loro autobiografie, dedicandovi specifiche annotazioni. Ma è significativo che anche scrittori dal profilo culturale assai diverso (e ben lontani anche tra loro: si pensi a due avventurieri come Casanova e Mazzei) mostrino un’acuta sensibilità per questo aspetto del panorama linguistico italiano contemporaneo. *** Riferito all’epoca di cui si occupa questo libro, il termine autobiografia suona in realtà come un singolare anacronismo. È noto infatti che nel Settecento questa parola in italiano non esisteva: i vocabolari etimologici datano il lemma al 1828 (così il DELI, che cita il Dizionario etimologico di Marco Aurelio Marchi), ed è significativo che solo un decennio più tardi lo scrittore e patriota Giuseppe Torelli pubblichi un romanzo, l’Ettore Santo, il cui sottotitolo suona, fin dalla copertina, «autobiografia di un uomo come gli altri». Persuaso, com’egli stesso scrive nella Prefazione al volumetto, di «non avere scritto né una storia, né un romanzo, né un dramma, né un trattatello di filosofia, né insomma una cosa che si possa precisamente e propriamente chiamare con un nome», l’autore dichiara che «quello che si trova nel frontispizio non è del tutto adattato», aggiungendo: «ma pure qualche parola ci voleva» (Torelli 1839, p. 8). Al di là di simili riguardi verbali, è certo che già nei primi decenni del secolo diciannovesimo il termine di origine inglese (autobiography sembra essere la base su cui le principali lingue europee modellarono il lemma corrispondente) doveva essersi acclimato anche in Italia, circolando almeno in testi di ambito specialistico. 15 Autobiography, dunque, è voce impiegata già nel 1797 da un anonimo redattore della «Monthly Review» che, nel recensire le Miscellanies or Literary Recreations di Isaac D’Israeli si soffermava sul capitolo dedicato a Some observations on diaries, self-biography and self-characters, appuntandosi sul termine self-biography e proponendo in sua vece quello poi destinato al reale accoglimento, autobiography (la vicenda è stata bene ricostruita da Franco d’Intino): il modo in cui l’anonimo cronista pone la questione sembra confermare indirettamente che si tratta, in questo caso, di terminologia “fresca”, cioè di recente acquisizione e quindi di uso ancora incerto. Dall’Inghilterra, la parola sembra essere migrata quasi contemporaneamente in Francia e in Italia, se è vero che al 1809, cioè in anni molto vicini a quelli cui per il momento è documentabile il corrispondente italiano, rimontano le più antiche attestazioni nella lingua d’Oltralpe: al 1838 risale la prima registrazione lessicografica francese (così il TLFi), ma a quell’epoca il termine può già dirsi «usato sistematicamente» nella cultura d’Oltremanica, dopo che nel 1826 vi era stata pubblicata la raccolta in 33 volumi Autobiography (sottotitolo: a collection of the most instructive and amusing lives ever published, written by the parties themselves), aperte da An apology for the Life of Mr. Colley Cibber, Comedian, written by himself. Un dibattito terminologico simile a quello svoltosi sulle colonne della «Monthly Review» si era tenuto, qualche anno prima, anche in Italia, allorché Giovanartico di Porcìa e Angelo Calogerà avevano intrapreso, a Venezia negli anni venti del Settecento, l’iniziativa di cui si parlerà nel primo capitolo di questo libro. Mentre un vasto numero di intellettuali italiani veniva sollecitato ad allestire una raccolta di Vite (cioè di autobiografie) contenenti il metodo seguito nei loro studi, il veneziano Carlo Lodoli avanzava una proposta destinata a restare lettera morta: periautografie avrebbero dovuto essere, secondo il «revisore dei libri» della Serenissima, le opere risultanti dall’auto-presentazione intellettuale degli studiosi coinvolti nell’iniziativa (i quali appunto si sarebbero dovuti chiamare periautografi), per cui si indicava il modello del Commentarius de rebus ad eum pertinentibus di Pierre-Daniel Huet. Probabile che Lodoli avesse modellato il termine sul plutarcheo periautologìa, letteralmente ‘discorso su di sé’, che tuttavia in varie opere dello storico greco è usato nel senso di ‘iattanza’, ‘vanteria’, e anche per questo, forse, dovette dispiacere agli intellettuali cui si rivolgeva il Progetto, la cui prima preoccupazione era, lo si vedrà, di non far apparire le loro Vite come manifestazioni di vanità. Caduta, dunque, la proposta lodoliana, i letterati e gli scienziati che ri16 sposero all’appello di Porcìa non fecero altro che adottare, per le loro narrazioni, le titolature proprie di una tradizione già consolidata. Vita, innanzitutto: il vocabolo con cui fin dall’antichità si indicavano le narrazioni biografiche (scritte da altri) di personaggi celebri (dai Bioi paràlleloi dello stesso Plutarco fino alle Vitae sanctorum) o per qualsiasi ragioni degni di essere consegnati alla memoria dei posteri, e che ancora nell’età moderna era stato usato da Benvenuto Cellini nella Vita scritta per lui medesimo, ossia nel più illustre precedente del genere autobiografico italiano, la cui editio princeps esce, significativamente, nel primo terzo del secolo XVIII. Memoria – o più spesso al plurale, Memorie – è termine altrettanto diffuso tra gli scrittori di biografie (e quindi di autobiografie) di quest’epoca: la stessa denominazione, del resto, spettava più spesso a opere ben diverse dalle biografie – o dalle autobiografie – trattandosi di una delle formule più consuete nei titoli delle monografie storiche e delle ricerche erudite già nel secolo precedente. Il tipo Memorie era, di fatto, una titolatura ben familiare già al lettore seicentesco, che tuttavia non lo associava necessariamente a uno scritto biografico, bensì a un qualsiasi lavoro di natura saggistica. L’uso particolarmente frequente nel campo dell’erudizione storica e della prosa scientifica avrà certo favorito la fortuna di formule tipicamente accademiche, riferentisi alla concreta utilità delle opere e alla loro natura di scritti “di servizio”. Tali sono, ad esempio, le «Memorie per servire alla storia letteraria di Sicilia» di Domenico Schiavo (Palermo, 1756), o ancora le «Memorie per servire alla storia della casa di Branbourgo» edite da Vincenzo Giuntini a Lucca tra il 1757 e il 1758. A Venezia, poi, «Memorie per servire all’istoria letteraria» è, tra il 1753 e il 1758, il titolo di uno dei periodici promossi dallo stesso Angelo Calogerà, sotto forma di dialogo epistolare con Giovanni Zanetti. Si tratta comunque di un titolo d’importazione francese, visto che diciture molto simili compaiono in opere pubblicate oltralpe (o comunque in lingua francese) già nella seconda metà del Seicento. Ad esempio, i Mémoires di Claude di Montresor, conte di Bourdeille pubblicati nel 1665 riportavano nel sottotitolo del secondo volume «pour servir d’esclaircissement à ce qui est contenu au premier volume»; e nello stesso anno, un’opera di Denis Godefroy ben diversa da una biografia (o da un’autobiografia) usciva con il titolo Mémoires et instructions, pur servir dans les negociations et affairs concernant les droits du roy de France; a sei anni più tardi, poi, risalgono i Mémoires pour servire à l’histoire naturelle des animaux di Claude Perrault. La più antica attestazione della formula «Memorie per servire...» usata come titolo di una biografia è, a quanto ne so, nel titolo della vita dell’aba17 te camaldolese Guido Grandi scritta da Giovanni Lami e pubblicata nel 1742. Quanto basta per suggerire che la struttura del titolo dell’autobiografia di Goldoni (e di quella di Gozzi, che su di essa si costruisce antifrasticamente) rappresenti un’innovativa variazione su un modello piuttosto diffuso pur se – almeno in Italia – relativamente recente. Scarsissima, per finire, la fortuna di un titolo, Confessioni, che il modello agostiniano avrebbe potuto consacrare a dicitura canonica, ma che non attecchisce in Italia fino al secolo XIX, in cui fiorirà in ambito letterario grazie a un romanzo, il capolavoro di Nievo, che appare peraltro saturo di reminiscenze del genere autobiografico settecentesco. Già prima di Rousseau, comunque, un autore italiano aveva imposto lo stesso titolo alle proprie ricordanze autobiografiche, pubblicate postume nel 1696: si tratta del padovano Carlo de’ Dottori, che sotto lo pseudonimo di Eleuterio Dularete aveva dato sfogo a una vena religiosa e penitenziale in una deplorazione dei costumi corrotti di sapore controriformistico. Nulla di più lontano, evidentemente, dal tipo di autobiografia destinato a svilupparsi nel corso del secolo successivo. *** Nel prendere congedo da questo lavoro, desidero ringraziare i molti colleghi e amici con cui ho avuto occasione di discutere singole parti e singole questioni, traendone sempre grande utilità: Gabriella Cartago, Andrea Dardi, Vittorio Formentin, Claudio Giunta, Gilberto Pizzamiglio, Ricciarda Ricorda, Anna Scannapieco, Marta Vanore, Piermario Vescovo, Giampaolo Zagonel. Un ringraziamento particolare devo a Francesco Bruni, Luca Serianni e Alfredo Stussi, che del volume sono stati i primi lettori, e a Maurizio Vitale, che lo ha gentilmente accolto in questa collana. 18 GLI ESITI DI UN PROGETTO 1. Il conte e il camaldolese Nel primo numero di un giornale letterario, la «Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici» (1728) pubblicata dall’abate camaldolese Angelo Calogerà, il nobile friulano Giovanartico di Porcìa propone ai dotti italiani di formare una collezione di autobiografie dei più illustri fra gli storici, i filologi, i filosofi e gli scienziati italiani viventi, che consenta alla repubblica delle lettere di prender coscienza dei principali pregi e dei più notevoli difetti del sistema educativo nel quale i «letterati» erano stati istruiti, e di condividere i progressi da loro compiuti nell’elaborazione di metodi di lavoro e di ricerca scientifica, storica, filologica e letteraria. Alla base del disegno vi è l’attenzione tipicamente razionalistica al metodo e un precipuo interesse per gli aspetti pedagogici della cultura, oltreché un’idea, altrettanto caratteristica dell’epoca, di condivisione d’esperienze da parte di una cerchia più ampia possibile di sçavants disposti a mettere in comune le proprie cognizioni per il progresso intellettuale. Il Progetto ai letterati d’Italia per iscrivere le loro Vite realizzerà solo parzialmente simili aspirazioni. Di origini corciresi per parte di padre e nativo di Padova (1699), Angelo Calogerà si distingue fin da giovane come elemento particolarmente irrequieto e intellettualmente vivace all’interno di un ordine monastico che giungerà a punirlo con alcuni trasferimenti forzati in conventi veneti periferici. Nondimeno, al suo definitivo passaggio a Venezia, nel monastero di San Michele, egli intraprende un’accesa militanza antigesuitica, nutrita di suggestioni giansenistiche e riflessa in una cospicua produzione editoriale. Collezionista d’opere d’arte, erudito, filologo e pubblicista, a partire dalla metà degli anni venti Calogerà si dedica in particolare al giornalismo, dapprima traducendo articoli della stampa francese per la «Storia letteraria di Europa» di Antonio Bortoli e per il «Giornale de’ letterati di Europa» di Cristoforo Zane, poi, dal 1728, fondando la «Raccolta», ispira19 ta ai «Supplementi al Giornale de’ letterati d’Italia», e destinata a radunare, nel corso del sessantennio successivo (dal 1755 il titolo diverrà «Nuova Raccolta...»), «le piccole dissertazioni, o altri monumenti di letteratura, che dalla penna escirono, e de’ letterati viventi, e di quelli di questi ultimi secoli», come lo stesso Calogerà spiega nella prefazione al numero inaugurale, scritta in forma di lettera allo scienziato padovano Antonio Vallisneri. A quella prefazione, fitta di richiami ai temi e alle dispute più attuali nel panorama culturale europeo (a partire dalla controversia degli antichi e dei moderni 1) tien dietro l’appello di Giovanartico di Porcìa e la prima opera frutto del progetto, cioè la Vita di Giovan Battista Vico. Di antica nobiltà friulana (propalata fin dal suo nome di battesimo, di veneranda tradizione 2), e autore di due tragedie – Medea e Seiano – pubblicate con l’incoraggiamento e l’approvazione di Muratori, il conte Giovanartico non è certo un personaggio di primo piano, sebbene annoveri tra i suoi corrispondenti anche intellettuali del calibro del Vallisneri, del Bacchini e del Martello, nonché – appunto – del Vico. Egli dunque fa propria, e concretizza nel Progetto, un’idea ampiamente circolante nella cultura europea del tempo. La suggestione di un’ipotesi crociana accolta da Fubini ha anzi indotto alcuni lettori novecenteschi del Progetto a farne risalire l’ispirazione diretta ad un cenno contenuto in una lettera di Leibniz a Louis Bourguet del marzo del 1714 («Je voudrois que les auteurs nous donaissent l’histoire de leurs découvertes et les progrès par lesquels ils y sont arrivés»), anche se è di per sé poco plausibile che proprio quelle parole possano aver condizionato Porcìa 3. 1 Scrive infatti Calogerà: «Io ho sempre avuto opinione che meglio sia studiare su le opere di qualche moderno, da cui per istrade non battute, o ardue, ma pure con metodo, con nobiltà, e con chiarezza ne venga mostrato il vero, che su questi barbari avanzi, o ineruditi d’antichità andarlo invano cercando. Ma perché da queste mie espressioni taluno non desuma motivo di credermi inimico degl’antichi, protesto che non lo sono. Distinguo antico da antico, autore da autore, e monumento da monumento» (cfr. De Michelis 1979, p. 102). 2 Artico è nome ricorrente nella famiglia dei conti di Porcìa almeno dal secolo XIII: nel 1295 i figli di un Artico di Porcìa divisero i loro beni con l’intervento di Ezzelino da Romano senior, cfr. Di Manzano 1858, p. 246. 3 L’ipotesi, formulata dapprima da Croce 1918, è stata attentamente vagliata da Nicoletti 1989, pp. 53-54, che ha mostrato come la possibilità della conoscenza almeno indiretta, da parte di Porcìa, del passo leibniziano, fu accennata, con sicurezza maggiore rispetto a Croce, da Fubini 1965, p. viii («al Porcìa esso fu probabilmente suggerito da Antonio Conti e al Conti dal passo di una lettera del Leibniz [1714] in cui il filosofo tedesco diceva di desiderare che «les auteurs nous donaissent l’histoire de leurs découvertes et les progrès par lesquels ils y sont arrivés»), a partire dal quale l’idea si diffuse ampiamente negli studi italiani, fino a generare l’equivoco perdurante in De Michelis 1966, pp. 136-37 e Id. 1987, p. 568, che, non citando direttamente il 20 Sicuro, per converso, è il coinvolgimento nel progetto di Carlo Lodoli, «Revisore dei libri» della Serenissima 4: stando alla testimonianza offerta dallo stesso Calogerà nella prefazione al volume inaugurale della «Raccolta», sarebbe stato appunto il Lodoli a mettere in contatto il camaldolese con il nobile friulano, e a individuare nel Progetto sulle autobiografie il possibile coronamento di riflessioni da lui stesso dedicate al genere autobiografico 5. Frutto, dunque, di un generale clima culturale e di un’esigenza largamente sentita nella repubblica delle lettere (né solo nel suo ideale distretto veneto), l’iniziativa di Porcìa attraversa una lunga gestazione, apertasi intorno il 1720 (del 24 luglio 1721 è una lettera rivolta al Muratori in cui si parla esplicitamente di un Progetto ai letterati d’Italia per scrivere le loro vite 6), e documentata dall’ampio carteggio in cui egli discute il piano dell’opera con i suoi corrispondenti, propone di intraprenderne la stesura, dibatte sull’impostazione e sul contenuto delle autobiografie. Inizialmente accolta con favore da tutti gl’intellettuali coinvolti, l’idea di rifondare il metodo della storiografia letteraria e culturale attraverso la raccolta di scritti autobiografici non riceve tuttavia un’immediata realizzazione, bensì una serie di rallentamenti e di brusche interruzioni 7: «dopo un primo aspasso, mostra di credere che la lettera leibniziana fosse diretta al Conti (che invece era oggetto del discorso) anziché a Louis Bourguet (cfr. Leibniz 1887, p. 568); contro l’ipotesi crociana si era del resto espresso già A. Andreoli 1951, p. 80. Zambelli 1972, p. 27 segnala anche che «Leibniz in una lettera del 7-17 aprile 1670 aveva indicato l’importanza di una “vera et solida historia litteraria” delle “singulares vitae, ut Tyhonis per Gassendium ecc.». 4 Un conciso ritratto del Lodoli traccia Venturi 1969, pp. 295-99; più ampio e aggiornato il profilo di Mario Infelise in Lodoli 2002, pp. xi-xxi. 5 Scrive Calogerà 1728, pp. [x-xi]: «Succede a questa descrizzione un progetto dell’Illustrissimo Signor Giovan Artico Conte di Porcìa fratello dell’Emminentiss. Leandro di Porcìa innalzato dal Regnante Pontefice con universale piacere alla dignità Cardinalizia; di questo progetto si parla da qualche tempo tra Letterati con molta espettazione, ma per varie cagioni non ha prima d’ora potuto veder la luce. Anzi nè men ora vedrebbela, se l’attenzione per le Venete stampe sì benemerita del Reverendiss. P. Carlo Lodoli Min. Oss. Revisore de’ libri per questa Serenissima Repubblica non gle l’avesse ora procurata». 6 Il testo di questa lettera del Porcìa al Muratori si legge in Andreoli 1951, pp. 61-65. 7 Cfr. Calogerà 1728, pp. [xiv-xv], nella parte apologetica della sua Prefazione: «Que’ tali però, che simili opere disprezzano, per lo più sono di quelli tanto d’amor proprio ripieni, che vorrebbono che si tacessero i fatti, ed i studj de grand’uomini, acciò si parlasse solamente de’ loro. Sann’eglino che il numero scemerebbesi degl’ammiratori delle loro fatiche, se si sapessero quelle, ch’han fatto, e che fanno tant’altri, e rimirano per ciò con livore, chi loro toglie qualche parte d’applauso, e d’ammirazione. Quindi cred’io che nasca in molti quell’odio alla Storia Letteraria, che pare che incomincj a diffondersi, ma che spero anche di veder in breve estinto, e distrutto. Ne credo mal fondata questa mia speranza, perché veggo che chi un tal odio professa è 21 senso – nota Gilberto Pizzamiglio –, molti si ritirano dall’impresa o nicchiano, preoccupati soprattutto dai pericoli che comportava l’esporre al giudizio altrui la storia della propria formazione culturale e delle proprie idee» 8. Se dunque – complice il modello degli Esercizi loyoliani – la remora etica circa l’auto-descrizione biografica poteva venir meno anche negli ambienti più critici nei confronti del gesuitismo, quei vincoli restavano comunque latenti. Così, sia il Muratori sia Antonio Vallisneri senior fanno recapitare le loro autobiografie al Porcìa, ma il primo la accompagna con l’esplicita prescrizione di non divulgarla, e il secondo esercita di fatto un analogo veto (anche se, come vedremo, non è chiaro se egli abbia effettivamente inviato un testo definitivo al Porcìa), mentre il Vico – secondo la testimonianza di Calogerà – protesta contro la scelta di pubblicare la sua autobiografia in apertura della serie, e anche dopo l’uscita del primo volume della «Raccolta» non manca di esprimere pesanti riserve sull’opportunità e sulla qualità del lavoro svolto dai suoi editori veneziani 9. Anche Antonio Conti – divenuto uno dei più attivi promotori dell’iniziativa – scrive, a quanto sembra, la propria biografia e progetta di stendere una serie di «osservazioni» a corredo di quella del Vico, ma successivamente desiste dal proposito. Non diversamente si comporta il Lodoli, che si propone dapprima di accompagnare con una «lunga dissertazione» la pubblicazione del Progetto, ma in seguito vi rinuncia giustificandosi con la gran mole dei suoi impegni 10. In definitiva, a parte quella vichiana e quella del numero di quelli, che meno degl’altri meritano nella Repubblica delle Lettere d’esser onorati, e distinti». 8 Cfr. Gaspardo-Pizzamiglio 1982, p. 111. Già il 16 ottobre 1721, il matematico, astronomo e poeta bolognese Eustachio Manfredi, interpellato da Muratori, declina l’invito a partecipare al progetto con la lettera riportata da Falco-Forti 1964, p. 4. 9 Cfr. Calogerà 1728, pp. [xii-xiii]: « E qui mi trovo in debito, Illustrissimo Sig. Cavalliere, di far palese a voi, ed al pubblico la somma modestia del Sig. Vico. Il quale non solamente pregò con lettera il Sig. Co: ma gli fece anche per mezzo del Sig. Abate Esperti in Roma, e del P. Lodoli in Venezia replicare l’instanze, perché non volesse con tanto onore esporre nel primo luogo la sua fatica. Ma il merito dell’Autore ha fatto che il Sig. Conte ogni risguardo trascuri, e si persuade che il Sig. Vico non prenderà, che in buona parte qualunque risoluzione dallo stesso presa in quest’occasione». Circa l’insoddisfazione di Vico sulla stampa della Vita, cfr. Gaspardo-Pizzamiglio 1982, p. 125. 10 Cfr. Calogerà 1728, pp. [xi-xii]: «A tal’oggetto ha rammassate assai cose per destinarle un giorno, come ornamento di una sua lunga fatica tutta di genere didattico, ordinata a far concepire alla nobile gioventù non già la strada del sofistico disputare, ma quella del savio vivere in via d’onore e Cristianamente con lume, con dottrina, con prudenza, e con eleganza non meno per erudire la mente, che a regolar il cuore con l’ultima pulitezza. Il progetto dell’erudito Sig. Co: dato gli aveva stimolo a dar qualche ordine a molte di queste cose, e già formato n’avea cer- 22 martelliana, di cui si dirà, poche tracce restano delle numerose vite che sarebbero state inviate al Porcìa da altri intellettuali, la cui abbondanza è forse simulata dal Calogerà prefatore per enfatizzare il valore dell’intrapresa 11. Se l’autobiografia di Vico – il cui contatto col conte friulano era stato stato reso possibile dal fratello Leandro di Porcìa, di stanza a Roma presso la corte papale e in contatto con l’ambiente partenopeo 12 – esce nel pieno dell’attività e della fama del filosofo napoletano, la Vita di Pier Jacopo Martello è pubblicata nel secondo volume della «Raccolta», nel 1729, anno successivo alla sua morte. La sproporzione tra il disegno iniziale (che prevedeva una ben più ampia adesione) e la sua realizzazione potrebbe dipendere – come è stato ipotizzato – da una timorosa resipiscenza di alcuni dei personaggi coinvolti, preoccupati «di uno scontro con la metodologia ufficiale degli studi, dettata dai Gesuiti, e, dietro di loro, la Curia romana». Ma in realtà, la polemica contro gli uni e l’altra stava più a cuore ai promotori, che agli aderenti al progetto 13: di fatto, ad esser consegnate e pubblicate saranno le più tradizionalistiche tra le autobiografie commissionate, cioè le più inclini a riconoscere – o addirittura a enfatizzare – il valore di un modello educativo fondato sulla centralità dei classici. Di antigesuitismo, in particolare nel campo dei problemi dell’istruzione e segnatamente per quanto riguarda la didattica linguistica contemporanea, il testo del Porcìa era effettivamente intriso, come mostra il rilevo che nel Progetto ha la denuncia dello squilibrio tra la didattica del latino e lo studio dell’italiano. La polemica si iscrive in una generale ricognizione critica della cultura e dell’istruzione contemporanee: il testo pubblicato nel primo volume della «Raccolta» calogeriana si apre con un elogio dei progressi compiuti nel corso degli ultimi due secoli «nelle scienze, e nell’Arti», in particolare grazie alla fioritura delle discipline storiche e filologiche che hanno consentito di to abozzo per una ben lunga dissertazione allo stesso Sig. Co: diretta. Suo pensiere era d’unirla al progetto, ma le moltiplici indefesse sue occupazioni l’hanno obbligato a differire ad altro tempo, l’altrui utile, ed il proprio piacere». 11 Ibid., p. [xii]: «Il Sig. Co: assieme col progetto ci avanza ciò, che ha scritto de’ proprj studj il Sig. Giovambattista de Vico Napolitano Letterato di quella vasta erudizione, e di quella profonda maniera di pensare, che per tante belle Opere date alla luce è già noto a tutti. Scelse il Sig. Conte questo tra tanti, che sin’ ad ora han fatto nelle sua mani simiglianti componimenti capitare, e credo che una scelta tale non potrà meritare, che la pubblica approvazione». 12 Gaspardo-Pizzamiglio 1982, p. 115. 13 Ibid., p. 129. Si veda ad esempio quanto il Vallisneri scrive al Muratori l’8 ottobre del 1721, in una lettera riportata da Falco-Forti 1964, p. 4. 23 «isceverare il vero dal falso, distinguendo dalle apocrife, le autografe e legitime Scritture, ed agli Autori dando già che veramente è suo col confronto dei caratteri, degli stili, e de’ tempi». Tali progressi, opina il Porcìa, sono stati resi possibili in particolare dalla produzione e circolazione di strumenti quali «i Giornali, le Storie delle Accademie ..., i Vocabolarii istorici, e critici, le Tavole cronologiche» e di una serie d’altri testi ai quali sembra ora conveniente aggiungere un genere ulteriore, che si incentri sulle «Notizie d’alcuni Letterati viventi d’Italia e de’ loro Studj». La narrazione autobiografica, indicata dal conte come «istoria» (e dunque ascrivibile al genere delle scritture documentarie) dovrà contenere oltre alle notizie anagrafiche («tempo della loro nascita..., nome de’ loro Padri, e della loro Patria») e biografiche («avventure della loro vita»), la specifica illustrazione degli studi compiuti, stesa «con le più esatte circostanze, e minute». Il particolare interesse del Porcìa per la formazione intellettuale e per gli aspetti pedagogici del sapere emerge dalla raccomandazione di iniziare fin da quello che, nel metodo educativo controriformistico, era il primo livello dell’istruzione, la Grammatica (tre anni, nel sistema adottato in Italia), il cui corso prevedeva l’insegnamento dei rudimenti del latino. La capacità di leggere e scrivere degli allievi era considerata un prerequisito, e ovviamente, data la pretesa universalistica di un simile modello educativo, nessuna specifica attenzione era dedicata all’acquisizione o al perfezionamento della lingua nazionale degli alunni (l’apprendimento iniziale della scrittura avveniva di solito ad opera di precettori domestici, di parroci o, specie nelle città, di scuole parrocchiali). La situazione italiana descritta da Porcìa non era, a ben vedere, troppo diversa da quella di tanti altri paesi stranieri 14: Così senza scostarci dalla Grammatica, soverchio non sia lo scoprire altra grave trascuratezza delle nostre scuole, ed è quella di non far mai motto nè men per sogno della nostra Grammatica Italiana, e delle regole quivi insegnate, e delle maniere più purgate del nostro dolce Idioma un alto silenzio s’osserva. Quindi è che usciti dalle scuole siam pellegrini della nostra Patria, e giunti a gustare fin le più fine delicatezze del Latino, nè men di faccia conosciam ciò, che sente di barbarismo e di sollecismo nel volgare linguaggio 15. Parole che paiono riecheggiare quelle impiegate già vent’anni prima dal Muratori nella Perfetta poesia (1706) a proposito del rapporto fra l’insegnamento del latino e quello del volgare in Italia: 14 15 24 Per la situazione francese in particolare cfr. Waquet 1998, pp. 17-55. Porcìa 1728, pp. 114 s. il lodevolissimo sì, ma troppo zelo d’instruire i giovani nel Linguaggio Latino, giunge a segno di non permetter loro l’esercizio dell’Italiano, e di lasciarsi uscir dalle pubbliche Scuole ignorantissimi della lor favella natìa (...). Proprio de gli anni teneri è un sì fatto studio; e perciò dovrebbe con quel della Lingua Latina congiungersi l’altro dell’Italiano (...) affinché i giovani per divenir dotti in una Lingua straniera, e morta, non sieno sempre barbari, e stranieri nella propria, e viva loro favella 16. E in modo quasi identico si esprimerà, vari decenni più tardi, il Genovesi della Logica per gli giovanetti. A proposito di questioni pedagogicolinguistiche, dunque, Porcìa tocca un tema centrale nel dibattito coevo sull’istruzione, che si svolgeva di norma sotto forma di disputa, più o meno velata, fra latino e lingue nazionali, estesa dall’organizzazione delle scuole primarie fino alla prassi universitaria 17, e che avrebbe dovuto trovare riscontro nelle autobiografie sortite dal Progetto, ma che in realtà resta confinato al manifesto programmatico. Diversa valutazione – a seconda delle singole esperienze – conosce in effetti negli autori del primo Settecento italiano la didassi della lingua antica. Nell’atmosfera ancora decisamente classicistica dei primi decenni del secolo, intellettuali di estrazione diversa come Vico e Martello finiscono per rifiutare implicitamente la contrapposizione tra latino e italiano enfatizzando, per ragioni distinte e in certo senso complementari, la centralità del primo – e in generale della cultura classica – nei loro curricula formativi, e affermando l’intrinseca superiorità della lingua antica su quella moderna. Al contrario, autori come il Muratori e (lo si vedrà) il Vallisneri nei loro scritti autobiografici pongono l’accento (come già nel passo della Perfetta poesia sopra richiamato) sull’iniquo svantaggio del volgare, cioè su quello che ancor più tardi l’ultimo erede della stessa filiera culturale, Melchiorre Cesarotti, chiamerà «latinismo universale» dell’istruzione d’antico regime 18. L’auspicio, implicito nel Progetto, circa il riequilibrio fra insegnamento del latino e dell’italiano verrà insomma raccolto, di fatto, ben più tardi, e non senza contraddizioni: quando cioè, nella cultura italiana del secondo Settecento, la difesa della tradizione culturale nazionale assu16 Muratori 1972, pp. 626, cit. da Matarrese 1993, pp. 26-27. Di analogo tenore le dichiarazioni contenute negli inediti appunti «intorno ai difetti dell’insegnamento del latino», citati da Sorbelli 1950, p. 74 e probabilmente riferibili agli anni del carteggio con Porcìa: «Si insegni il latino, ma in modo che da tale studio si avvantaggi pure l’italiano, e non si verifichi il doloroso fatto, che si esca dalle scuole ignoranti del nostro idioma patrio». 17 Il dibattito è ricostruito da Brizzi 1985; per quanto riguarda singole aree regionali italiane, cfr. Leso 1984 e M. A. Cortelazzo 1991 (per il Veneto), Marazzini 1989 (per il Piemonte). 18 Cesarotti 1808, pp. 15-16 cit. da Del Negro 1984, p. 254. 25 me anche i tratti di una rivalsa sullo strapotere del latino nell’educazione. E si traduce, in àmbito letterario, in un atteggiamento ambiguo e a tratti ostile nei confronti della lingua antica. Intorno alla metà del secolo il Genovesi affermerà nelle sue memorie di essere stato male allevato, durante l’infanzia, nella conoscenza di entrambe («La mia lingua latina era mezzo barbara. L’italiana romanzesca: lo scolastichesmo aveva guastato tutti i miei studi» 19). Ad ancor più aperta diffidenza nei confronti del latino si atteggerò l’illuminismo lombardo: nel saggio Della flagellazione dei fanciulli, pubblicato sul «Caffè» da Alessandro Verri, il latino è qualificato con pungente ingenuità da un «Ottentotto» (termine e metafora tipici dell’epoca, che li trasmetterà a quella berchettiana 20) come «una lingua ... di certi uomini che sono stati molti secoli fa» a causa della quale i fanciulli continuano, nelle classi di Grammatica, a ricevere sferzate. Del resto, l’ostilità al latino non diverrà così ampia e così radicale come avrebbe forse auspicato, all’inizio del secolo, qualcuno dei primi riformatori, se persino un iconoclasta come il Baretti sconsiglierà sarcasticamente di estendere – secondo quanto auspicava un recente e anonimo trattato sulla Dama cristiana nel secolo – il suo insegnamento anche alle donne, ma con una motivazione di ben altro tenore: «se il latino ne acconcerà una o due, ne guasterà sicuramente mille con renderle troppo sacciute e pedantesche» 21. Tornando a Porcìa e al Progetto, l’accenno al corso di Grammatica e al predominio del latino sull’italiano nella didattica corrente contiene un implicito riferimento a un ben preciso sistema educativo, la Ratio studiorum gesuitica affermatasi anche nei Domini più tradizionalmente guardinghi – o addirittura ostili – nei confronti dei Gesuiti: giusto nella Repubblica Veneta in cui vivevano Calogerà e Porcìa, i processi di riforma scolastica innescati dalla soppressione delle scuole gesuitiche troveranno concreta attuazione solo nell’ultimo quarto del secolo 22. In un suo scritto Sulla sosti19 Genovesi 1962, p. 12. Cfr. Battistini 2004, p. 289: «in luogo dei vichiani patacones del sud America (SN44, § 170), subentrano idealmente gli “Ottentotti” (pp. 2, 215, 301), destinati a divenire, tra l’Histoire naturelle di Buffon e la Lettera semiseria di Berchet, il nuovo prototipo di popolo primitivo e selvaggio, a séguito della fortuna europea del trattato di Kolb sulla Decription du Cap de BonneEspérance, où l’on trouve tout ce qui concerne l’histoire naturelle du pays, la religion, les moeurs, les usages des Hottentots». Il GDLI s.v. ottentotto riporta l’accezione «Persona ignorante, rozza, plebea», con esempi sette-ottocenteschi il più antico dei quali è da Elisabetta Caminer Turra. Di «huttentotti» parla anche Antonio Genovesi nelle Lettere familiari, sulle quali cfr. Venturi 1969, p. 575, e la LIZ riporta due esempi del significato traslato dal «Caffè». 21 Baretti 1932, I, p. 46. 22 Cfr. Del Negro 1984, che distingue due fasi nell’iter riformistico della scuola veneta: il 20 26 tuzione alle scuole di Venezia prima amministrate dalla Compagnia di Gesù (1773), Gasparo Gozzi discorrerà dell’opinione di chi «stima quella non essere scuola, in cui non s’insegna il Latino» 23 come di un vieto pregiudizio. Che è cosa piuttosto diversa dal ritenere che le lettere italiane dovessero affiancarsi a quelle classiche nella costruzione di un armonico percorso scolastico. La riprova più chiara di quanta perplessità suscitasse, nella cerchia che aveva condiviso lo spirito del Progetto, il richiamo all’importanza dell’istruzione linguistica e del suo rinnovamento, giunge dalle note autobiografiche che lo stesso Angelo Calogerà scrive nel 1762 (dunque ultrasessantenne) su sollecitazione di Giambattista Rodella e Giovanni Maria Mazzucchelli. L’autobiografia (ma la qualifica è impropria, trattandosi semplicemente di appunti stesi per il redattore dell’articolo su Calogerà nel terzo volume degli Scrittori d’Italia del Mazzucchelli, che pure non vedrà la luce) non si sofferma sull’apprendimento dell’italiano, anzi nemmeno su quello del latino, e i rapidi cenni che il camaldolese riferisce all’educazione gesuitica fanno riemergere la non sopita polemica con i metodi pedagogici della Compagnia, ma tradiscono anche la fretta e la superficialità di chi, in condizioni culturali ormai molto mutate, non intende dare nuovo alimento alla disputa 24. Reso tenue e generico nei riferimenti all’esperienza educativa, il tema della lingua ha ormai perso, nel tardo scritto calogeriano, anche la centralità che – rispettivamente per ragioni filosofiche e letterarie – esso aveva nelle uniche due autobiografie pubblicate nella «Raccolta», quella di Vico e quella di Martello. Anche in questo caso, la spinta propulsiva del Progetto del Porcìa sembra essersi ormai esaurita. biennio 1774-75 e il 1786-87; solo in quest’ultimo il ripensamento dei curricula educativi comporta una decisa affermazione dell’italiano a spese del latino, in particolare nella fase dell’alfabetizzazione primaria: un ruolo importante avrà, in queste discussioni, l’opera di Gasparo Gozzi, per la quale cfr. Spezzani 1989, in particolare pp. 105-108. 23 Il brano è citato da Cortelazzo 1991, p. 51. 24 Il testo è edito da De Michelis 1966, pp. 142-68 (da cui è tratta anche la citazione seguente: pp. 142-43) sulla base del manoscritto inviato al Mazzucchelli, conservato alla Biblioteca Vaticana. 27 2. Questioni linguistiche nell’autobiografia vichiana La Vita di Giambattista Vico scritta da sé medesimo aprì dunque, nel 1729, la serie – breve, contro la volontà e le previsioni del promotore – di quelle autobiografie. Il testo originario, steso forse già nel ’23 (secondo l’ipotesi di Battistini: ma non è pervenuto alcun manoscritto) 25, fu riprodotto, come si è detto, in un modo che non soddisfece l’autore, e lo indusse anzi ad allestire una redazione corretta e purgata dalle sviste dei tipografi. Tale redazione non si è però conservata 26, mentre venne data alle stampe l’Aggiunta, scritta da Vico nel 1731 su invito dell’erudito modenese Gian Prospero Bulgarelli in vista di un’edizione (poi non realizzata) delle biografie degli affiliati all’Accademia urbinate degli Assorditi. Il testo fu recuperato nell’Ottocento da Carlo Antonio de Rosa di Villarosa, che compilò un’ulteriore aggiunta documentaria sugli Ultimi anni del Vico. Giusto nell’Aggiunta edita si trova un cenno sull’impostazione che Vico dà alla propria autobiografia. Che è lavoro filosofico, più che documentario (o letterario): «E, come si vede, scrissela da filosofo, imperocché meditò nelle cagioni così naturali come morali e nell’occasioni della fortuna» A21 27. La narrazione, redatta dunque negli anni attorno alla sessantina, è complessivamente breve e tale resta anche dopo l’Aggiunta (breve, s’intende, rispetto alla mole che nel corso del secolo successivo assumeranno in genere le opere autobiografiche), sebbene risulti circa cinque volte più estesa dell’unica altra Vita pubblicata da Porcìa, quella di Martello. Scritta in terza persona (come, per quanto è dato sapere, tutte le autobiografie prodotte nell’ambito del progetto del conte friulano), priva di evidenti suddivisioni macrotestuali in parti, epoche o età, la Vita vichiana si presenta dunque come un unico blocco narrativo in cui una sola lieve discontinuità interna è determinata dall’inserimento di un brano tratto da una «lezione anniversaria a’ giovani» dello stesso Vico, di due autocitazioni in latino di una certa lunghezza, tratte da altrettante orazioni lette nel 1700 e nel 1719, e dalla riproduzione di una lettera, pure in latino, del ginevrino Jean Leclerc (Giovan Clerico). 25 Cfr. Battistini 1995, pp. 41: «la Vita è stata scritta nel 1723, quindi in contemporanea alla Scienza nuova in forma negativa. Lo prova una lettera datata 5 gennaio 1724, nella quale il Porcìa comunicava ad Antonio Vallisneri “d’aver mandata al P. Lodoli la vita del Vico insieme col mio progetto, per unitamente farli stampare”». 26 Cfr. Marchi 2001, p. 1003. 27 Le citazioni della Vita vichiana sono tratte dall’edizione Vico 1990, con rimando al paragrafo. Il prefisso A rimanda all’Appendice. 28 Piuttosto diverso l’andamento narrativo dell’Aggiunta, relativa agli anni seguenti l’uscita a stampa della Scienza nuova: in un testo lungo circa la metà di quello consegnato al Porcìa, ben più frequente è l’inserzione di lettere e di lunghe citazioni da altri autori (tra le quali anche due epigrafi celebrative), in conformità col carattere più documentario e meno filosofico di quel supplemento. La descrizione dei primi anni di vita e di quelli della formazione (il cui limite può fissarsi al ritorno a Napoli dopo la permanenza nel castello di Vatolla come precettore del marchese Rocca) occupa all’incirca un terzo della Vita. Infanzia e giovinezza sono apertamente presentate come un percorso di formazione filosofica e, in subordine, giuridica; per quanto riguarda i primi Lehrjahre, l’educazione infantile si svolge secondo uno schema che puntualmente si ripeterà in numerose autobiografie settecentesche: l’incontro, cioè, con un primo inadeguato precettore di Grammatica, alle cui carenze il giovane sopperisce con un’appassionata autodidassi. Non manca un passaggio attraverso il sistema educativo gesuitico. Ai religiosi della Compagnia il giovane Giambattista viene indirizzato dal suo secondo maestro elementare, e nel riesaminare il metodo didattico dei padri, Vico si sofferma soprattutto sulla sua componente filosofica, sottolineandone la scarsissima utilità, che lo induce a tornare all’apprendimento solitario: «lasciò la scuola con miglior uso che l’altra volta, e si chiuse un anno in casa a studiare sul Suarez» 5 (cioè sulle Disputationes metaphysicae di Francisco Suarez, del 1597). Parte integrante del percorso di formazione sono gli anni trascorsi da Vico come aio di un nobile cilentano nel castello di Vatolla (un episodio nel quale si è scorta la ripresa – da intendere come rovesciamento – di un motivo autobiografico cartesiano 28), durante i quali i suoi studi si riavviano e si arricchiscono. Quanto a quelli linguistici, la lettura di un autore caro all’antiquaria sei-settecentesca, Lorenzo Valla, lo risospinge verso «lo studio della lingua latina, dandovi incominciamento dalle opere di Cicerone» 11. Studio del latino e indagine storica, erudita e teorico-giuridica fanno tutt’uno nella formazione vichiana, in cui la lingua antica è fin da principio un viatico alla conoscenza insieme linguistica e filosofica che verrà teorizzata nella Scienza nuova. 28 Cfr. Battistini 1995, p. 45: «La Vita di Vico risente senza alcun dubbio del modello cartesiano, di cui vengono perfino ripresi gli stessi episodi, come quei nove anni di solitudine a Vatolla, analoghi al vanto cartesiano di aver potuto vivere così solitario e ritirato come nei deserti più remoti». 29 Nella stessa Vatolla, Vico ambienta anche il suo primo incontro con la tradizione letteraria volgare: l’avversione per la «maniera di poetar moderna» (cioè per i modi poetici barocchi, oggetto di una sotterranea ma continua polemica) spinge il giovane ad avvicinarsi alle sorgenti stesse della poesia e della prosa toscane: le tre Corone, il cui studio si svolge secondo una sistematica comparazione con i sommi della letteratura latina. A prevalere nel confronto è, regolarmente, la triade classica Cicerone – Orazio – Virgilio («ne apprese di quanto in tutti e tre la latina favella avvanzava l’italiana» 12), cosicché l’affermazione della superiorità delle lettere (quindi delle lingue) classiche su quelle moderne è uno dei motivi ricorrenti della Vita vichiana. La descrizione dell’apprendistato culturale comprende anche quella di un personale metodo di lettura, applicato allo studio comparato dei testi classici e moderni. Il processo si articola in tre fasi, l’ultima delle quali è dedicata alla mellificatio retorica, stilistica e lessicale dei testi: Quindi, cominciandogli a dispiacere la sua maniera di poetar moderna, si rivolse a coltivare la favella toscana sopra i di lei prìncipi, Boccaccio nella prosa, Dante e Petrarca nel verso; e per vicende di giornate studiava Cicerone o Virgilio overo Orazio, appetto il primo di Boccaccio, il secondo di Dante, il terzo di Petrarca, su questa curiosità di vederne con integrità di giudizio le differenze. E ne apprese di quanto in tutti e tre la latina favella avvanzava l’italiana, leggendo sempre i più colti scrittori con questo ordine tre volte: la prima per comprenderne l’unità dei componimenti, la seconda per veder gli attacchi e ’l séguito delle cose, la terza, più partitamente, per raccôrne le belle forme del concepire e dello spiegarsi, le quali esso notava sui libri stessi, non portava in luoghi comuni o frasari; la qual pratica stimava condurre assai per bene usarle ai bisogni, ove le si ricordava ne’ luoghi loro: che è l’unica ragione del ben concepire e del bene spiegarsi (12). Se la tradizione toscana aurea è presentata come sana alternativa alle degenerazioni moderne (cioè barocche), ciò non comporta una sua assunzione in toto a modello letterario. I massimi valori dell’esercizio poetico sono infatti individuati nella produzione latina classica, e l’attività compositiva viene descritta come sforzo di rivestire di forme italiane i temi e i generi stessi della letteratura antica. Non ostante il prudente distacco che Vico manifesta nei confronti del purismo napoletano di Leonardo di Capua e di altri autori della sua cerchia, l’atteggiamento è per certi versi affine a quello dei puristi, che adibivano l’italiano attinto dagli autori delle Origini a contenuti e a generi testuali che ben poco avevano a che fare con quella tradizione. Nel Di Capua si trattava addirittura di una produzione 30 parascientifica, mentre per Vico la filosofia, concepita come opus oratorium maxime, si nutre alle fonti greco-latine ammantandole di forme poetiche esemplate, oltreché sugli autori del canone trecentesco, anche sul Tasso lirico (non, si noti, su quello narrativo cavalleresco che altri autori coevi includono di norma nel canone letterario italiano). La parte centrale dell’autobiografia vichiana verte sugli anni dell’insegnamento dalla cattedra napoletana di retorica, fino al fallimento nel concorso alla cattedra primaria mattutina di legge. Giunto a Napoli «come forestiero nella sua patria», Vico si imbatte nella «rinascenza» antibarocca che, già alla fine del Seicento, aveva riportato in auge il culto degli scrittori toscani del Trecento e dei classicisti primocinquecenteschi, grazie soprattutto all’Accademia degl’Investiganti e ad autori come il cosentino Tommaso Cornelio, corifei di una nuova stagione poetica. Ma agli occhi di Vico i letterati napoletani d’orientamento purista e casiano trascurano la «sapienza greca» e la «grandezza latina», e la critica investe anche il capofila del purismo linguistico partenopeo, Leonardo Di Capua: Il dottissimo signor don Carlo Buragna aveva riportata la maniera lodevole del poetare; ma l’aveva ristretta in troppe angustie dentro l’imitazione di Giovanni della Casa, non derivando nulla o di delicato o di robusto da’ fonti greci o latini o da’ limpidi ruscelli delle rime del Petrarca o da’ gran torrenti delle canzoni di Dante. L’eruditissimo signor Lionardo da Capova aveva rimessa la buona favella toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria; ma con queste virtù non udivasi orazione o animata dalla sapienza greca nel maneggiare i costumi o invigorita dalla grandezza romana in commuover gli affetti (22). La persuasione nel primato della cultura classica non viene meno quando il filosofo decide di «abbandonare la greca [favella]», visto che egli delibera allo stesso tempo di trascurare anche lo studio del toscano per dedicarsi interamente al latino. Scelta contraria, in un certo senso, a un’altra famosa «rinunzia», quella che i Verri opporranno «davanti a notaro» al Vocabolario della Crusca, di lì a pochi anni. Posta da Vico in relazione col rifiuto di imparare il francese, essa va inquadrata in una generale obliterazione della letteratura moderna in favore di quella antica, che di fatto coincide con l’alveo della cultura e della lingua latine. Una giustificazione filosofica è stata proposta da Andrea Battistini: stando alla Scienza nuova, «la ricerca di Vico (...) era avvenuta come se non vi fossero stati altri libri al mondo. E ciò non solo perché, polemicamente, egli riteneva (...), che gli altri studiosi avevano sostenuto solo tesi sbagliate, ma anche perché 31 convinto che per risalire alla condizione dei primordi dell’umanità si doveva procedere per vie interne, ossia ripensando, con tutte le difficoltà del caso, a come si era stati fanciulli» 29. È evidente il rovesciamento di un assunto del Discours cartesiano, rispetto al quale la tabula rasa dal pregiudizio irrazionale è perseguita per tutt’altra via. Intrinsecamente anticartesiana è, del resto, la giustificazione escogitata per le drastiche scelte di Vico in fatto di studi linguistici. Il poliglottismo porta a una conoscenza imperfetta, alla quale è preferibile l’approfondimento di una singola lingua (ma si tratta di un’idea smentita nella pratica dal filosofo, che giunge addirittura a studiare l’ebraico, pur senza successo) 30: una posizione opposta a quella di tanti intellettuali contemporanei – ad esempio il Muratori – che negli stessi anni esaltavano i pregi e l’utilità di un’educazione plurilingue, nella quale lo studio del latino e del greco non soffocasse quello delle lingue moderne. Se appunto «la scienza della lingua e del governo romano» rappresentano il migliore avviamento alla «filosofia degli umani costumi», lo studio del latino innesca la speculazione sulle origini “poetiche” del linguaggio e su quella che lo stesso Vico indica come una «filologia che portasse necessità di scienza in entrambe le sue parti, che sono le due storie, una delle lingue, l’altra delle cose» 42, con termini la cui particolare accezione è ovviamente ben diversa rispetto all’uso dei coevi riformatori 31. Nel presentare, in una sorta di sintesi ragionata, il contenuto e l’elaborazione della Scienza nuova, la Vita vichiana assegna un ruolo decisivo al tema delle «origini delle lingue» e a quello di «un etimologico universale per la scienza della lingua necessaria a raggionare con proprietà del diritto naturale delle genti». Nel trattato, simili questioni non mancavano di ripercuotersi sull’idea e sull’interpretazione stesse della storia linguistica italiana. Vico si mostra influenzato da alcuni aspetti della teoresi grammaticale cinque-seicentesca, ad esempio, nel riprendere l’ipotesi sull’«origine siriaca» del toscano, cioè di quella «teoria aramea» del Giambullari rimasta complessivamente marginale nel dibattito linguistico-grammaticale 32; Ibid., p. 41. Cfr. Sorbelli 1950, pp. 74-75 per l’italiano, il latino e il greco; lo stesso Muratori sottolinea nelle proprie Memorie di essere «versato nella lingua franzese e spagnuola», e di essersi in tarda età «applicato ad imparare la lingua inglese con giugnere fino ad intendere i libri di facile dettatura in essa» (Sorbelli 1950, p. 158). 31 Sull’uso del termine filologia in Vico cfr. Marazzini 1993, pp. 281 s. 32 «Questa Degnità altresì dà i principi di scienza all’argomento di che scrisse il Giambullari: che la lingua toscana sia d’origine siriaca. La quale non poté provenire che dagli più antichi 29 30 32 parimenti marginali, del resto, erano anche le proposte trissiniane di riforma dell’ortografia che Vico richiama altrove nella Scienza nuova 33, palesando lo stesso gusto per la nozione inusuale e culta che troverà espressione anche nelle sue concrete scelte stilistiche. Nell’ultima parte della Vita emerge l’intento che dovette animare il Vico nell’adesione al progetto di Porcìa. Più ancora che ricostruire un percorso intellettuale e descrivere il modo in cui egli aveva rimediato ai difetti dell’educazione ricevuta (secondo l’auspicio del conte friulano), la Vita vichiana rappresenta il primo esempio settecentesco di un genere antico, ma destinato a peculiari sviluppi nel corso del secolo: l’autobiografia apologetica. Per Vico, la narrazione del fallimento nel concorso alla cattedra primaria mattutina di legge si risolve in un’appassionata difesa dei principi filosofici maturati nel corso degli anni, e in una rassegna – proseguita poi dall’Aggiunta – delle lodi e dell’approvazione ricevute nella repubblica letteraria. Solo parzialmente estranea a un simile disegno è l’esposizione delle proprie scelte linguistiche. Sia nella parte finale della Vita, sia nell’Aggiunta, il filosofo si sofferma sui motivi che lo hanno spinto a scrivere in italiano la Scienza nuova. L’opzione appare frutto di una scelta residuale: E qui lo studio de’ buoni scrittori volgari ch’aveva fatto giovine, quantunque per tanti anni interrotto, gli diede la facultà, essendo vecchio, in tal lingua come di lavorare queste poesie così di tessere due orazioni, e quindi di scrivere con isplendore di tal favella la Scienza nuova (118). Dove è ribadita, di fatto, la persuasione nella natura subalterna del volgare. Tuttavia, nel riferire gli elogi tributati da vari intellettuali contemporanei al grande trattato filosofico, Vico non omette di riportare quelli riguardanti i suoi pregi stilistici. La citazione con cui si chiude il testo della Vita, tratta da una lettera del cardinale Lorenzo Corsini, appare dunque paradossale. Ringraziando il filosofo per l’invio della Scienza nuova, il porporato ne sottolinea il pregio per la «toscana eloquenza» e allude all’impasto stilistico di un’opera la cui peculiarità doveva colpire anche i lettori contemporanei. O perlomeno i più avvertiti della difficoltà di esprimere in fenici, che furono i primi navigatori del mondo antico, come poco sopra n’abbiamo proposto una Degnità; perché, appresso, tal gloria fu de’ greci della Caria e dell’Ionio, e restò per ultimo a’ rodiani» (I.2.102.3) 33 «Onde Claudio imperadore avendo ritruovato tre altre lettere c’abbisognavano alla lingua latina, il popolo romano non le volle ricevere, come gl’italiani non han ricevuto le ritruovate da Giorgio Trissino, che si sentono mancare all’italiana favella» (II.2.2.4). 33 italiano le questioni affrontate nel trattato 34, come Antonio Conti, le cui parole sono riportate nell’Aggiunta: «Son io stato un de’ primi a leggerlo, a gustarlo e a farlo gustare agli amici miei, i quali concordemente convengono che dell’italiana favella non abbiamo un libro che contenga più cose erudite e filosofiche, e queste tutte originali della spezie loro». La difesa o addirittura l’esaltazione dell’uso del volgare per la filosofia sono dunque delegate a voci estranee, e l’unico accenno che Vico dedica a questo punto (ancora una volta nell’Aggiunta) riguarda un’orazione in morte di donna Angiola Cimini marchesana della Petrella in cui il ricorso all’italiano è giustificato dal confronto emulativo con le lingue classiche: Per trattare con verità e dignità insieme tal privato argomento ch’ella con la sua vita insegnò il soave-austero della virtù il Vico volle fare sperienza quanto la dilicatezza de’ sensi greci potesse comportare il grande dell’espressioni romane e dell’una e dell’altro fusse capace l’italiana favella (A20). L’atipicità dello scritto vichiano è stata e spiegata con l’isolamento del filosofo napoletano rispetto alla maggior parte degli altri intellettuali cui si rivolgeva il Progetto. Spesso richiamata dai lettori novecenteschi è anche la manifesta contrapposizione nell’impianto e nei riferimenti filosofici con il Discorso sul metodo, con il quale l’autobiografia vichiana sembra anzi istaurare una sistematica schermaglia («Non fingerassi qui ciò che astutamente finse Renato Della Carte d’intorno al metodo de’ suoi studi, per porre solamente sù la filosofia e mattematica ed atterrare tutti gli altri studi che compiono la divina ed umana erudizione», scrive ad esempio Vico a proposito del suo percorso educativo), che talora assume i tratti di una generale offensiva nei confronti della cultura razionalistica 35. 34 «Opera, al certo, che per antichità di lingua e per solidezza di dottrina basta a far conoscere che vive anche oggi negl’italiani spiriti non meno la nativa particolarissima attitudine alla toscana eloquenza che il robusto felice ardimento a nuove produzioni nelle più difficili discipline; onde io me ne congratulo con cotesta sua ornatissima patria» 55. 35 La polemica anticartesiana continua nel seguito della Vita, e verte sempre sull’egemonico prevalere, nella riflessione di Renato, della componente matematico-razionalistica: si veda il passo in cui è richiamata «la Filosofia naturale di Errico Regio, sotto la cui maschera il Cartesio l’aveva incominciata a pubblicare in Utrecht. E dopo il Lucrezio avendo preso il Regio a studiare, filosofo di profession medico, che mostrava non aver altra erudizione che di mattematica, il credette uomo non meno ignaro di metafisica di quello ch’era stato Epicuro, che di mattematica non volle già mai sapere» 20; non mancano, poi, varie altre pointes, disseminate lungo l’opera: dall’accenno a «Renato» che «affettò farsi celebre tra professori di medicina» 20, a quello sulle «Meditazioni di Renato delle Carte, delle quali è séguito il suo libro Del metodo, in cui egli disappruova gli studi delle lingue, degli oratori, degli storici e de’ poeti» 26. Quanto alla gene- 34 Tale deliberata contrapposizione non manca d’interessare, come in parte s’è già visto, l’approccio filosofico al problema della lingua: se nell’autore del Discorso esso era reso marginale da un concorso di ragioni teorico-filosofiche e di fattori storico-culturali 36, in Vico la sua rilevanza è di natura del tutto diversa da quella che lo collegava, per il Porcìa e per molti dei suoi interlocutori, all’attualità culturale ed educativa, oltre che letteraria. Negli autori (non solo settentrionali: si pensi al caso sopra citato, pur se più tardo, del Genovesi) che anticipano i motivi del riformismo culturale del pieno Settecento le polarità ideali dell’antico e del moderno si manifestano nella polemica contro lo strapotere di una lingua morta contro la ragionevole promozione e cura di una lingua viva e concreta. Nel Vico la stessa opposizione si risolve ora in un tentativo di conciliazione fra le due polarità (è la tesi del De nostri temporis studiorum ratione), ora in un deciso prevalere dell’antico. L’antichità è, vichianamente, il tempo della cultura letteraria, retorica e poetica (nell’accezione tipica del filosofo napoletano) in contrasto con quella naturalistica, scientifica e «mattematica» propria della modernità cartesiana: corrispondentemente, la «lingua volgar latina» (secondo la terminologia vichiana), non solo è «più eroica della greca volgare», ma è tale anche rispetto alle lingue romanze, tra le quali la Scienza nuova non istaura quasi alcuna gerarchia 37. Significativamente, la qualifica di «lingua eroica vivente» (e di «lingua originaria», ossia di «lingua madre, perocché non vi entrarono mai a comandare nazioni straniere») viene attribuita a una varietà non romanza, il tedesco 38. 3. La lingua della Vita vichiana Pur essendosi formato in un ambiente vicino al purismo arcaizzante di Leonardo di Capua, Vico non mostra, nelle sue opere, un adeguamento sistematico e coerente ai precetti di quella scuola. Sebbene nella revisione del testo della Scienza nuova egli accentui una patinatura aulica e poetica rale polemica antifrancese, si rimanda a un cenno dell’Aggiunta: «Io ne ho mandato un picciolo estratto in Francia per far conoscere a’ francesi che molto più aggiugnersi o molto correggersi sull’idee della cronologia e mitologia, non meno che della morale e della iurisprudenza, sulla quale hanno tanto studiato» A25. 36 Cfr. Rosiello 1967, pp. 12-19. 37 Nella Scienza nuova seconda, il “genio” della lingua francese è collegato al precoce passaggio dalla fase “barbara” a quella razionale che sarebbe propria della cultura d’Oltralpe (cfr. Vico 1990, p. 502). 38 Sul concetto di «lingua eroica vivente» cfr. Pennisi 1987, pp. 124 s. 35 che già era presente, ma assai disomogeneamente distribuita, nella prima edizione a stampa del trattato, la veste linguistica dell’opera nella sua redazione definitiva oscilla fra punte di ipertoscanismo e latinismo altrettanto accusato, non senza occasionale ricorso ad espressivi termini dialettali e a forme nelle quali, con le parole di Giovanni Nencioni, «il fiorentinismo letterario e il napoletanismo possono confluire e corroborarsi» 39. Composta a metà fra l’uscita della redazione originaria e di quella definitiva della Scienza nuova, l’autobiografia vichiana è stilisticamente più vicina alla prima che alla seconda. Omogeneo a quello dela Vita è poi lo stile dell’Aggiunta, pur posteriore di alcuni anni. È necessario tener presente la non totale attendibilità del testo pubblicato nella «Raccolta» calogeriana, il cui manoscritto preparatorio non è pervenuto: non rivista dall’autore, l’edizione veneziana fu da lui stesso deplorata per la quantità di errori commessi dal tipografo 40. Ma tali errori dovettero consistere perlopiù nell’omissione o nell’errata collocazione delle aggiunte che lo stesso Vico spedì durante la stampa: a tali infortunii gli editori moderni (dapprima Croce e Nicolini, poi, con maggiore prudenza e rispetto per il testo, Fubini e Battistini) han cercato di porre rimedio, ma senza che ciò influisse molto sulla veste linguistica complessiva dell’opera, che nemmeno le manomissioni tipografiche della princeps dovettero probabilmente alterare troppo. In definitiva, basandoci per gli spogli sul testo critico più recente, ne abbiamo verificato il responso sull’edizione originale, lasciando – per così dire – sullo sfondo il problema della mancata revisione da parte dell’autore. Nell’alternanza, tipica della prosa italiana del primo Settecento, fra tratti fonomorfologici propri della tradizione letteraria antica e poetica – cioè toscani aurei – e caratteri affermatisi più recentemente nell’uso prosastico, Vico propende per l’accoglimento dei primi, ma non manca di manifestare varie oscillazioni, di certo riconducibili a quel gusto per la variatio che Mario Fubini ha indicato come un tratto dominante del suo stile. Sebbene pochissima fiducia si possa accordare ai fatti fonetici in un testo certamente nemmen rivisto dall’autore, si può prudentemente ipotizzare che la preferenza accordata ad allotropi dittongati (non solo i comuni pruova e truova, ma pure forme dittongate – anche in atonia – dei verbi negare e seguire 41) si colleghi a una convinzione del filosofo circa la «poeticità» dei 39 40 41 36 Cfr. Nencioni 1985, p. 290 Vico 1990, p. 1233. Esempi: niegava 18, niegò A21, niegativa A40, siegue 45, consieguono 22, a cui si ag- dittonghi, ossia la natura primitiva (e in termini vichiani, «eroica») dei suoni vocalici, che nella Scienza nuova sono indicati come i primi ad essere stati pronunciati dall’uomo. Vico sostiene anzi che in alcune lingue l’abbondanza di vocali e l’alta presenza di dittonghi sarebbero da considerare vestigia delle fasi più antiche del linguaggio, «e la cagion si è che le vocali sono facili a formarsi ma le consonanti difficili; e perché si è dimostrato che tai primi uomini stupidi, per muoversi a proferire le voci, dovevano sentire passioni violentissime, le quali naturalmente si spiegano con altissima voce; e la natura porta ch’ove uomo alzi assai la voce, egli dia ne’ dittonghi e nel canto (...), onde poco sopra dimostrammo i primi uomini greci, nel tempo de’ loro dèi, aver formato il primo verso eroico spondaico col dittongo pài e pieno due volte più di vocali che di consonanti» (II.2.5.3). Manifestano una tendenza arcaizzante le frequenti forme con i tipicamente toscana (puntualmente ripresa anche nei capuisti 42) nei prefissi derivanti da de- e re-, come dilicata 10 (ma anche delicate 16, 34, delicato 22, 51), dimandare 17 (accanto a domanda e domandano), diffinisca 48 e diffinizioni 48 bis (ma indefiniti 20), riputate 54 (ma non mancano numerosi altri composti con re-), forme alle quali andranno aggregate, per la vocale protonica, ligame 52 (che potrebbe anche interpretarsi come latinismo) e addirittura l’accusato toscanismo iconomia 54 43, che è tipico dei testi fiorentini aurei, laddove l’allotropo oggi consueto parrebbe attestato in Toscana solo a partire dal Quattrocento 44. La componente latineggiante si manifesta – come si è detto – soprattutto nell’ambito della sintassi; quanto alla fonetica, è significativa l’assunzione di forme con tonica latineggiante del tipo di surse, fussero (che pure si accompagnano ai corrispondenti con o) 45, per le quali Maurizio Vitale ha documentato negli scritti del Di Capua la sistematica sostituzione con i giunga sieguitò A41. Già Antonelli 1996, p. 85 notava che «gli unici prosatori compresi nel corpus della LIZ[700] che usano forme dittongate del verbo negare sono il Vico (...) e il Gravina». 42 Cfr. Vitale 1986, p. 195-96. 43 La stessa forma anche nella Scienza nuova, I.4.5. 44 La LIZ non riporta occorrenze di iconomia anteriori a Vico, ma la base di dati del TLIO riporta cinque occ. di iconomia da un volgarizzamento fiorentino del Defensor pacis del 1363, alle quali si aggiungono altre otto occ. dell’aggettivo iconomico, da varie opere toscane duetrecentesche; quanto all’allotropo con e- riporta, da testi toscani, solo nove occorrenze per il derivato economico ed economità (entrambi in Egidio Romano, e il primo anche in vari testi fiorentini già dalla fine del Duecento: ma giusto l’occorrenza fiorentina più antica, dal volgarizzamento giamboniano del Tesoro, è quella che la Crusca I citava con la forma iconomica). 45 Esempi: surse 26, sursero 33, e fussero 52, 54 di contro a sorsero 54, fosse 4 bis, 6 (12 occ.). 37 tipi sorse, fossero e affini 46. Pur registrandosi occasionalmente in qualche altro prosatore primosettecentesco, le prime fra queste forme dovevano rappresentare già allora un tipo decisamente minoritario 47. Latineggianti – ma non inconsuete anche nella lingua di autori meno culti – sono poi forme come litterato e litteraria, sempre accompagnate dagli allotropi “moderni”, lettere, letterati, letteratura, eccetera 48. All’influsso dialettale (concorde con quello veneziano, e perciò tanto meno correggibile da parte degli stampatori) andranno forse ascritte le sporadiche forme non anafonetiche del tipo di ingiongere, rinonzia, che anche in questo caso si accompagnano agli allotropi con u 49: contrarie agli usi della tradizione letteraria e ai dettami grammaticali e vocabolaristici – compresi quelli della tradizione didattica napoletana di sant’Alfonso de’ Liguori 50 –, simili forme trovano, come vedremo, ampio riscontro anche in scrittori di altra origine e mostrano che proprio la resistenza all’accoglimento di un tratto così tipicamente toscano era uno dei caratteri più diffusi in generale nella prosa degli scrittori italiani; non molto significativa, dunque, è in questo caso la coincidenza con l’uso – pur sporadico – nello stesso Leonardo Di Capua 51. Imposta dalla Crusca e regolarmente osservata dai puristi napoletani è la prostesi di i in parole inizianti con s implicata che seguono parole uscenti in consonante per le quali ancora una volta soccorrono puntuali riscontri dal caposcuola dei puristi napoletani, e che il Vico autobiografo impiega con regolarità al pari del trattatista 52. 46 Cfr. Vitale 1986, p. 194. Gli spogli di Patota 1987, p. 123 ne documentano l’ormai completa sparizione nella prosa del secondo Settecento. 48 Si ha: litterato 4, litteraria 36 contro 28 occ. di lettere, 20 di letterati, 17 di lettera, 7 di letteratura, 6 di letterato, 4 di letteraria e letterarie, 2 di letterari. 49 Esempi: congionti 26, congionto 39, ingiognergli A22, e in atonia rinnonziato 23, A3 (ma si noti la compresenza delle corrispondenti forme toscane rinunziato 53, aggiunta 24, A41, aggiunte A28, A38, A41, A46, aggiunto A38, A43, giunte A18, aggiungere A23, aggiungersi A25, aggiungervi A25, A27, A29, giunga 16. Nei Principi di scienza nuova si hanno: 1 forma rizotonica per aggiongere, 13 forme rizotoniche per congiongere, 2 voci rizotoniche e 4 rizoatone per prononziare, 2 voci rizotoniche e 3 rizoatone per dinonziare. 50 De Blasi 1993, p. 399 rileva nella grammatica pubblicata da sant’Alfonso Maria de’ Liguori nel 1746 (Brevi avviamenti di grammatica e di aritmetica, riediti da Librandi 1984) «la prescrizione di giunto e congiunto invece di gionto e congionto, forme dovute al dialetto». 51 Cfr. Vitale 1986, p. 193: «pur così attento agli esiti del suo programma riformatore, lascia affiorare nel suo contesto linguistico, sia pure in misura limitata, fenomeni (per lo più riflettenti – ed è comprensibile – caratteristiche fonologiche) del proprio dialetto». 52 Esempi: «con ischiettezza» 4, «in iscienza» 23, «con iscienza» 39, «con isplendore» 47 38 Proprio del linguaggio letterario, e in particolare del registro poetico, è il tipo rappresentato da scoverta, scovrire e affini: voci piuttosto peregrine, se «coi verbi coprire e scoprire le forme che mantengono l’occlusiva sorda sono normali nella lingua del secondo Settecento» 53. E di sapore letterario è anche la dentale sonora di imperadore A8 e servidore A6, forme che tramonteranno quasi del tutto nella prosa del secondo Settecento, ma continueranno a lungo ad essere inerzialmente raccomandate da vocabolari e grammatiche 54. Ancora una volta favorita dalla convergenza di tradizione letteraria antica e dialetto, e attestata con una certa ampiezza nel Di Capua, è la forma dissimilata propio (e affini) 55: poiché essa sarà oggetto di una sistematica sostituzione con proprio nel passaggio dalla prima alla seconda Scienza nuova, la sua frequenza nella Vita è uno degli elementi che suggeriscono l’affinità linguistico-stilistica dell’autobiografia con la redazione originaria del trattato. Quanto alla morfologia, la forma froda 54 56 trova riscontro nel Di Capua assieme ad analoghi metaplasmi «antichi e rimasti nella tradizione toscana» 57. Accanto a un solo esempio della sequenza per li se ne annoverano numerosi di per gli, mentre è del tutto assente il tipo pei (e pe’) 58: situazione leggermente diversa da quella del Di Capua, dove la prima soluzione, toscana aurea, è preferita alle altre 59. D’altra parte, due occorrenze per il pronome di sesta persona eglino, una per elleno (una anche per elle) e una per le terze persone ei ed e’ (contro ben 130 di egli) confermano la tendenza a un accoglimento non sistematico di tratti iperletterari che di fatto imparenta la prosa vichiana con quella dei puristi napoletani ben più A18, «per isperimentare» 2, «per ispiegare» 18, 54, «per ispiegarvi» 18, «per ispaziarvi» 21, «per isviluppare» 25, ecc. Cfr. ancora Vitale 1986, p. 196. 53 Esempi: scoverto 29, scoverte 50 54 discoverte 55 discoverta 57 discoverte 59 (un caso di scoperta si trova nell’Aggiunta A29). La citazione è da Patota 1987, p. 151. Anche in questo caso non mancano riscontri nel Di Capua: Vitale 1986, p. 198. 54 Patota 1987, p. 150: «i vocabolari continuano a considerare servidore la forma principale. Solo il Tommaseo-Bellini vi appone la croce di arcaismo». 55 Esempi: propie 4, 16, 54, propia 9, 16, 20 (13 occ.), propio 15, 16, 20 (6 occ.), propietà 27, 37 bis (7 occ.), propi 54. 56 Otto occorrenze della stessa forma anche nella Scienza nuova: Intr. 8, Intr. 18, II.4.1.3 bis, II.5.1.4, IV.13.3.3, IV.13.3.5, IV.13.3.7. 57 Vitale 1986, p. 199. 58 Esso sopravviveva ancora in vari prosatori del secondo Settecento: cfr. Patota 1987, p. 179 (con esempi da Bettinelli e Alfieri). 59 Esempi: per li 54, per gli 1, 5, 13, ecc. (13 occ.). 39 di quanto lascerebbe supporre l’atteggiamento distaccato del filosofo nei confronti del capuismo 60. All’influsso di quella prosa manieristicamente toscaneggiante e anticheggiante andrà dunque ricondotto anche l’uso – attestato pure nel Di Capua – di esso rinforzativo di pronomi di terza e sesta persona, ma solo dopo preposizioni (a / da / con essolui, ad essoloro 61), e quello – piuttosto frequente, qui come nei capuisti – di il per la forma proclitica diretta maschile davanti a consonante 62. E sempre in tema di pronomi, l’uso di li per il dativo singolare ha sei occorrenze nell’autobiografia 63, e si accompagna (anzi, si confonde, vista la presenza dei rispettivi allotropi a parti invertite) con l’uso di gli per la forma clitica diretta del plurale 64. Nella morfologia verbale emergono ancora gli arcaismi e i poetismi notati da Maurizio Vitale nei puristi partenopei della generazione precedente, ma di solito accompagnati da allotropi più consueti, in una caratteristica tendenza alla variatio. Ad un’occorrenza di veggono 52 se ne affianca una di vedono 37; ad un caso per debbo 42 quattro di devono 34ter, 39 (mentre è del tutto assente il tipo deggio) 65. Nel perfetto indicativo, l’isolato stieron 54 (per il quale mancano allotropi) andrà accostato al dierono del Di Capua 66. Il ricorso al gerundio preposizionale (tipo «in conoscendo» 30 67), presente già nell’italiano antico, nella prosa italiana sei- e settecentesca fu certo favorito dal modello francese e dunque ha valore per così dire opposto 60 Esempi: eglino 16, 37, elleno 37, elle 34, ei 48, e’ 1 (assente nella Scienza nuova, è forma altrove usata da Vico solo in poesia: 12 occ. nei testi riportati nella LIZ), egli: 130 occ. Nel corpus secondosettecentesco preso in esame da Patota 1987, p. 161, «egli è la forma di gran lunga maggioritaria: molto meno frequente il tipo ei, scarsa l’incidenza di esso, del tutto accidentale la presenza di lui, accolta dal solo Neri la forma ridotta e’»; Vitale 1986, p. 201 registra come «consueta» la forma eglino in Leonardo di Capua. 61 Esempi: a essolui 3, 23, ad essolui 41, da essolui 13, 22, con essolui 10; a essoloro 47, ad essoloro 54. 62 Esempi: il diede 19, il dovette abbandonare 20, il dimostrano 24, il tentò 24, il trattò 24 il guidò 24, il credette 31 il ponevano 47 il priegò 52; cfr. Vitale 1986, p. 202. 63 Occ.: 9, 16, 23, 24, 47, A26. 64 Esempi: intendergli 27, disporgli 16, avergli 27, investigargli 37, rintracciargli 37, dividergli 39, distruggergli 39, piegargli 42, ecc. 65 Per il suo corpus secondosettecentesco Patota 1987, p. 209 riferisce: «ho trovato più spesso debbo (Parini, Alfieri, Gozzi, A. Verri, P. Verri, Cesarotti) che devo (Alfieri, A. Verri, Cesarotti), e inoltre deggio (Chiari)». 66 Vitale 1986, p. 207. 67 Altri esempi: «in ragionando» 53, «in mandandogliela» 72, «in rapportandogli» 7. 40 rispetto a toscanismi e arcaismi letterari 68: nel Vico agiscono forse, simultaneamente, entrambi i modelli, il più recente dei quali sarà in certo senso involontario; funzionalmente analoghi – ma esenti dal possibile influsso francese – i casi di infinito preposizionale come «in riflettere» 7 69. Il grado di anomalismo della prosa vichiana aumenta ulteriormente se si osservano talune più generali caratteristiche sintattiche. Emblematica è la formula stessa con cui si apre l’autobiografia, un costrutto che si potrebbe interpretare come una topicalizzazione (attacco con un «tema sospeso» al quale la frase che segue attribuisce una funzione sintattica ripetendolo sotto forma di pronome): «Il signor Giambattista Vico egli è nato in Napoli l’anno 1670» 19; e la stessa figura torna, con lievi variazioni, anche nel seguito 70. La particolare frequenza di costrutti latineggianti, come quello che ricalca la formula “accusativo + infinito” 71, è già stata notata nella Scienza nuova da Fubini, che ha ricondotto questo fenomeno ad una tendenza al latinismo sintattico così pervasiva da far apparire, a tratti, il capolavoro vichiano come frutto di una traduzione mentale a partire da un testo soggiacente 72. Un simile giudizio potrebbe ripetersi anche per la Vita, la quale tuttavia – forse per effetto della densità filosofico-argomentativa lievemente inferiore rispetto al trattato – mostra una minor dipendenza dall’impronta del periodare latino. Permane comunque anche qui la generale tendenza vichiana ad una 68 Cfr. Folena 1983, p. 37. Altri esempi: «in osservare» 7, «con riportarne» 23. Cfr. Vitale 1986, p. 212, che rimanda anche a Migliorini 1987, pp. 472 e 633. 70 Esempi: «ma la scienza del giusto che insegnano i morali filosofi, ella procede da poche verità eterne» 25; «Questa disavventura del Vico, per la quale disperò per l’avvenire aver mai più degno luogo nella sua patria, fu ella consolata dal giudizio del signor Giovan Clerico» 54; «la romana storia antica, letta con l’idee presenti, ella sia più incredibile di essa favolosa de’ greci» 58. Un costrutto analogo compare, in un contesto simile anche per contenuto, nella lettera del 26 dicembre 1725 a Gherardo degli Angioli, dedicata a Dante: «Egli nacque Dante in seno alla fiera e feroce barbarie d’Italia» (cfr. Vico 1990, p. 317). 71 Esempi: «giudicò essere i filosofi dell’equità naturale» 7, «osservando il Vico così da Aristotile come da Platone usarsi assai sovente pruove mattematiche» 15, «e questo sia quello quid divini che Ippocrate diceva cagionare tai febbri» 38. 72 Cfr. Fubini 1946, p. 118-19, e quanto agli esempi: «avvertì e giudicò essere i filosofi dell’equità naturale» 7, «dobbiamo intendere essere principio delle cose tutte una idea eterna tutta scevera da corpo» 18, «e niuna cosa essere più volgare che ’l fomento in proporzionata distanza concepisce il foco» 37, «e questo sia quello “quid divini” che Ippocrate diceva cagionare tai febbri» 38, «Bacone vede tutto il saper umano e divino, che vi era, doversi supplire in ciò che non ha ed emendare in ciò che ha» 41. 69 41 sintassi complessa e magniloquente, che però, nella sua distanza dall’ideale rococò di style coupé e nel suo ostentato rifiuto dell’andamento serrato e compatto tipico della tradizione razionalistica, è in genere altrettanto lontana dal classicismo boccacciano, bembiano e casiano caro ai puristi partenopei. Di norma i tratti catalogabili come letterari e arcaizzanti sembrano modellati più sul latino che sull’italiano antico, e nella predilezione per i periodi fortemente incassati, che si manifesta in pieno anche nella Vita, si cercherebbero invano certe volute sintattiche tipicamente decameroniane, ben acclimate nella prosa di vari autori vicini nel tempo e nello spazio. Al contrario, il frequente ricorso al nesso relativo 73 e la tendenza del ragionamento a produrre continue espansioni concettuali portano alla formulazione di periodi di cui, più che la lunghezza, è notevole la tendenza ai procedimenti di accumulazione. La fattispecie più semplice è costituita dai casi di dislocazione a sinistra di complementi, con ripresa pronominale (es: «al Niccolò Maria gliele domandò» 22, «di cui più soventi fiate su vari princìpi d’instituzioni civili ne aveva letto riferirsi le auttorità» 25, ecc.); ma alla stessa tendenza va ricondotta l’esasperata ipotassi, per la quale si vedano i seguenti esempi di periodi a complessa incassatura: Imperciocché egli appruova una indispensabile necessità, anche umana, di ripetere le prime origini di tal Scienza da’ principi della storia sacra, e, per una disperazione dimostrata così da’ filosofi come da’ filologi di ritrovarrne i progressi ne’ primi auttori delle nazioni gentili, esso – facendo più ampio, anzi un uso di uno de’ giudizi che ’l signor Giovanni Clerico avea dato dell’opera antecedente, che ivi egli «per le principali epoche ivi date in accorcio dal diluvio universale fino alla seconda guerra di Cartagine, discorrendo sopra diverse cose che seguirono in queso spazio di tempo, fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantità di errori volgari, a’ quali uomini intendentissimi non hanno punto badato» – discuopre questa nuova Scienza in forza di una nuova arte critica da giudicare il vero negli auttori delle nazioni medesime dentro le tradizioni volgari delle nazioni che esse fondarono, appresso i quali doppo migliaia d’anni vennero gli scrittori, sopra i quali si ravvoglie questa critica usata. (54) Ché, quantunque, per quello che questo filosofo vi conferì di suo, ella avesse servito innanzi agli empi averroisti, però, essendone la pianta quella di Platone, facilEccone alcuni esempi dalla Vita: «Di che, come un’offesa fatta a essolui, il Giambattista risentito, e intendendo che nel secondo semestre si aveva a ripetere il già fatto nel primo, egli si uscì» 3; «Nel qual tempo, essendo di està, egli si poneva al tavolino la sera» 3; «Di che il padre, ingombro della volgar fama e grande del lettor Verde, forte maravigliossi» 6; «La qual disposizione riuscì a lui efficace a meditar poi un principio di dritto natural delle genti» 11. 73 42 mente la religion cristiana la piegò a’ sensi pii del di lui Maestro, onde, come ella resse da principio con la platonica sino all’undecimo secolo, così indi in poi ha retto con la metafisica aristotelica. (20) Imperciocché egli, già di mente metafisica, tutto il cui lavoro è intendere il vero per generi e, con esatte divisioni condotte fil filo per le spezie de’ generi, ravvisarlo nelle sue ultime differenze, spampinava nelle maniere più corrotte del poetare moderno; che con altro non diletta che coi trascorsi e col falso. (9) Non è raro, poi, il caso in cui la medesima tendenza accumulativa porti all’accostamento in serie di relative “telescopiche”, che fanno tornare alla mente il suggestivo giudizio fubiniano sulla lingua di Vico come «conquista continua che si rinnova ad ogni costrutto, ad ogni vocabolo e, direi, ad ogni suono» 74: in conformità di questa metafisica, fonda una morale sopra una virtù o giustizia ideale o sia architetta, in conseguenza della quale si diede a meditare una ideale repubblica, alla quale diede con le sue leggi un dritto per ideale. (13) Ma il brevissimo tempo, dentro il qual il Vico fu costretto di meditar e scrivere, quasi sotto il torchio, quest’opera, con un estro quasi fatale, il quale lo strascinò a sì prestamente meditarla ed a scrivere, che l’incominciò la mattina del santo Natale e finì ad ore ventuna della domenica di Pasqua di Resurrezione. (41) Meno frequente che i membri frasali si dispongano in strutture simmetriche all’interno della frase, producendo non un effetto centrifugo, ma una pingue concinnitas realizzata dal bilanciamento tra sintagmi funzionalmente equivalenti, come nel seguente esempio: Dipoi nelle Pompe funerali di donna Caterina d’Aragona, madre del signor duca di Medinaceli, viceré di Napoli, nelle quali l’eruditissimo signor Carlo Rossi, la greca, don Emmanuel Cicatelli, celebre orator sacro, la italiana, il Vico scrisse l’orazion latina, che va con gli altri componimenti in un libro in foglio stampato l’anno 1697. (23) Le strutture binarie sono, del resto, continue nel ragionamento vichiano (in cui, come è noto, sono poco meno ricorrenti di quelle triadiche, su cui è costruita tanta parte dell’impalcatura ideologica), e compaiono con notevole frequenza anche nella Vita, tanto da apparire come il riflesso stilistico di una delle articolazioni logiche preferite dall’autore, sia che si tratti di distinzione in generali coppie di categorie (esempio minimo: «Quindi 74 Fubini 1946, p. 101. 43 egli ne ripartisce i principi in due parti, una delle idee, l’altra delle lingue» 56), sia che si tratti dell’assunzione di modelli culturali complementari (esempio minimo: «Fino a questi tempi il Vico ammirava due soli sopra tutti gli altri dotti, che furono Platone e Tacito» 37) o di partizioni retorico-narrative (esempio minimo: «e con questo aspetto trattò o de’ fini degli studi, come nelle prime sei, o del metodo di studiare, come nella seconda parte della sesta e nell’intiera settima» 38). A un estremo di massima semplicità il procedimento si manifesta nella preferenza per le dittologie verbali («ritruovare e promuovere» 27, «avvertì e giudicò» 7, «si assideri e si dissecchi» 9, «educe e crea» 13, etc.) ben frequenti anche nella Scienza nuova 75. All’estremo opposto stanno le ampie architetture sintattiche della Vita: egli sentiva un sommo piacere in due cose: una in riflettere nelle somme delle leggi dagli acuti interpreti astratti in massime generali di giusto i particolari motivi dell’equità ch’avevano i giureconsulti e gl’imperadori avvertiti per la giustizia delle cause: la qual cosa l’affezionò agl’interpetri antichi, che poi avvertì e giudicò essere i filosofi dell’equità naturale; – l’altra in osservare con quanta diligenza i giureconsulti medesimi esaminavano le parole delle leggi, de’ decreti del senato e degli editti de’ pretori, che interpetrano. (7) Ed entrambi questi due piaceri erano altrettanto segni, l’uno di tutto lo studio che aveva egli da porre all’indagamento de’ princìpi del diritto universale, l’altro del profitto che egli aveva a fare nella lingua latina, particolarmente negli usi della giurisprudenza romana. (7) La qual disposizione riuscì a lui efficace a meditar poi un principio di diritto natural delle genti, il quale e fosse comodo a spiegare le origini del dritto romano ed ogni altro civile gentilesco per quel che riguarda la storia, e fosse conforme alla sana dottrina della grazia per quel che ne riguarda la morale filosofiai. (11) La componente più interessante del lessico dell’autobiografia vichiana riguarda la terminologia filosofica e intellettuale. Sulla specifica pregnanza di alcuni dei termini impiegati per descrivere il percorso gnoseologico e filosofico si sono già soffermati gli interpreti interessati agli aspetti retoricosapienziali della Vita: è il caso della sequenza in cui i verbi sentire, affezionarsi, avvertire e infine giudicare, usati per descrivere la progressione culturale che conduce alla teoresi della Nuova scienza, potenziano in un certo senso il loro significato tradizionale e si dispongono secondo una scala di 75 44 Vi si sofferma Fubini 1946, p. 113; e per le coppie verbali, p. 153. intensità ben calibrata 76; che si tratti di un effetto stilistico deliberatamente ricercato è suggerito dall’elaborazione che una sequenza simile subisce tra la prima e la seconda edizione del trattato maggiore, come rilevò Fubini 77. Vivacemente anomalista – come si è visto – in campo morfosintattico, il filosofo napoletano è anche creativo in ambito lessicale, mostrando una predilezione per alcuni procedimenti di formazione, dei quali lo stesso Fubini ha dato vari esempi 78. Certi termini astratti come incomprendevolità ‘incomprensibilità’, che è forse un conio vichiano e gentilità ‘età dei gentili’, parola già antica (anche in quest’accezione), ma piuttosto rara nel Settecento, trovano riscontro anche nell’opera maggiore, dove s’accompagnano ad una serie ancor più nutrita di lessemi simili 79. Diverso valore hanno, poi, le – peraltro non frequenti – macchie lessicali che potrebbero considerarsi arcaici toscanismi, come traccuramento (per cui si confrontino le voci verbali traccurando o traccurarono nella Scienza nuova) o l’espressivo spampinare, qui nell’accezione, che pare tipicamente vichiana, di ‘lasciarsi andare a un modo di scrivere enfatico e ridondante’ 80. Si tratta, comunque, di tracce ben più esigue rispetto a quelle ravvisabili nei capuisti, nei quali il toscanismo lessicale è esteso a tutti gli ambiti della terminologia e giunge all’accoglimento sistematico del «lessico più anticheggiante e spesso ormai fuori dagli usi scritti» 81. Rari, nell’insieme, anche i napoletanismi, tra i quali è possibile che si debba includere la forma està ‘estate’ 82, presente anche in Giannone, e 76 Cfr. Battistini 1995, p. 48. Nel caso notato da Fubini 1946, p. 209, la successione prevede anche una fase per così dire discendente, ossia negativa: «gli uomini prima sentono il necessario, poi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrapazzar le sostanze»; nella redazione originaria essa prevedeva un solo verbo («attendono»), da cui dipendevano tutti i sostantivi. 78 Fubini 1946, pp. 103 si sofferma in particolare sull’inconsueto diminutivo chiesiccuola: «non resta contento della semplice locuzione “piccole chiese”, o di qualcuno dei diminutivi soliti, “chiesetta” o “chiesuola”, ma si ricorda del più raro “chiesicciuola”, e questo ancora, secondo un procedimento abbastanza frequente in lui, trasforma a modo suo in “chiesiccuola”». 79 Si ha infatti, nella Scienza nuova, oltre a gentilità Intr.6, 15, 17 ecc. e incomprendevolità II.2.4.1, anche ugualità Intr.29, egualità Intr.29, impossibilità I.2.22, predicabilità II.2.1.4, inegualità IV.13.3.4. 80 Ma accezioni simili sono largamente documentate: cfr. GDLI s.v.; la Crusca I riporta solo il senso originario di ‘levar via i pampani’. 81 Vitale 1986, p. 25. 82 Secondo Andreoli 1887, s.v. state, «l’apocope Està si tollera a mala pena in poesia». Il tipo està, non toscano e parimenti diffuso nei dialetti settentrionali e centro-meridionali, ha una 77 45 inoltre – non ostante che si tratti di un passo equivoco – la costruzione di uscire con l’oggetto diretto in «affin di poter uscire i ragionamenti» 17 83; improbabile che abbia una connotazione regionale l’uso dell’aggettivo acconcio, annoverato fra le macchie “dialettali” da Fubini, con riferimento alla Scienza nuova 84. Nel complesso contenuto anche l’insieme di latinismi e grecismi crudi, ben più frequenti nel trattato maggiore: a parte l’aggettivo insuave, per cui si potrebbe supporre un recupero diretto dalla lingua antica (nonostante la buona attestazione nei testi volgari italiani di epoca precedente), spicca nella Vita il grecismo filautia (glossato: «o sia l’amor proprio»), che pure ha una discreta diffusione soprattutto nella prosa del Seicento – ferma restando l’abbondanza di termini e locuzioni che appaiono fedelmente ricalcati su corrispondenti termini e locuzioni del latino 85. Andrea Battistini ha ravvisato nell’impianto generale della Vita un’adesione fedele allo schema ideale proposto da Porcìa nel suo Progetto: adesione riconoscibile sia nell’inventio, sia nella dispositio del trattato autobiografico («anzi, a volte sembra quasi che Vico risponda a un questionario, pur esponendo le proprie idee personali» 86). Ma sotto il profilo linguistico i caratteri di continuità e di uniformità fra il Progetto pubblicato nella «Raccolta» e la risposta vichiana sono forse meno significativi di quelli di discontinuità. Sia nella riflessione, sia nella pratica linguistica, lo scritto di Porcìa e quello di Vico appaiono segnati da notevoli differenze: se la centralità della speculazione sulla lingua riguarda, nei promotori del Progetto, il possibile rinnovamento della didattica gesuitica, nel Vico la stessa questione viene affrontata da una prospettiva addirittura opposta per quanto riguarda il tema del primato culturale del latino sull’italiano. Ancora: le forme linguistiche e stilistiche nelle quali si esprimono – pur con diverse declinazioni personali – intellettuali settentrionali immersi nel clima del primo illuminismo come il Porcìa o, ancor meglio, il Muratori o certa frequenza in autori del Mezzogiorno: la LIZ riporta esempi da Campanella, Lubrano, Meli, oltreché appunto da Vico e Giannone. 83 Mancano in effetti esempi paralleli nella Scienza nuova: il che fa sospettare che l’esempio della Vita possa interpretarsi in altro modo: i ragionamenti potrebbe essere soggetto di uscire in un costrutto infinitivale a sua volta difficilmente giustificabile. 84 Esempi: acconci 54, acconcia 29, 31, acconcio 40. Cfr. Fubini 1946, p. 105. 85 Esempi: «per vicende di giornate» 12, calco del latino «per vices (dierum)»; «si ravvoglie (questa critica)» 54 probabile calco di versatur, o nell’ambito della terminologia tecnica (giuridica o filosofica) «diritto natural delle genti», traduzione di ius gentium, 11, 53, 54 ecc., «occasioni della fortuna» modellato sul pliniano occasiones fortunae: e l’elenco potrebbe essere allungato, e ancora una volta arricchito da puntuali confronti con il trattato maggiore. 86 Battistini 1990, p. 41. 46 il Vallisneri, stridono vistosamente con quelle che, non ostante appunto l’adeguamento generale alle direttive del Porcìa, il filosofo napoletano esibisce anche nella propria Vita. Rovesciando l’implicito modello del Discours, Vico marca la sua distanza anche dalle forme stilistiche tipiche del razionalismo e oppone alla sobrietà linguistica degli intellettuali settentrionali un ben diverso turgore espressivo. La Vita, pervenuta solo nella redazione affidata al Porcìa, non consente, infine, a differenza della Scienza nuova, uno studio dei processi elaborativi: data la complessiva omogeneità stilistica fra il trattato maggiore e l’autobiografia, è probabile che un simile confronto, se fosse possibile, manifesterebbe una tendenza alla costante variatio analoga a quella documentata da Fubini. Anche nell’accurata gradazione delle serie lessicali, il testo autobiografico conferma la propria affinità stilistica, e al tempo stesso la propria complementarità ideologica, con la summa filosofica. 4. La Vita di Pier Jacopo Martello La Vita di Pier Jacopo Martello esce, si è detto, nel secondo volume della «Raccolta» calogeriana (1729): come dichiara il titolo stesso, l’autobiografia assume a limite temporale il 1718. Pur essendo, in effetti, una delle prime opere inviate a Porcìa, essa venne pubblicata postuma (l’autore era morto nel 1727), e non subì il pesante intervento aggiornativo che avrebbe riguardato quella del Vallisneri. Motivi conduttori del breve testo sono da un lato le relazioni, le amicizie e le collaborazioni professionali stabilite dall’autore nel corso della sua carriera letteraria e da un altro la sua personale ricerca poetica, e in particolare metrico-stilistica. Come già Vico, anche Martello narra la propria vita in terza persona. Passato dall’educazione paterna (Martello è figlio d’un medico) a quella impartitagli dal pittore bolognese Carlo Cignani, il giovane Pier Jacopo viene avviato da quest’ultimo alla lettura di un canone volgare composto da «la Gerusalemme del Tasso, il Furioso dell’Ariosto, ed i Trionfi del Petrarca» (pp. 275-76 dell’edizione originaria), a cui si aggiungono «di soppiatto dal Padre, che lo avrebbe voluto alla sua professione unicamente dedicato», anche i poeti latini, letti e volgarizzati «in versi alla meglio»: singolare deformazione – se non proprio rovesciamento – dello schema proposto dal manifesto di Porcìa, nel quale l’egemonia didattica del latino pareva soffocare il libero accesso alla letteratura volgare. Sottilmente contraddittoria rispetto a quel programma appare del resto anche l’importan47 za attribuita al latino nell’affinamento stilistico del verso tragico: «usava poi la lingua Latina, perché dovendosi in verso Italiano esprimersi le concioni, non gli venisse fatto di valersi alle volte di forme troppo prosaiche e famigliari» (p. 282). In un certo senso, è come se la lingua antica, accusata di invadenza culturale dagli estensori del Progetto, recuperasse quasi surrettiziamente la sua centralità nell’esposizione dei percorsi culturali degli autori (persino quelli che appaiono più spregiudicamente novatori, come appunto il Martello, obiettivo polemico prediletto dal purismo tardosettecentesco). Tale incongruenza è analoga a quella che Giuseppe Toffanin rilevava acutamente a proposito della polemica contro Bouhours, in cui Martello assume la difesa dell’italiano contro il francese: «poiché – scriveva Toffanin – c’è in lui una aperta contraddizione tra la sua pratica di poeta tragico e le teoriche difese in Arcadia, tra la sua ostentata riverenza per il cenacolo dell’Orsi e la pariginità della sua vita, c’è da domandarsi se di questa contraddizione egli fosse consapevole» 87. Dopo un breve indugio negli studi di medicina, Martello decide di non seguire le orme paterne per dedicarsi alla poesia. Ad un esordio come lirico marinista (ma anche lettore devoto dei poeti «Greci, Latini, e Toscani dei migliori secoli», per i quali manifesta una predilezione maggiore che per i moderni), segue l’esperimento della poesia narrativa, e più tardi – grazie soprattutto ai rapporti instaurati con il Muratori, il Maggi, l’Orsi e il Crescimbeni – un’ulteriore conversione poetica, con il completo rigetto del marinismo e il definitivo approdo alla tragedia. Datosi «a leggere i Poeti Greci e Franzesi», Martello vi cerca «un carattere per trattare una favola» (p. 281), appuntandosi in particolare su uno: «voleva l’Economia, che quello che all’opera impresa serviva, si ricevesse, e gli altri si tenessero in serbo per altre favole» (p. 281: si noti la tipica metafora a sfondo commerciale che, ha notato Folena, caratterizza la lingua di tanti prosatori italiani del Settecento). Come farà – ma in un contesto ben diverso – anche un altro grande tragediografo e autobiografo, l’Alfieri, anche Martello ragguaglia puntualmente il lettore sul metodo elaborato per la composizione delle sue opere. Egli ottempera così, sul versante dell’invenzione artistica, all’esortazione del Porcìa di narrare «con le più esatte circostanze» il percorso professionale e intellettuale degli autori convocati: 87 48 Toffanin 1924, p. 261. Ha pure usata un’altra diligenza particolare, ed è stata quella di stendere tutte le sue Favole a Scena per Scena in Prosa Latina, anzi grossolana che no. Imperciocché dovendosi nel Drama imitare gl’improvisi discorsi de’ gran Personaggi Tragici, volle l’Autore poter senza soggezione di pensare nè alle forme, nè al verso, pensare unicamente a quei sentimenti, che il cuore gli suggeriva in quel bollore dell’occasione improvisamente ed a precipizio (pp. 281-82). Oltre a soffermarsi sull’introduzione del nuovo verso tragico («approvato da molti e particolarmente da Comici, che lo trovarono comodo a recitarsi», p. 285), Martello si diffonde dapprima sul proprio debutto in Arcadia, quindi sul successo riscosso dai suoi drammi in vari teatri italiani, e di seguito sull’immediata fortuna – e sulle conseguenti deformazioni e degradazioni – che le sue innovazioni metriche conoscono presso numerosi autori contemporanei. L’ultima parte dell’autobiografia martelliana inizia con la narrazione della morte del figlio, rievocata soprattutto per le sue ripercussioni letterarie: essa dà occasione alla composizione di un canzoniere nel quale si mostra «la differenza del compor Marinesco dal Petrarchevole» (p. 287). Segue il periodo trascorso a Parigi come segretario del Ministro apostolico Aldrovandi: durante il soggiorno francese, il tragediografo si dedica soprattutto all’elaborazione teorica e alla difesa letteraria delle proprie scelte stilistiche, consegnate ai Dialoghi della Tragedia antica e moderna. Il ritorno in Italia corrisponde a una nuova e intensa stagione compositiva. A differenza di Vico e coerentemente con lo spirito del manifesto calogeriano, Martello conclude con la citazione di alcuni dei giornali e delle gazzette europee che hanno trattato delle sue opere. Precisazione criticobibliografica in linea con le istanze di pubblica utilità intellettuale professate dal Progetto: «sciolti da ogni privata passione», aveva scritto il Porcìa, gli autobiografi avrebbero dovuto «dichiararsi per lo bene pubblico, la picciola gloria di far illustri solamente se stessi posponendo alla vera, e grande di giovare a una intera Nazione». Se complessivamente scarso, e limitato a pochi cenni piuttosto convenzionali, è lo spazio concesso agli anni della formazione e agl’insegnamenti linguistici ricevuti, l’autobiografia martelliana si distingue nettamente da quella vichiana per la struttura generale e per il caratteristico ricorso ad uno stile rapido e franto, analogo a quello teorizzato e praticato negli scritti critici dello stesso autore, in cui Folena ha scorto il modello del gusto rococò nella prosa italiana del primo Settecento. Dello «stile spedito» e della «prosa tutta prosa e tutta cose» di cui parla Folena la Vita è un esempio tipico, ben documentabile nell’ambito della 49 sintassi (trattandosi di un’opera postuma di cui non risulta conservato il manoscritto, sarebbe malcerto qualsiasi rilievo sulla veste fonomorfologica 88). Non è raro l’attacco del periodo con una frase participiale o gerundiale, funzionalmente simile (e forse deliberatamente ispirata) all’ablativo assoluto latino, sùbito seguita dalla principale («Uscito dagli studj fanciuleschi, dal Padre il quale dilettantissimo era di pittura, di gioje, e di cose naturali, fu dato la sera per compagno al gran Carlo Cignani, p. 275 89). L’incassatura del periodo supera di rado la misura di tre subordinate, generalmente disposte su entrambi i lati della principale, e quasi congegnate in modo da porre quest’ultima in massimo rilievo, concentrandovi il nucleo del contenuto informativo. Sequenze di due o tre frasi coordinate sono spesso scandite da punti e virgola, e bilanciate in membrature di proporzioni omogenee («Leggeva il Preti, e il Sempronj, ed altri loro contemporanei, e si struggeva di desiderio di arrivare alle acutezze loro, tanto lodate anche dagli Scrittori antichi di que’ tempi; ma per quanto ci studiasse non ci riusciva, e ciò ascriveva non a repugnanza di natura, ma a debolezza di spirito, ed a fiacchezza di mente», p. 277 90). Siamo, evidentemente, agli 88 Di modesta utilità, per uno studio più ravvicinato della lingua martelliana, è anche il manoscritto – non autografo, ma probabilmente idiografo – del Muzio Scevola conservato alla Biblioteca Universitaria di Bologna, le cui varianti (prevalentemente formali) rispetto alla stampa, presumibilmente controllata dall’autore, sono registrate da Hannibal S. Noce in appendice alla sua edizione (Martello 1982, pp. 729-32). 89 Altri ess.: «Uscito dagli studj della Retorica, si applicò alla Filosofia ed alla Medicina, non mai però abbandonando la Poesia, ma palesatosi con certi Epitalamj e Sonetti per dilettante di Poesia, e sentendosi universalmente lodare nelle Accademie, lasciò i Medici ed i Leggisti in un canto, e lasciò libero il corso al suo genio» (pp. 276-77); «Divisa, usava di assegnare a ciascun personaggio il costume a lui conveniente, scrivendolo a canto al nome del medesimo» (p. 281); «Là giunto trovò molti amici, de’ quali altri per conversazione seco avuta in Bologna, altri per lettere, altri per nominanza lo conoscevano, tutti Arcadi e Letterati, i quali si radunavano in casa dell’Abbate Paolucci Secretario del Cardinal S. Cesareo» (p. 283); «In tanto essendo stato promosso al Cardinalato Monsignor Gozzadini Patrizio Bolognese con infinita allegrezza di tutta Roma, parve tempo al Secretario di contrasegnare il suo ossequio al Cardinale compatriota» (p. 284); «Ma in tanto essendo destinato Monsignor Aldrovandi dal Sommo Pontefice all’ora Clemente XI a passare come Ministro Apostolico alla Corte di Francia, per quindi trasferirsi come Nuncio a quella di Spagna, piacque a Sua Santità che il Martello accompagnasse il Prelato» (p. 287). 90 Altri ess.: «Diedesi però alla Poesia narrativa, che vedea coll’esempio dell’Ariosto e del Tasso non abbondar d’acutezze; e quanto componeva di lirica traeva o da Anacreonte, o da Pindaro, o da altri Greci, lasciando in pace i Toscani» (pp. 277-78); «Era già stato esortato dal Marchese Orsi il Martello ad occuparsi nella Tragedia, ed a lasciar l’Epopeja troppo ben signoreggiata dal Tasso, e troppo felicemente dall’Ariosto occupata; perché si diede il Martello a leggere i Poeti Greci e Franzesi, lavorando occultissimamente a un Teatro, senza che nè il Marchese, nè i suoi più intimi amici ne risapessero» (pp. 280-81); «Diedesi però alla Poesia narrativa, 50 antipodi della complessità sintattica vichiana, e più vicini ai modelli di asciuttezza espressiva che nei decenni successivi faranno apparire agli occhi di molti autori del pieno Settecento turgida e ampollosa non solo la prosa del secolo precedente ma persino quella del classicismo cinquecentesco. Nella Risposta ad Aristofilo, pubblicata nella Frusta, Baretti biasimerà la prosa del Casa «perché troppo s’assomiglia nello stile a Cicerone, fraseggiando alla latina» 91; in direzione anti-ciceroniana (e casomai sallustiana e tacitiana, nel gusto per la frase breve e per la descrizione scorciata) sembra muoversi, con paradosso solo apparente, anche il classicista Martello, il cui programma stilistico è condensato in un passo del Vero parigino italiano (1718) richiamato da Maurizio Vitale: «Via dunque dalle nostre lettere questa vana pompa oratoria, e cara sieci la semplicità di uno stile grazioso, agile e naturale, tanto nemico delle trasposizioni, quanto amico della brevità ne’ periodi» 92. Raramente, nella narrazione condotta – al pari di quella di Vico – parlando di sé in terza persona, il Martello esplicita il soggetto quand’esso coincide con l’autore-protagonista. Frequenti, e tipiche del gusto per una prosa balancée, le strutture binarie: ma se nel filosofo la struttura frasale bimembre mirava a individuare i cornua di questioni concettuali, nel tragediografo essa appare come un armonico ornamento, talvolta sottolineato dal ricorso a una prosa numerosa (duplice ottonario in clausola di periodo, ad esempio: «a debolezza di spirito, ed a fiacchezza di mente», p. 277: perche vedea coll’esempio dell’Ariosto e del Tasso non abbondar d’acutezze; e quanto componeva di lirica traeva o da Anacreonte, o da Pindaro, o da altri Greci, lasciando in pace i Toscani» (pp. 277-78); «Era già stato esortato dal Marchese Orsi il Martello ad occuparsi nella Tragedia, ed a lasciar l’Epopeja troppo ben signoreggiata dal Tasso, e troppo felicemente dall’Ariosto occupata; perché si diede il Martello a leggere i Poeti Greci e Franzesi, lavorando occultissimamente a un Teatro, senza che nè il Marchese, nè i suoi più intimi amici ne risapessero» (pp. 280-81); «Ciò diede animo al Martello, e provocò l’emulazione di molti a dar mano a Tragedie: ma trovando la rima difficile a maneggiarsi, si appigliarono al verso sciolto e cominciarono a contrastar all’Autore la gloria del Verso acquistato; ma senza alterarsi egli punto solea dire, che con un pajo di Forbici poteva accomodarsi la differenza, tagliando a mezzo i suoi versi, che subito diventavano Eptasillabi, usitati molto in Italia, ed usati particolarmente quasi per tutta la sua Canace dallo Sperone» (pp. 285-86); «Ciò diede animo al Martello, e provocò l’emulazione di molti a dar mano a Tragedie: ma trovando la rima difficile a maneggiarsi, si appigliarono al verso sciolto e cominciarono a contrastar all’Autore la gloria del Verso acquistato; ma senza alterarsi egli punto solea dire, che con un pajo di Forbici poteva accomodarsi la differenza, tagliando a mezzo i suoi versi, che subito diventavano Eptasillabi, usitati molto in Italia, ed usati particolarmente quasi per tutta la sua Canace dallo Sperone» (pp. 285-86). 91 Baretti 1932, I, p. 343. 92 Cfr. Vitale 1984, p. 360, con rimando a Martello 1963, p. 366. 51 sino in questi dettagli la prosa martelliana si oppone a quella vichiana, sempre attenta a «schifar nella prosa» i «numeri poetici» 93), talaltra impreziosito retoricamente da un’epifrasi («né però dispiacendo al Martello la dolcezza di questo Poeta e la facilità», p. 277) o da uno zeugma («accasandosi con una Giovine Cittadina, di buoni costumi e natali», p. 280). Particolare rilievo ha, naturalmente, la narrazione relativa al conio, per il verso tragico, del doppio settenario che rese celebre il Martello, e che egli indica come come corrispondente volgare del pentametro classico, anziché come ripresa dell’alexandrin corneilliano e raciniano, quale di fatto esso era. Il martelliano trarrebbe la sua efficacia dalla perfetta comparabilità con il verso classico e dalla conformità dell’aggiunta della rima ai dettami della teoresi aristotelica e oraziana («sentendo che Aristotile e Orazio combinano nel raccomandar la dolcezza in questo austero Poema, aggiunse la Rima»): del resto, nella generale Komposition delle sue tragedie, Martello dichiara, come si è visto, di fondarsi su un impianto formale di derivazione latina. Anche nel lessico si manifestano tratti tipici di un gusto stilistico che Folena definì appunto rococò: tale è la preferenza accordata alle serie dei diminutivi in -etto come poemetto (pp. 279, 280, 284, 285), drametto (p. 279), pargoletti (p. 280), giardinetto (p. 283), figliuoletto (p. 286), favoletta (p. 291), o a quella degli aggettivi in -evole come petrarchevole (p. 287), riguardevole/-i (pp. 279, 288, 289), rappresentevole (p. 291). In simili scelte si rivela quell’inclinazione al Kleinstückwerk e al «particolare minuto e preciso» in cui lo stesso Folena individuava le peculiarità stilistiche della prosa martelliana. 5. Gli scritti autobiografici del Muratori Se l’autobiografia vichiana e quella martelliana rappresentano gli unici frutti del Progetto di Porcìa giunti a piena maturazione, vari altri scritti autobiografici sollecitati in quella circostanza non arrivarono alle stampe. Nel caso del Muratori, l’esercizio della scrittura autobiografica è ancor più complesso, dando le sue prove iniziali ancor prima della pubblicazione del Progetto (ma forse in corrispondenza del suo originario concepimento), e proseguendo anche dopo la conclusione di quell’iniziativa. Pressoché nullo è il ruolo della riflessione linguistica (e didattica) nel 93 52 Così nella Vita, 12. più antico degli scritti autobiografici muratoriani, una Vita redatta «intorno al 1720 o poco dopo» e conservatasi autografa 94, che costituisce forse il primo abbozzo di un’opera composta appunto in vista di una raccolta come quella di cui il Muratori discute col Porcìa a partire dal 1721. Indiretta conferma del carattere sperimentale e preparatorio della prima Vita muratoriana è in ogni caso la sua stessa organizzazione testuale: del personaggio biografato si parla qui in terza persona – come negli scritti di Vico e in Martello –, ma è significativamente assente, nel titolo, la dicitura «scritta da esso» o altra analoga; il testo dissimula anzi la propria natura di autobiografia introducendo, pur in un contesto generalmente neutro e referenziale, vari accenni e apprezzamenti che mal si conciliano con un’autopresentazione intellettuale e bio-bibliografica. Il tono dello scritto, che lo rende simile ad un elogio accademico («Continuò pertanto il Muratori a produrre altri parti del suo Ingegno», p. 15, dove si noti l’espressione metaforica, di gusto tipicamente sei-settecentesco 95; «Ci fa egli sperare anche la seconda parte, che abbraccerà le Antichità italiane», p. 15) è quello tipico di una biografia piuttosto che d’un’autobiografia. Del tutto inconciliabile con lo statuto narrativo di un testo scritto in forma impersonale è tuttavia l’occasionale introduzione di una voce narrante distinta dal protagonista, che avviene in un solo passaggio: «Anzi perché in esse raccolte non apparisce un sonetto, che ho veduto nella vita del venerabile P. Domenico Lucchesi Carmelitano, stampata in Lucca, composto da esso Muratori, allorché si formavano i processi per la beatificazione di quel buon servo di Dio...», p. 16. La Vita si concentra esclusivamente sul curriculum di studioso del Muratori, descrivendo la formazione («Fece egli il corso de’ suoi studi in Modena, con prendere di poi in quella università la laurea dottorale», p. 13) e senza soffermarsi su questioni relative agl’insegnamenti ricevuti. Un solo inserto poetico, il sonetto per il carmelitano Domenico Lucchesi, spezza l’andamento di una narrazione per il resto priva di citazioni o di altre discontinuità testuali, e le uniche indicazioni parzialmente estranee agli interessi accademici ed eruditi riguardano la carriera ecclesiastica, la cui de94 Sorbelli 1950, p. 8, che ne trae il testo dall’Archivio Soli-Muratori di Modena (Filza 45). Ad eccezione della Lettera al Porcìa, le citazioni degli scritti autobiografici di Muratori si riferiscono a quest’edizione, e il rimando corrisponde al numero di pagina. 95 La locuzione parto dell’ingegno sembra essersi diffusa in italiano a partire dal sec. XVII: la LIZ riporta esempi già dal Tasso, ma poi con maggiore frequenza cronologica da Boccalini, Tesauro, Marino (2 occ.); per il Settecento rispondono Giannone e Baretti (2 occ. dalla Frusta). 53 scrizione è peraltro sommaria. Ad aspetti più intimi e umani del protagonista è dedicato solo un rapido cenno subito prima della parte conclusiva del testo: in modo simile all’autobiografia martelliana, sono forniti anche rapidi ragguagli relativi ai «contraddittori» sulle sue opere, cioè ai dibattiti suscitati nella repubblica delle lettere, con indicazioni bibliografiche che richiamano anche la stampa periodica («Veggansi i Giornali dei letterati di Venezia», p. 18). La fedeltà a un modello accademico ed erudito favorisce il dispiegarsi dei modi tipici della prosa muratoriana: asciutta e tendenzialmente paratattica, essa non rifugge dalla misurata inserzione di tratti preziosamente letterari soprattutto nella scelta di allotropi fonomorfologici e in alcuni fenomeni microsintattici. Per quanto riguarda i primi si notano, ad esempio, forme verbali come raunato (p. 19: tipo che, assieme a radunato e ragunato alterna continuamente nella prosa del Settecento, connotandosi come moderatamente culto e letterario), vo’ ‘voglio’ (ben più raro, nella prosa settecentesca, rispetto a voglio, con cui pure si avvicenda 96), o ancora il pronome oggettivo il davanti a parola iniziante per consonante (costante anche in Vico), il pronome personale plurale eglino (p. 14), un avverbio come peranche (pp. 14, 19), prezioso trecentismo che nel secolo XVIII conosce una particolare fortuna fra gli scrittori più colti 97. Quanto alla microsintassi, assai frequente è, nel breve testo, la sequenza verbo-soggetto-(oggetto), di gusto arcaizzante, soprattutto a inizio di periodo: Fece egli il corso de’ suoi studi (p. 13); Amava egli di molto l’ottimo cuore de’ Milanesi (p. 14); Continuò pertanto il Muratori a produrre altre parti del suo Ingegno (p. 15); Negli anni 1714, 15 e 16 fece egli vari viaggi per l’Italia (p. 15); Ci fa egli sperare anche la seconda parte (p. 15); Si stese il genio di questo scrittore ad altre materie (p. 17). Ancor più interessante della prima Vita è la Lettera a Giovanni Artico conte di Porcìa intorno al metodo seguito ne’ suoi studi, nella quale Muratori sperimenta una sorta di variante dell’autobiografia in forma epistolare, destinata a rimanere isolata (a parte casi ben diversi come ad esempio la La LIZ riporta, per la prosa del Settecento, 375 occorrenze di vo’ contro 2685 di voglio: il rapporto è all’incirca di 1/7. 97 La LIZ offre solo quattro esempi nei testi dalle origini al secolo XVII, di contro a 22 occorrenze settecentesche: Goldoni e Casti lo usano in versi, ma lo si ritrova anche nella prosa di Beccaria, Alessandro Verri e dell’Alfieri (poi spesso in Foscolo, Pindemonte e Leopardi). 96 54 tranche de vie narrata, vari decenni più tardi, da Pietro Verri nelle sue Memorie sincere 98). La lettera, datata Modena, 10 novembre 1721, e quindi all’incirca contemporanea al testo della Vita, distende in un sobrio e ordinato resoconto la vicenda intellettuale dell’autore, anche qui sfrondata di informazioni biografiche accessorie, ma non priva di concessioni al racconto intimo e alla meditazione, nonché a lunghe parentesi e ad autocommenti. Vistosa – e probabilmente condizionata dagli spunti provenienti dal Porcìa, che verranno poi espressi nel Progetto - è la differenza dalla prima Vita per quanto riguarda la descrizione e la valutazione dell’apprendimento scolastico. L’autore si sofferma sul tema dell’insegnamento del latino e del greco nella scuola, rilevando – ma con distacco e senza pointes polemiche – gli aspetti di maggiore debolezza nel sistema educativo gesuitico, che non teneva conto della propensione, tipica delle «teste de’ fanciulli», alla pura e semplice memorizzazione delle nozioni, e poco si dedicava «a riflettere, ad argomentare e molto meno a metafisicare» (un motivo aristotelico, ben presente in varie altre opere muratoriane, e comune del resto in scritti pedagogici dei riformatori settecenteschi 99). D’altra parte, quel sistema concentrava gli sforzi dell’apprendimento mnemonico infantile sull’acquisizione di un lessico latino tanto minuzioso quanto inutile: Mi sovviene che fin quando io apprendeva i primi rudimenti della grammatica e mi conveniva imparare a mente certi vocabolari stampati, ov’erano i nomi latini di certi uccelli, o fiori, o simili cose, de’ quali troppo di rado avverrà che uno scrivendo in latino s’abbia a valere, benché appena avessi seccato il billico, pareva a me che non fosse ben impiegata la fatica e il tempo e che più utile sarebbe l’imprimere nella memoria altri vocaboli più usuali e necessari (p. 8) 100. 98 Le si legge in Verri 2003. In termini simili si esprime ad esempio Gasparo Gozzi cit. da Brizzi 1981, p. 7: «Da quella [cioè dalla Grammatica] si passa agli studi detti d’umanità, ristretti dalla pedanteria alla spiegazione di squarci spiccati d’oratori latini o storici o poeti; nell’impararne a mente, sena verun uso di meditazione massiccia». In favore dell’apprendimento mnemonico dei fanciulli (la cui intelligenza è più portata al puro apprendimento che alla riflessione) si pronunciava di contro, Vico, Vita, 34: «L’età de’ fanciulli, debole di raziocinio, non con altro si regola che con gli essempli, che devono apprendersi con vivezza di fantasia per commuovere, nella quale la fanciullezza è meravigliosa; quindi i fanciulli si devono trattenere nella lezion della storia così favolosa come vera». 100 Traggo le citazioni della Lettera dal volume dei Classici Ricciardi (con rimando alla pagina) anziché da quello di Sorbelli 1950 – del quale mi servo per gli altri scritti autobiografici muratoriani – perché si tratta di un’edizione più recente, più affidabile e decisamente più diffusa rispetto a quel raro opuscolo. 99 55 Di notevole sensibilità pedagogica sono le osservazioni sul «genio» (un tema cruciale della riflessione muratoriana) ossia su «una certa natural inclinazione ed anche impulso, che insensibilmente porta chi alla pittura, chi alla musica e così ad altre arti o mecaniche o liberali» (p. 9). In nome di simili peculiarità individuali, l’educazione infantile dovrebbe evitare – altro motivo ben presente nella riflessione pedagogica muratoriana e “riformista” – di dare un peso eccessivo allo studio delle «lettere» che, talora superflue per gli studenti di alto lignaggio, sono addirittura controproducenti per i giovani che andrebbero piuttosto avviati a discipline ritenute più concrete e utili 101. È il rovesciamento della ratio gesuitica incentrata sullo studio del latino e della filosofia: Che i figluoli de’ nobili e de’ benestanti, volere o non volere, s’incamminino per la via delle lettere, è ben fatto. Anche non guadagnando, nulla si perde; e si guadagna sempre qualche cosa. Parlo della povera gente, che caccia alla rinfusa e come pecore i suoi figliuoli allo studio delle lettere, senza mai far caso se abbiano o non abbiano abilità e genio per esse. Non finisce la faccenda che se li truovano e senza lettere e senza quell’arti che avrebbono potuto apprendere e, per conseguente, più poveri e mal provveduti di prima (p. 7). Particolare attenzione è dedicata anche a un altro tema assente nella prima Vita, ossia l’acquisizione di un canone letterario volgare, per il quale si ripresenta – similmente a Vico e Martello, ma in forme distinte – un processo di innamoramento e disamoramento per i modi letterari barocchi, qui incarnati non dal poeta Marino ma dal prosatore Tesauro: Ma per mia disavventura il mio gusto nell’eloquenza e nella poesia era il comune d’allora, cioè quello de’ concettini e dele acutezze anche false; e il Tesauro si mirava non meno da me, che da altri, qual idolo a cui si offeriva il meglio degl’incensi. Quel povero Petrarca mi pareva allora ben asciutto, e più i petrarchisti, e forse forse per conto di questi ultimi talvolta senza saperlo io toccava il punto. Alcuni miei versi italiani mi apersero l’adito a una fiorita conversazione, composta di alquanti felicissimi ingegni modenesi d’allora, miei coetanei, cioè del marchese Giovanni Rangoni, di Molto simili a quelle del Muratori le considerazioni di Paolo Zambaldi nelle sue Osservazioni critiche intorno alla moderna lingua latina (1740), citate da Del Negro 1984, p. 256: vi si condanna «l’universal abuso d’impiegar la Gioventù nello studio della Lingua Latina in un tempo, in cui è così tenera ancora, che duar fatica a formare idea di alcuna cosa»: l’apprendimento del latino secondo Zambaldi dovrebbe iniziare, come anche Locke aveva suggerito, attorno ai tredici-quattordici anni; lo stesso Del Negro, ibid., riporta anche le analoghe proposizioni di Alessandro Bandiera, autore, nel 1755, di un’opera su I pregiudizi delle umane lettere. 101 56 Giovanni Carissimi, Pietro Antonio Bernardoni ed altri, gente tutta studiosa, piena di sale e onestamente allegrissima (pp. 10-11). Nella descrizione del proprio apprendistato poetico, Muratori si sofferma in particolare sulla lettura degli autori contemporanei – come Maggi e Francesco da Lemene –, e tace completamente, a parte il cenno al «povero Petrarca», su quelli del canone antico. D’altra parte, i poeti volgari vengono menzionati assieme ai prosatori del passato in un accostamento culturalmente paritetico, che favorisce implicitamente i primi: «alla perfetta lezione de’ poeti – scrive Muratori – accoppiai quella delle declamazioni di Quintiliano, di Libanio e di Seneca il vecchio» (più oltre si citano anche Epitteto e Arriano). Al culmine del percorso educativo non vengono indicati solo i testi classici, bensì «quegli eccellenti originali, che han prodotto le lingue greca, latina ed italiana» (p. 11), senza la cui lettura «sarà un mezzo miracolo che alcuno ottenga la gloria di gran poeta». A questa triade si aggiunge anche l’ebraico, il cui studio inizia peraltro troppo tardi per essere proseguito oltre i preliminari: «omnia tempus habent» (p. 12). Gli esempi e i brani citati dalla Lettera bastano forse a documentare la sensibile differenza anche stilistica di questo testo rispetto a quello della prima Vita: tanto asciutta e freddamente accademica quella, quanto indulgente questa a un tono di schietta conversazione che, non abbandonando la misura e l’agile scansione sintattica degli scritti storici e letterari, ricorre spesso a movenze del linguaggio colloquiale. Pur senza manifestare, in opere come il trattato Della perfetta poesia italiana, alcuna soggezione nei confronti del toscano 102, si tratta quasi sempre di locuzioni e metafore autorizzate anche dall’uso letterario: «avendo io succiata dalle pubbliche scuole la lingua latina coll’altre arti e scienze conseguenti»; «convenendo ancora udire le riflessioni di chi ha avuto o ha le mani in pasta»; «benché appena avessi seccato il billico, pareva a me che non fosse ben impiegata la fatica e il tempo»; «bei pensieri in vero, anzi bei castelli in aria, che il genio dominatore mandò presto in fumo»; «e se tanti e tanti volessero confessar102 Cfr. Serianni 1998, p. 205: «Muratori non ha nessuna soggezione nei confronti dei toscani: il fiorentino non è che “il più gentile, il più nobile, e il men corrotto fra gli altri Dialetti d’Italia”, anche se “noi da esso riconosciamo il meglio della nostra Lingua”; e gli autori del Trecento, il “secolo supposto d’oro”, non possono certo essere assunti come modello indiscusso, giacché “col molto lor frumento hanno mischiata non poca quantità di loglio”. La norma linguistica – osserva Muratori – coincide con quel “volgare grammaticale” “che da ciascuno si adopera nelle Scritture, nelle Prediche, ne’ pubblici ragionamenti, e che in ogni Provincia, Città, e luogo d’Italia è inteso ancor dalle genti più idiote”». 57 lo senza corda, direbbono che, quando pure vi truovano gusto, non vien già questo dall’essere saporite ed amene quelle scienze»; «stava io dunque pendente dalla bocca di quel dottissimo uomo onoratamente rubando quanto io poteva da’ suoi familiari ragionamenti» 103. La redazione di scritti autobiografici muratoriani prosegue nei primi anni Quaranta con un breve ed asciutto curriculum in latino pubblicato nei Memorabilia Italorum eruditione praestantium di Giovanni Lami, e con un analogo testo composto per la Pinacotheca Scriptorum di Johann Jakob Brucker, che altro non sono se non traduzioni lievemente modificate della prima Vita (quella per il Brucker verrà sensibilmente aumentata dal destinatario), per concludersi con le Memorie per la vita di Lodovico Antonio Muratori, composte in tarda età e rimaste manoscritte fino al secolo scorso 104. Pur prive della complessità narrativa e del valore letterario che caratterizzano altre autobiografie settecentesche (anzi: dichiaratamente votate, come vedremo, a una sorta d’astinenza letteraria), le Memorie muratoriane sono uno dei frutti più maturi e raffinati della prosa del modenese, realizzando una perfetta equidistanza fra gli estremi della compassata freddezza accademica della prima Vita e la conversevole piacevolezza della lettera al Porcìa. Fin dal titolo l’opera si presenta come un bilancio posteritati, in cui il distacco dell’autore è sottolineato non solo dal consueto ricorso alla narrazione in terza persona, ma anche dall’uso di verbi al passato per la descrizione di fatti presenti, o di circostanze che perduravano al tempo della composizione del testo. Alla serena convinzione di rendere un servigio utile alla repubblica delle lettere l’autore fa riferimento fin dal breve cappello introduttivo. I suoi scritti autobiografici vengono presentati come semplici curricula accademici; il divieto opposto alla pubblicazione dei testi predisposti per Porcìa, rimasti di fatto inediti, invera peraltro questa premessa: 103 Per il tipo “mettere mano in pasta”, gli esempi più antichi nella LIZ provengono dal Sacchetti e da Luigi Pulci (forse casualmente più tarde e non toscane – Bandello – le occorrenze per il tipo con il plurale “le mani in pasta”; ben più recenti registrate dal GDLI s.v. pasta); per l’espressione castelli in aria la stessa LIZ riporta gli esempi più antichi dal Gelli e dal Doni (il GDLI s.v. castello risponde con Bernardo Bellincioni e Savonarola); «Confessar senza corda», per cui la LIZ offre un esempio da Aretino, è espressione che verrà impiegata anche da Manzoni nei Promessi sposi: a indiretta riprova della sua natura di colloquialismo non incompatibile con la politezza toscana; la più antica attestazione del tipo “pendere dalla bocca” ricavabile dalla LIZ è negli Asolani del Bembo (il GDLI s.v. bocca risale a Matteo Bandello). 104 I due testi latini sono pubblicati da Sorbelli 1950, rispettivamente pp. 77-81 e pp. 87-98; le Memorie sono ibid., pp. 137-87: di qui in avanti nel testo le citazioni riportano il rimando alla pagina. 58 Se dopo la mia morte venisse voglia ad alcuno di dare qualche relazione della mia vita, potrà egli prevalersi delle poche notizie, che andrò qui registrando come mi vengono in mente, ma senza far conoscere d’averle ricevute da me. Da più persone mi è stata richiesta la mia vita; mai non ho avuto la vanità di comporla. Conosco essere vanità anche il destinar questo poco per dopo la mia morte; ma non altr’intenzione è la mia che di dar questo poco di lume alla Storia letteraria d’Italia, giacché Dio ha voluto che ancor io abbia acquistato qualche credito fra gli Amatori delle Lettere (p. 137). Spicca, in queste righe esordiali, la ripetizione con funzione esorcizzante, del termine vanità, bilanciato dall’iterazione – questa volta a fini di understatement – degli aggettivi poco («poche notizie», «questo poco per dopo la mia morte», «questo poco di lume») e qualche («qualche relazione», in apertura, «qualche credito» in chiusa); la stessa parola-chiave vita, del resto, appare due volte, ma in entrambi i casi è accompagnata dall’opposto morte, in una disposizione forse non casualmente regolare («dopo la mia morte», «relazione della mia vita»; «la mia vita», «dopo la mia morte»): spie lessicali di una tendenza all’armonia e alla misura che si confermerà nel resto della narrazione. Lo stesso tono di ascetica serenità permane in effetti lungo tutto il seguito di uno scritto ben più esteso rispetto ai precedenti analoghi dello stesso autore, e di lunghezza paragonabile a quella dell’autobiografia vichiana. Cambia, tuttavia, rispetto alla prima Vita e ai curricula latini, il dosaggio della materia: alla relazione sugli studi storico-documentari si accompagnano, e sono sviluppati ben più che negli scritti precedenti, i cenni sulla carriera religiosa e su una vita di fede presentata con ardore sincero ma al tempo stesso con compostezza e severità che non escludono toni di ferma critica contro le pratiche religiose più irrazionali e oltranzistiche, riprovate con un aggettivo, fanatico, tipicamente muratoriano e caratteristicamente settecentesco: «Ecco dove va a terminare il picchiare tanto nella testa agli uomini quello che non si sa e pur si crede di sapere. Si arriva poi a produrre dei fanatici» (p. 182). Nelle Memorie, le digressioni – così frequenti nella lettera al Porcìa – sulle vicende scolastiche e sulle proprie idee pedagogiche cedono il passo all’esposizione delle dispute teologiche e della sincera lotta contro l’estremismo religioso. La narrazione, tuttavia, procede molto più asciutta e scevra di riflessioni e aposterioristici commenti, giusta una dichiarazione d’intenti delle prime pagine delle Memorie: «la vita del Muratori non somministra varietà d’avvenimenti e scene, perch’egli più che altra cosa studiava di essere contento dello stato, in cui la Divina Provvidenza l’aveva messo; 59 perché questa appunto l’ha sempre condotto, senza ch’egli muovesse ruota alcuna, per la sua fortuna» (p. 138). Se la cifra del romanzesco è la peripezia, l’assenza della «varietà d’avvenimenti e scene» ben si confà a uno scritto ostentatamente anti-letterario e persino contraddittorio nella sua pervicace negazione di quell’«amor di sé stesso» che, come dichiarerà con iattante sincerità Alfieri, presiede di norma a qualsiasi scrittura autobiografica. Lo stesso motivo – ricorrente, come si è visto, in vari altri autori e negli stessi scritti precedenti del Muratori – della circolazione e ricezione delle proprie opere viene qui rovesciato nell’esibita indifferenza verso il maneggio (p. 140), cioè l’artificiosa e promozionale diffusione delle idee. E un costume consueto – la pubblicazione dell’effigie dell’autore – viene rivisitato nello spirito di una filosofica modestia: «A chi il consigliava di far incidere il suo ritratto in rame, per metterlo in fronte a qualche suo libro, o pure di fare in bronzo il suo volto, rispondeva che questo privilegio era riservato agli uomini grandi, né conveniva a lui, che era al più uno de’ mediocri fra i Letterati» (p. 183). La pagina conclusiva delle Memorie, di sapore senecano, esprime la serenità dell’appressamento alla morte con la severità di un monito evangelico, adunando concetti e parole tipici dell’illuminismo cristiano del Muratori: Ringraziava il Muratori Dio, perché gli avesse dato tanto genio alle lettere, di maniera che quiete e contento trovasse nell’applicazione allo studio per comporre quanto egli ha dato alla luce; perché con ciò aveva schivato le molte tentazioni, che provengono dall’ozio. E ben rara si può dire l’assiduità sua e pazienza in questo esercizio, perché a riserva di qualche visita a i suoi amici la mattina e il passeggio indispensabile, ch’egli usava ogni sera, non ammetteva alcun altro divertimento e al finire del giorno sempre si ritirava a casa. Gran conto facea del tempo, riputandolo cosa preziosa, massimamente considerando la brevità della vita. Si preparò la sua sepoltura nella Chiesa della Pomposa (...), e da che fu giunto all’anno settantesimo di sua età, andava sovente raccontando agli altri questa sua età, per ricordarla a sé stesso e per istare bene preparato a congedarsi dal mondo. Di lì innanzi andava dicendo che non aveva scusa alcuna, se non teneva avanti agli occhi il ricordo del Vangelo: Vigilate, quia nescitis, qua hora, etc. (p. 187) Esemplare la costruzione del brano: dopo l’attacco, caratteristico per la disposizione sintattica, l’effetto armonico e bilanciato delle brevi membrature frasali è ottenuto soprattutto dalla scelta e dalla disposizione del materiale lessicale. Parole e locuzioni care alla cultura illuministica come 60 genio, applicazione (allo studio), dato alla luce (detto di opere d’ingegno) si alternano con termini ed espressioni di veneranda tradizione teologica e filosofica, dalle «tentazioni che provengono dall’ozio» alla dittologia «assiduità ... e pazienza», fino al richiamo, appunto senecano, alla «brevità della vita». Anche tra i termini meno semanticamente pregnanti si nota un’analoga alternanza: così, parole come indispensabile e passeggio, la locuzione «a riserva di» e il verbo congedarsi sono innovazioni gallicizzanti dell’italiano sei-settecentesco, mentre una illustre trafila letteraria hanno nessi come «gran conto facea», e addirittura ricalcati sul latino sono le formule «istare ... preparato», «teneva ... avanti agli occhi», «anno settantesimo di sua età». Riferendosi soprattutto ai Primi disegni della Repubblica letteraria d’Italia, «manifesto» e «coscienza programmatica» della polemica primosettecentesca fra cultura francese e cultura italiana, Gianfranco Folena ha sottolineato l’importanza del Muratori come primo formulatore e diffusore di alcuni fra i termini più importanti del lessico intellettuale settecentesco, e in particolare di quelli che qualificano il nuovo e peculiare status dei riformatori italiani, cercatori assidui non solo di innovativi orizzonti scientifici e filosofici, ma anche di una nuova coscienza nazionale. In quelle pagine essa par delinearsi proprio attraverso l’uso – nuovo per accezioni e risonanze di significato – di termini come nazione e nazionalità, e di un lessico «riferito alla nuova nozione di letteratura, strettamente connesso con termini come genio, gusto, carattere, e in rapporto stretto col concetto di lingua» 105. Se in scritti giovanili come quello notato da Folena simili concetti andavano trovando una loro formulazione teorica, nelle tarde Memorie essi appaiono sedimentati in un bilanciamento ormai perfetto fra tradizione linguistica (cioè classicismo, sia nell’uso del volgare sia nel ricorso – o ricalco – al latino) e “illuminato” rinnovamento di lingua e di cultura. 6. Le Notizie di Antonio Vallisneri Nell’introdurre il terzo tomo della sua «Raccolta d’opuscoli», del 1730, Angelo Calogerà non può offrire ai propri lettori, come nei due precedenti, un nuovo scritto della serie delle autobiografie degl’intellettuali italiani, e deve limitarsi a promettere la prossima uscita di due Vite, una delle quali relativa al medico e naturalista padovano Antonio Vallisneri, il 105 Folena 1983, pp. 21-22. 61 quale era stato fra i primi e più entusiasti partecipanti al dibattito preparatorio: La morte del Sig. Vallisneri, a cui successe in pochi giorni quella del Sig. Dottore Gioseffo Lanzoni Ferrarese, dal quale ebbi le due Dissertazioni che si leggono in fine di questo Tomo, non mi ha così a togliere la memoria di questi due amici, quanto a me cari, altrettanto della comune stima sempre meritevolissimi, e però nel Tomo vegnente, quando che sia, se ne darà di amendue la Vita. Il Sig. Cav. Antonio Vallisneri figliuolo del primo, e per le belle qualità di cui è dotato, ben degno di Genitore così illustre, m’ha promesso quella del Padre; e spero, che gli Amici del Sig. Lanzoni non vorranno defraudare il buon desiderio, che ho, di pubblicare le azioni e le lodi di un Soggetto, tanto della letteraria Repubblica benemerito 106. Ancora una volta, però, le attese del camaldolese dovevano restare frustrate. Rimasta inedita ai tempi della realizzazione del progetto di Porcìa, la Vita del Vallisneri uscì di fatto alcuni anni più tardi, in una forma che certo non coincide con quella dello scritto predisposto dal naturalista padovano per la «Raccolta» (e a quanto pare mai inviato – almeno in forma definitiva – al Porcìa). Nel 1733, tre anni dopo la morte dello scienziato, il figlio Antonio junior (anch’egli professore all’Università di Padova) raccoglieva in un ponderoso volume le Opere fisico-mediche stampate e manoscritte del padre, premettendo una prefazione e corredandole, appunto, di un testo il cui frontespizio recita: Notizie della vita e degli studi del kavalier Antonio Vallisneri, tratte dalle Memorie da lui vivente affidate a Giannartico co: di Porzia, e da questi indirette al Reverendissimo Padre Lettero F. Carlo de’ Conti Lodoli, Revisore de’ Libri per la Serenissima Repubblica di Venezia. Si tratta, dunque, di un’opera tratta da quella che il Vallisneri doveva aver compilato per il Porcìa: si evince, anzi, che le Memorie stese dallo scienziato erano state «indirette» (cioè ‘girate’ 107) a Lodoli, probabilmente per ottenerne un parere letterario, ma anche l’avallo alla pubblicazione da parte del «Revisore de’ Libri». A parte il fatto che il testo fu integrato dal figlio con la relazione sulla breve malattia e sulla morte di Vallisneri senior (descritte con particolare precisione e con attenzione ai dettagli medici e farmacologici) è difficile, a meno di fortunati ritrovamenti, stabilire se il grosso di queste Notizie sia da attribuire direttamente alla penna del più anziano scienziato. Non essendo chiaro quanto l’intervento 106 Calogerà 1730, pp. [xvii-xix]. Per l’accezione ‘inviare, spedire, indirizzare’ il GDLI s.v. indirigere riporta gli esempi più antichi giusto da autori veneti del Settecento, come Apostolo Zeno e Antonio Piazza. 107 62 rielaborativo e conclusivo del figlio possa aver modificato il complesso dell’opera, e le Notizie vallisneriane risultano un prodotto intermedio fra l’autobiografia e la biografia, per il quale è in ogni caso impossibile addentrarsi in osservazioni linguistiche e stilistiche troppo ravvicinate 108. Decisamente più lunghe rispetto all’autobiografia di Vico e quindi di Martello, le Notizie sono dedicate prevalentemente a questioni scientifiche e mediche affrontate durante la lunga carriera del Vallisneri, di cui viene percorsa, in una sorta di rassegna critica e bibliografica, l’intera produzione intellettuale 109. Pur distinguendosi per la scelta del volgare, il testo s’innesta insomma in una tradizione inaugurata già nel Cinquecento da Girolamo Cardano e proseguita nel secolo successivo dal Malpighi con la sua auto-apologia scientifica 110. Quasi del tutto prive di informazioni sulla vita extra-accademica, le Notizie vallisneriane non dedicano alcuna specifica attenzione all’apprendimento linguistico – sia del latino, sia dell’italiano: fin dai primi accenni alla propria formazione, l’autore si concentra sull’educazione filosofica, sottolineando che il passaggio dallo studio del «sistema aristotelico» a quello della «filosofia democritica» aveva favorito l’avvicinamento del giovane scolare al metodo scientifico e l’inizio delle ricerche e delle riflessioni in campo medico-fisico 111. Le questioni linguistiche non sono però del tutto estranee alla narrazione biografica vallisneriana, visto che non solo egli aveva scelto l’italiano per la stragrande maggioranza delle opere pubblicate, ma era anche autore di un’apologia della lingua moderna contro l’antica, cioè di una dissertazione uscita nel 1721 sotto forma di lettera ad Alessandro Pegolotti, «segretario di belle lettere del Serenissimo di Guastalla», nel tomo I dei Supplementi al «Giornale de’ Letterati d’Italia». Il testo, ristampato anche nel108 Lascia perplessi la scelta dell’editore moderno di quest’opera (Generali 1986) di attribuirne la responsabilità d’autore al Porcìa (perché non, piuttosto, ad Antonio junior?). 109 Il testo si legge in Vallisneri 1733, I, pp. xli-lxxx. 110 Cfr. Bertoloni-Meli 1997, p. 264. 111 Cfr. Generali 1986, pp. 44-45: «Passò intanto a Bologna l’anno 1683 e con sommo ardore incominciò nuovi studi. Intese prima alla Filosofia, detta Burgundica, dal Dummel aspersa di antichi, e nuovi lumi, avendovi quel dotto Autore inserite sperienze, e osservazioni, e reso così lo Scolastico sistema più ameno, e meno bugiardo. S’avanzò quindi alla Democritica, e alla Cartesiana, le quale, comeché abbiano i loro difetti, hanno altresì le loro lodi». E più oltre: «Aveva egli, quando incominciò a studiare, ritrovato la Filosofia in Italia involta ancora nelle sofistiche speculazioni, schiava dell’autorità d’Aristotele, e de’ di lui seguaci, e di sole Greche, e Arabiche menzogne abbondante. Comeché il Redi, e il Malpighi avessero in quel tempo colle loro speranze, ed osservazioni acceso un gran lume nella Scienza delle cose Naturali, bollivano però tuttavia i dissidi, e non tacevano gli Apologisti delle Peripatetiche Scuole» (p. 185). 63 la silloge postuma delle Opere vallisneriane, e citato di passata nelle stesse Notizie, persegue la «pubblica utilità» con l’intento di persuadere «tanti mal consigliati Italiani, a fare un po’ più di studio della nostra pura favella, illustrandola, amplificandola, e in tal lume ponendola, nel quale le altre Nazioni sforzate si sono, e tuttavia si sforzano di por la sua, acciocché nella più colta parte del Mondo più barbari nel parlare, e nello scrivere de’ barbari stessi non siamo, e coltivando lingue morte, o forestiere, ci dimentichiamo la nostra» 112 (e l’opera di persuasione riuscirà puntualmente, come l’autore stesso farà notare al Muratori in una lettera dell’aprile del ’22 113). Sono qui toccati i temi correnti – da Orsi in poi – nella polemica contro l’egemonia culturale e linguistica francese, e quelli in favore dell’italiano già sviluppati da Muratori nella Perfetta poesia. Come quest’ultimo, anche il Vallisneri incentra la sua difesa sul parallelo con quegli antichi – in particolare Cicerone – che arricchirono il latino con prelievi e neoformazioni anziché esprimersi direttamente in greco 114. Il manifesto vallisneriano sull’uso dell’italiano nella letteratura scientifica poneva di fatto le basi teoriche e ideali di un’opera di notevole importanza per la storia della lingua italiana nel Settecento, il Saggio alfabetico d’Istoria medica e naturale (redatto nel 1726 e anch’esso pubblicato postumo, nella raccolta curata da Antonio junior, ma non citato nelle Notizie), tentativo sistematico di italianizzare il lessico delle scienze naturali 115. La questione dell’impiego del volgare e del latino nella letteratura scientifica era, del resto, al centro di una parte consistente del carteggio fra Vallisneri e Muratori: a Silvia Morgana si deve la pubblicazione di una lettera nella quale, già nel 1710, il cattedratico padovano si duole con il suo corrispondente di dover impiegare la lingua antica nei suoi corsi universitari, diventando così quasi incapace di esprimersi in buon italiano: «È miracolo, ch’io sappia unire quattro linee in lingua non cattiva italiana, per l’esercizio, che infra l’anno per otto mesi tralascio, dovendo parlar in Cattedra Latino» 116. Se giusto Padova e il suo ambiente universitario – in cui 112 Vallisneri 1733, III, p. 254. La si trova citata nell’introduzione di Dario Generali a Vallisneri 1991, p. 41: «due letterati, dopo letta la mia dissertazione, hanno subito comprata la grammatica italiana, e si sono messi a studiare la nostra lingua, onde ecco l’utile che sene cava». 114 Per il passo di Muratori si veda in particolare Puppo 1966, pp. 132-134. 115 Cfr. Scotti Morgana 1983, in particolare p. 8; sulla lettera al Pegolotti cfr. Scotti Morgana 1976, in particolare pp. 158-61. 116 Scotti Morgana 1976, p. 165. Il Vallisneri prosgue: «onde s’immagini, che quando torno al volgare, stento a entrar nella vena, e mi dimentico le regole, che so, ma per l’uso cattivo di 113 64 avevano insegnato il Pomponazzi e il Galileo – erano tradizionalmente sensibili alla tradizione volgare, sono ancora lontani i tempi in cui il Genovesi romperà, a Napoli, il tabù dell’insegnamento in latino dalla sua cattedra di Economia civile. Simili malumori, comunque, trovano spazio solo nei carteggi privati del Vallisneri: nemmeno un cenno, nelle Notizie, è dedicato a tale disagio, e nel render conto dell’insegnamento universitario, lo scritto biografico si concentra esclusivamente sui dissidi e sulle «querele» sorte intorno agl’insegnamenti di un professore che, pur non allontanandosi nelle forme dalla tradizione didattica e pur restando ossequioso verso la lezione degli antichi, si discostava sensibilmente dal loro insegnamento fondando le sue «ragioni» sulla solida testimonianza di «sperienze, osservazioni, istorie mediche, e naturali», dalle quali «infallibili conseguenze deduceva a favore delle nuove contra le antiche scuole», dimostrando «i fenomeni de’ corpi animati dipendere dall’equilibrio fra i fluidi e i solidi, dai movimenti regolati, o sregolati de’ medesimi, dalla elasticità, dalla pressione, e da tutt’altro, che dalle cause immaginate dai buoni Vecchi». È evidente quanto, in simili enunciazioni, influisca su Vallisneri il modello galileiano, puntualmente ripreso anche nella terminologia dei passi appena citati: se il termine sperienze ne richiama uno centrale, esperienza, nel linguaggio di Galileo, il nesso infallibili conseguenze ricorda le «regole infallibili» di «astronomi e matematici» di cui parla Salviati nel Dialogo sopra i due massimi sistemi; e anche la giuntura movimenti regolati – qui riferita ai fluidi – è nel Dialogo, dove riguarda ovviamente gli astri. Come già nel Muratori (cioè in un contesto diversissimo, pur se affine per ispirazione ideale), elementi tradizionali accuratamente selezionati si accompagnano a caratteristiche innovazioni lessicali, quali il notevole elasticità, termine introdotto in italiano appunto nel Settecento, o pressione, usato qui nell’accezione medicofisiologica, parimenti innovativa a quei tempi 117. Se, dunque, in Vico il genere autobiografico veniva attratto nell’orbita della produzione filosofica e in Muratori oscillava, a seconda delle diverse circostanze, fra il genere documentario-erudito e quello para-epistolare, le Notizie del Vallisneri ripropongono senz’altro lo stile e i tratti linguistici propri del genere scientifico: anzi, di quel sotto-genere della «scienza volparlare, che abbiamo, per il Latino, che ho adoprato per tanto tempo, e, diciamola pure, per la mia naturale rozzezza, cado in errore, che dopo, riflettendoci, conosco». 117 Il GDLI e il DELI forniscono solo esempi novecenteschi per il significato ‘pressione del sangue’, ossia ‘pressione arteriosa’. 65 gare» che egli aveva specificamente promosso all’interno della repubblica letteraria. L’invito del Porcìa all’esposizione metodologica si riflette qui non solo nell’ordinato resoconto sugli studi scientifici, ma anche nell’esposizione della prassi didattica dell’autore. Si tratta, in un certo senso, del corrispondente delle digressioni che, come si è visto, altri intellettuali aderenti al Progetto avevano riservato ai processi di elaborazione filosofica o letteraria. Nella lectio del medico e naturalista, alla lettura degli «Antichi» (Ippocrate, Galeno, Avicenna) e dei loro commentatori segue l’esposizione del parere dei «Moderni»; «quindi prendeva campo d’istruire i suoi scolari nelle notizie di quanto o gli Italiani, o gli Oltramontani più celebri hanno ritrovato di vero, comunicando loro sempre nuovi lumi» (p. 77). Nel resoconto sulla prolusione al suo insegnamento universitario, Vallisneri ribadisce – con esplicito intento di mediazione culturale e di rassicurazione dell’ambiente accademico padovano – la persuasione nella continuità e complementarità del magistero di anciens e modernes: «non poter essere ottimo medico chi non è ottimo antico, e non poter essere buon antico chi non è ottimo moderno» (p. 72). Si tratta di un procedimento conforme a quello illustrato nella lettera in difesa dell’italiano a proposito del passaggio dalle lingue antiche a quelle moderne nella letteratura scientifica: se gli antichi greci avevano tratto la loro sapienza medica dagli egizi traducendo i testi di questi ultimi, e i romani avevano fatto lo stesso con i greci, a una scienza espressa in latino ne dovrà ora succedere una espressa nelle lingue moderne (circostanza che, tra l’altro, rende consigliabile per Vallisneri l’apprendimento di lingue come l’inglese, in cui è prodotta la miglior parte della letteratura scientifica coeva 118). Pur in assenza di una specifica ripresa della riflessione sui rapporti fra italiano e latino e fra italiano e francese, anche altri temi toccati nella battagliera Lettera del 1721 riecheggiano nelle Notizie. Se la polemica (culturale e linguistica) fra l’italiano e i suoi competitori culturali – latino da una parte, francese dall’altra – ha un rilievo marginale, al motivo del latino come lingua tipica di certa mistificazione accademica rimandano anche qui vari accenni: ad esempio la descrizione del fisiologo Bernardino Ramazzini, studioso che «affettava erudizione, e cultura di lingua Latina, citava moltissimi Autori, e mostrava d’avere assai letto», ma «della filosofia 118 Vallisneri 1733, III, p. 258: «Così gli Atti della Regia Società d’Inghilterra, e tanti altri ottimi libri in Idioma Inglese sono scritti, onde anco di quella dovremo avere notizia, o pazientemente, e con certo nostro tormento aspettare, che gli traslatino in Latino». 66 sperimentale, e della notomia comparata (...) non era molto confidente» 119; si tratta quasi di una parafrasi, o almeno di una concreta esemplificazione, dell’atteggiamento biasimato nella lettera al Pegolotti, dove gli scienziati che più ostinatamente predicano l’uso del latino per la letteratura scientifica sono additati come i più colpevolmente ignoranti nella lingua italiana – e tale ignoranza nasconde una più generale impreparazione culturale («nel proprio idioma ignorantissimi sono, e con intollerabile vergogna si mostrano nella propria Patria stupidissimi forestieri»). Precoce variazione su un tema che, come abbiamo visto, sarà insistentemente ripreso nei decenni successivi: nella lettera pubblicata sul «Giornale de’ Letterati d’Italia» il latino veniva descritto come un «linguaggio morto» su cui invano si concentrano gli sforzi d’apprendimento di studenti e studiosi che, in tal modo, si discostano dall’esempio dei classici che, ciceronianamente, mirarono piuttosto ad arricchire la propria lingua che a praticare l’altrui 120: il nesso lingua morta e i suoi affini ampliano notevolmente il suo uso nell’italiano settecentesco, e ciò appare significativo soprattutto per la connotazione di una simile giuntura, che come vedremo tornerà spesso, né sempre riferita al latino, nei dibattiti linguistici di quel secolo 121. È significativo che nel testo del ’21 tale atteggiamento sia descritto in modo simile alla sudditanza nei confronti del francese, «scabbia» attaccatasi «all’Italiana semplicità» e capace di condizionare non solo gli usi linguistici degl’Italiani ma la loro stessa vita quotidiana. Immagini e motivi 119 Generali 1986, pp. 187-88. Cfr. Vallisneri 1733, III, p. 257: «Sudano per imparare un linguaggio morto, e nulla curano il vivo lor proprio, non imitando già in questo la prudenza del lodato Cicerone, né di tanti altri sapientissimi uomini accennati, che la loro lingua illustrar vollero, e vogliono, non abbassarsi ad imitare, e ad esaltare l’altrui». 121 Se il concetto sotteso è già cinquecentesco (cfr. Tavoni 1984, pp. 165-69), i primi esempi offerti dalla LIZ per quest’espressione provengono dalla Scienza nuova di Vico (si tratta del plurale «lingue morte», che sono ovviamente quelle degli antichi in generale, contrapposte alle «viventi»). Il nesso acquista una connotazione negativa in autori come il Baretti della Diceria di Aristarco (che critica la sintassi latineggiante del Boccaccio indicando l’autore del Decameron come «pedestre imitatore delle trasposte frasi d’una lingua morta»), o il Bettinelli delle Lettere inglesi (che accenna ai poeti latini e greci «che non sono più che pei letterati e studiosi dell’antichità e delle lingue morte?»); e se Pietro Verri nel «Caffè» deplora l’eccessivo legame mantenuto storicamente dall’italiano col latino (cosicché «la lingua italiana della scrittura avrebbe dovuto avere tutta la rigidezza delle lingue morte, perdendo quel naturale tornio e quella pieghevolezza all’idee di ciascuno scrittore»), l’espressione «lingua morta» è usata ancora, a più riprese, dagli scrittori del «Conciliatore» con toni simili a quelli che fan dire al Battistino Barometro del Pellico: «consumai otto o dieci anni a imparare una lingua morta, invece di cinque o sei vive». 120 67 usati da Vallisneri sono ormai topici già a quest’altezza cronologica: «vogliono molti non solamente vestire, mangiare, addobbar le Camere, ornar le Case, formar i Giardini, e le Ville alla Francese, ma usar tutti i loro costumi, e con la loro lingua parlare, e scrivere, non sapendo, che balbettare, e scarabocchiar nella nostra». Coerenti col generale ricorso a un tono simile a quello della dissertazione scientifica, le Notizie vallisneriane sembrano procedere per blocchi informativi, all’interno di ciascuno dei quali si dispone una relazione puntuale di questioni e materie studiate dal naturalista, o di opere da lui pubblicate, o di ricerche svolte. Si tratta di uno schema narrativo generalmente alieno da intenti di piacevolezza o di gradevole varietà, che pure non rinuncia a una certa eleganza complessiva, probabilmente conquistata con fatica se si dà credito alle dichiarazioni dell’autore stesso. Valga, come esempio, il passo seguente: Nel 1689 stabilitosi in Patria, tosto un giardino piantò di semplici, e vagando per que’ monti erbe cercava, osservava miniere, acque medicate, corpi marini impietrati, insetti, e d’ogni sorta animali. Notava l’origine delle fontane, e de’ monti gli strati diversi, e la struttura loro, e la lor giacitura. Della caccia era vago oltre modo 122. Dove qualche preziosismo sintattico (come l’iperbato «giardino ... di semplici», cioè ‘di erbe medicinali’, o il doppio chiasmo «de’ monti gli strati diversi, e la struttura loro, e la lor giacitura»), l’uso forse preterintenzionale di numeri in prosa (come l’endecasillabo «vagando per que’ monti erbe cercava», di sapore petrarchesco), e di aggettivi appunto poetici (vago) non fa altro che ammantare di letterarietà la descrizione di un impegno scientifico assolutamente prosaico. Non mancano, poi, casi in cui proprio questo andamento favorisce involontari effetti di espressivismo, come avviene per l’ampia digressione sulle collezioni naturalistiche e antiquarie possedute da Vallisneri, che occupa una lunga sezione dell’opera. Simili descrizioni si leggono, per la verità, anche in alcune lettere latine di Vallisneri («Multa curiosa in meo Museo, quae non una epistola capit», scrive a Johann Jakob Scheuchzer nel 1702 123); ma non c’è dubbio che l’andamento disteso e l’ampio respiro delle Notizie favorisca la tendenza ad una colorita diegesi. Il prodigioso museo raccolto dallo scienziato compone una sorta di Wunderkammer 122 123 68 Generali 1986, p. 55. Cfr. Vallisneri 1991, p. 219. nella cui rappresentazione l’aspetto meraviglioso e potenzialmente “romanzesco” emerge tra le pieghe di un resoconto ostentatamente obiettivo e quasi compiaciuto nel riferire, confutandole, le erronee credenze e le fallaci nozioni circolate in passato su molti di questi minerali, piante e animali (non manca nemmeno una sezione dedicata agli «scherzi della natura», che documenta come «l’unione accidentale di certe particelle giunga a formare una vera figura rappresentante un animale, o un qualche membro d’animale, o un frutto, o una pianta, o alcuno artifiziale lavoro»). Ecco dunque il catalogo della sezione marina: La serie de’ Pesci, e Mostri Marini, tra quali v’erano le smisurate vertebre d’una Balena, le scapule, le coste, le mascelle sterminatamente ampie, le orecchie, e simili. V’aveva la testa del Cane Carcaria, in cui scorgevansi i denti similissimi alle supposte lingue impietrite de’ Serpenti di Malta, che per dir vero, sono denti dell’accennato Cane. V’avea la Rana Pescatrice, il Rospo di mare, il Cane ordinario di mare, la Canicola d’Aristotele, la Pastinata Marina, e molte sue code collo stilo, che affermasi avvelenano, la testa d’un Delfino, famose Murene, la Vacca Marina, il Galeus levis, la Torpedine, la Lucertola Marina, il pesce Lepre, la Molla Pellegrina, e molti altri, che cosa troppo prolissa sarebbe il noverare. Una maraviglia però tralasciare non deesi, ed è, che v’avea due vere mani di pesce Donna dell’uno, e l’altro sesso, tali appunto, quali sono descritte, e disegnate dagli Scrittori, e specialmente da Tommaso Bartolini nella Centuria Prima, e Seconda delle Storie Anatomiche più rare 124. Siamo, evidentemente, lontani dalla “scienza piacevole” dei grandi modelli seicenteschi degli accademici del Cimento, e ancor più da quella salottiera di più recenti divulgatori settecenteschi. Ma l’intento delle Notizie non è di intrattenere con una gradevole divulgazione, bensì d’informare i connaisseurs della repubblica letteraria. Analogo allo spirito galileiano di un Magalotti o di un Redi (e anche più del severo e tecnico Malpighi) è il proposito di fare dell’italiano una lingua perfettamente adeguata all’espressione dei contenuti scientifici più innovativi. Partendo, nel caso delle Notizie, da un genere antico e rivisitandone lo stile, la struttura e gli scopi stessi. 124 Ibid., p. 95. 69 DUE VOLTI DEL SETTECENTO MERIDIONALE 1. Un testo tormentato Il manoscritto che tramanda la Vita di Pietro Giannone è l’autografo steso durante la prigionia in due castelli del regno di Savoia, Miolans e Ceva, fra il 1736 e il 1737, e poi fra il 1739 e il 1741 (dunque fra i sessanta e i sessantacinque anni d’età). Conservato all’Archivio di Stato di Torino, esso consta – per la parte relativa alla Vita – di 169 carte scritte in una grafia di modulo piuttosto piccolo, su una colonna, secondo l’impostazione tipica delle minute 1: la colonna inizialmente lasciata in bianco (a sinistra sul recto, a destra sul verso) è sovente occupata da aggiunte collegate al testo da segnali di rimando ripetuti nel punto in cui esse vanno inserite. Talvolta le integrazioni sono così estese da occupare un’intera colonna, debordando nella facciata, o nella carta seguente: l’inchiostro, trapassando attraverso il foglio, rende difficile la lettura. Frequentissime anche le correzioni in interrigo, che si sovrappongono a parole o a sequenze cassate da energici freghi di penna, i quali nella maggior parte dei casi rendono del tutto invisibile la scrittura sottostante. Complessivamente posata – caratterizzata, cioè, da lettere poco legate fra loro e tracciate con singoli tratti distinti – la grafia giannoniana è forse condizionata dalla disponibilità scarsa o discontinua di inchiostro, che sembra spesso annacquato, e di carta, cosicché non di rado la scrittura giunge fino al bordo estremo (soprattutto laterale e inferiore) del foglio, più soggetto al logoramento e all’infiltrazione dell’umidità. I caratteri fisici del manufatto hanno in apparenza poco a che fare con la lingua dell’autore; in realtà sono ad essa indirettamente connessi, giacché non vi è elemento, in un testo così singolare, che non si colleghi alle circostanze eccezionali in cui essa fu redatta, delle quali appunto il manoscritto torinese è il testimone più diretto e suggestivo. 1 Una descrizione del manoscritto si legge in Bertelli 1968, pp. 444-47. Nel seguito del capitolo i rimandi al testo fanno riferimento alla paragrafatura elaborata dalla LIZ sulla base di Giannone 1960. 71 Il titolo dell’opera, scritto di pugno dall’autore a carta 5 recto del manoscritto, non è quello con cui essa fu data alle stampe, molti decenni dopo la morte di Giannone 2. Ad una prima dicitura «Vita di P.G. scritta nel Castello di Miolans da lui medesimo» la stessa mano apporta in un momento molto successivo (come suggerisce il diverso colore dell’inchiostro) due aggiunte: «in Savoia» nell’interrigo fra «scritta» e «nel Castello», e infine: «e continuata nella Liguria nel Castello di Ceva». Anche in questo dettaglio si manifesta la natura di un testo “fluido” e incompleto, non sottoposto a una revisione finale, e pervenuto nella forma accidentata e magmatica di un manoscritto preparatorio, di cui non si può nemmeno dire che l’autore contasse di darlo alle stampe (la circolazione manoscritta costituì del resto la norma per molte delle sue opere, durante la sua vita). Lo stesso Giannone nel proemio ritrae sé stesso nell’atto di dare inizio alla stesura del testo, frutto della disperazione e del «penoso ozio» cui lo condanna la relegazione, con parole che verranno riecheggiate il capitolo conclusivo (XI) della parte del manoscritto redatta nel castello di Miolans; un parallelismo, forse studiato, che mitiga almeno in parte l’impressione di totale e disordinata provvisorietà: Prendo a scriverla perché, trovandomi ritenuto fra le angustie d’un castello, dove privo di ogni umano commercio traggo miseramente i miei giorni; e dubitando, per la mia età cadente, non dovessi quivi finirla; quindi, e per alleggerire in parte la noia e il tedio, e perché, avvicinandomi alla fine, rammentando con la mente tutte le mie passate gesta, possa ritrarre conforto dalle buone e pentimento dalle ree. Passai con questa lusinga il meglio che si poté i tre mesi dell’està; e per render meno noiosa la mia dimora e non marcire in un sì penoso ozio, cominciai a scrivere queste memorie, le quali, se non sono compite, è perché non è ancora finita la mia vita, non sapendo se dovrò qui finirla, ovvero il rimanente non l’avesse il mio fiero destino serbato a più duri e crudeli strazi. A rendere la Vita giannoniana diversa da un semplice memoriale carcerario, ma anche da un testo scritto dopo la detenzione (come l’autobiografia di Vincenzo Sulis, o Le mie prigioni del Pellico, per fare due esempi ottocenteschi) sono un’ampiezza di respiro narrativo, una densità giuridica, filosofica e teologica, e non da ultimo un’esuberanza stilistica che ne 2 La prima edizione parziale dell’opera fu stampata vent’anni dopo la morte dell’autore (Giannone 1768), mentre per la princeps bisogna attendere quella curata da Fausto Nicolini (Giannone 1904). 72 fanno un testo privo di precedenti nella letteratura italiana, oltreché forzatamente privo di una fortuna immediata a causa del lungo oblìo in cui l’opera scivolò dopo la morte dell’autore. Scritta in prima persona, la Vita consta di undici capitoli di lunghezza molto variabile (talora suddivisi in ulteriori sottosezioni, fino a un massimo di sei, anch’esse di estensione diseguale), relativi ad intervalli cronologici piuttosto disomogenei. Tale difformità riguarda soprattutto i primi cinque capitoli: il primo, in particolare, occupa nel manoscritto meno di due carte e verte sui primi sedici anni di vita dell’autore, mentre con i successivi tre capitoli si procede fino al 1707, per passare, nel quinto, al 1723. E se l’intestazione «II» è ripetuta anche all’inizio del terzo capitolo, cosicché la numerazione dei successivi ha dovuto essere corretta nelle edizioni, ciò è segno, nuovamente, di una composizione poco programmata e di una redazione non ancora sottoposta a revisione. La sequenza degli eventi tende, tuttavia, ad essere sottolineata dal ricorso ad espressioni che si ripetono, in forma simile, all’inizio dei capitoli e spesso anche delle sottosezioni. Il principio del capitolo terzo viene fatto coincidere con quello del nuovo secolo («Intanto, erasene passato il decimosettimo secolo ed eramo entrati nel decimottavo») e quello del successivo si focalizza nuovamente sulle coordinate cronologiche nel dare inizio alla narrazione («L’anno 1707 portò in Napoli grandi cangiamenti e grandi ravvolgimenti»). Ancora, con minime variazioni si demarca l’inizio («Eravamo già entrati nel nuovo anno 1724», «Nell’entrare del nuovo anno 1725», «Intanto eravamo già nell’anno 1726», «In questo nuovo anno 1727», «Con questi strani successi eravamo entrati già nell’anno 1728», ecc.) o la fine di anni, e con essi di sezioni narrative («Ed in ciò passossene l’anno 1724», «E con questi discorsi e vane lusinghe, erasene già passato l’anno 1733», «Ed, in questo, erasene già passato il mese di decembre, ed entrati già, per più settimane, nel nuovo anno 1735»). Una scansione cronologica quasi annalistica, del resto, caratterizza i capitoli della seconda metà dell’opera, nei quali il trascorrere dei mesi e delle stagioni è registrato puntualmente, e talvolta corredato di rimandi molto precisi: «tanto più che si avvicinava il primo sabato di maggio, che in quest’anno 1723 veniva a cadere al primo dì del mese», «mentre io mi tratteneva a Milano aspettando di là i riscontri, un giorno dopo pranzo (che fu il martedì, 22 novembre), fu in mia casa un ufficiale del capitan generale di giustizia di Milano». Simili riferimenti divengono insistenti nel ricordo dei giorni che precedettero e seguirono immediatamente la drammatica vicenda dell’inganno che porta all’arresto, in territorio sabaudo, 73 del Giannone, il quale aveva sconfinato per potersi confessare, in italiano, nel villaggio piemontese di Vesenà. Un saldo filo conduttore della Vita rappresentano le vicende relative alla composizione, alla stampa, alla diffusione e alla plurilingue traduzione dell’unica grande opera pubblicata in vita da Giannone, la Istoria civile del Regno di Napoli. Dopo averne tracciato, nei primi due capitoli, l’ideale sfondo culturale con la descrizione degli studi storici e giuridici giovanili, nel terzo viene descritta la lunga stesura e la pubblicazione presso lo stampatore Niccolò Naso. Durante la stampa, l’autore ne richiede una revisione storico-giuridica al successore del suo maestro Domenico Aulisio sulla «cattedra primaria vespertina» di diritto civile, Niccolò Capasso 3, ma anche una puntuale correzione stilistico-linguistica all’amico mercante Francesco Mela, in considerazione delle sue doti di elegante prosatore («oltre di essere ornato di molte virtù, era dotato di gran perizia di lingua toscana»), particolarmente apprezzate nella scrittura epistolare («uno stile così puro e limpido, che le sue lettere, ancorché familiari, riuscivano così terse sia nelle voci, o nelle frasi, che meritavano esser proposte a gli altri per esempio») 4. La revisione di Mela, operata «secondo che uscivano i fogli dalla stampa», include il rammendo «non men degli errori grammaticali che di ortografia, sicché pochi ne scapparono dalla sua oculatezza e diligenza»: per tal via, il trattato può accostarsi a quella schiettezza e semplicità di stile cui l’autore stesso dichiara di aspirare nell’introduzione dell’opera – e che, come si vedrà, s’esprime di fatto in una politezza artificiosa e latineggiante. «Il mio stile – scriveva Giannone all’inizio dell’Istoria – sarà tutto schietto e semplicissimo, avendo voluto che le mie forze, come poche e deboli, s’impiegassero tutte nelle cose più che nelle parole, con indirizzarle alla sola traccia della verità», anche se più che una precisa dichiara3 Nato nel 1671 presso Aversa, morì a Napoli nel 1745. La sua frequentazione dei circoli puristi dell’Accademia di Medina Coeli non gl’impedì di dedicarsi anche alla scrittura dialettale, in cui si esprime un anti-purismo (cioè un anti-capuismo) che non mancò d’influenzare, come si vedrà, lo stesso Giannone): tradusse infatti i primi sette canti dell’Iliade in napoletano; su di lui cfr. Raffaele Ajello in DBI 18 (1975), pp. 397-401, e inoltre Ricuperati 1970, pp. 3-78. 4 Come osserva Di Martino 1998, p. 110, «l’esatta individuazione del Mela è risultata impossibile anche ai migliori commentatori (Panzini, Nicolini, Bertelli). Ipotesi verisimile è quella che lo indica come il figlio di un certo don Antonio Miele, napoletano, che era stato compare di Cresima del giovane Giannone»: cfr. la nota di Bertelli in Giannone 1971, p. 78. Alcune lettere scambiate da Mela e Giannone sono conservate tra le carte giannoniane dell’Archivio di Stato di Torino (cfr. Bertelli 1968, pp. 470-72, e inoltre Ricuperati 1970, p. 294): egli è inoltre spesso citato come intimo amico nelle missive inviate al fratello e ad altri corrispondenti napoletani (Giannone 1971, pp. 1109-1180). 74 zione d’intenti, simili espressioni manifestano una persuasione convenzionalmente razionalistica nella superiorità delle res sui verba: «ho voluto ancora che la sua chiarezza dipendesse assai più da un diritto congiungimento de’ successi colle loro cagioni, che dalla locuzione o dalla commessura delle parole» 5. La notizia della correzione linguistica dell’Istoria civile non è solo coerente con l’attenzione che anche in altre circostanze l’autore mostra per l’accuratezza delle stampe delle sue opere (nel 1723 aveva manifestato in una lettera al fratello il fastidio per le sue edizioni austriache «piene d’errori» 6). Essa appare anche in linea con l’ammirazione di Giannone per i grandi modelli della prosa classica italiana, che tuttavia non va confusa con un atteggiamento pedantesco e puristico dal quale egli si dichiarava apertamente alieno. In uno scritto rimasto sconosciuto fino ai primi del Novecento, Giannone difende, da Vienna, l’edizione delle Cronache dei Villani uscite nel 1729 nei «Rerum italicarum scriptores» dalle accuse dell’ambiente cruscante, dal quale – per ispirazione, se non addirittura per mano di Anton Maria Salvini – era uscita una censoria Lettera «in cui anche gli elementi positivi, come l’effettiva esigenza di un criterio filologico più rigoroso nelle edizioni dei testi, erano sommersi dalla gelosia di mestiere, dal conservatorismo linguistico, dalla polemica» 7. Giannone biasima «gl’ingegni fiorentini, in altri tempi avvezzi a specular con tanto acume e sodezza le cose più alte e riposte o di filosofia o di giurisprudenza o di politica o di istoria o di poesia o di altre scienze sublimi e nobili, caduti in tali puerilità e seccaggini» 8. Non contesta, insomma, i principi del classicismo linguistico e l’ossequio ai modelli della tradizione toscana, ma la pretesa fiorentina di amministrarne autocraticamente la memoria e lo studio 9. Giusto dalla mancata revisione della Vita da parte di un correttore come Mela dipendono notevoli scarti di lingua e di stile fra l’Istoria e l’autobiografia, ben più solidale, da questo punto di vista, con scritti privati e 5 Giannone 1840, t. I, p. 27. Bertelli 1968, p. 5. 7 Ricuperati 1965, p. 395. Il testo giannoniano contro la Crusca fu segnalato in origine da Cian 1900. 8 Così il Giannone, cit. da Ricuperati 1965, p. 409. 9 Nello stesso testo, il Giannone nota anche che a Napoli furono pure ristampate «le opere del celebratissimo Galileo, e di alcuni altri professori di arti e di sciene, affinché i lettori non fossero sempre condannati fra le sottigliezze grammaticali e pedanterie, ma udissero insieme con lo studio della lingua la cognizione di qualche materia più utile e profittevole» (cfr. Cian 1900, p. 115). 6 75 occasionali come le lettere 10. Per la revisione delle traduzioni straniere dell’Istoria civile, e in particolare per quella inglese, stampata a Londra nel 1729, Giannone, preoccupato circa la resa di alcuni passi «non conformi alla Chiesa anglicana», si rivolge a persone capaci di ritradurgli in italiano quelle pagine, verificando che si tratta di una versione conforme all’originale, «sicché potei promettermi una traduzione leale e fedele, tanto più che i nomi delle città e province si lasciavano intatti, sicome altre voci proprie del latino o italiano», al contrario di quanto avveniva normalmente nelle traduzioni da lingue straniere. Metterà conto ricordare che nella bibliotechina del Giannone recluso in Piemonte i custodi annoteranno la presenza di un «Dizionario spagnolo inglese. Tomi due» 11. Tornando alla composizione della Vita, le diverse proporzioni testuali fra prima e seconda parte si accompagnano a una certa diversità nel dosaggio della materia. Nei capitoli dedicati agli anni della formazione e a quelli della stagione di studi e ricerche che conducono all’Istoria civile del regno di Napoli, le questioni storiche e giuridiche presentano un rilievo maggiore rispetto alla narrazione delle vicende private, che pure hanno uno spazio più ampio rispetto a qualsiasi testo autobiografico italiano dei decenni precedenti. Sono frequenti, in questa prima parte dell’opera, le lunghe digressioni nelle quali l’autore giustifica, in una sorta di abrégé ideologico, i fondamenti della propria dottrina giuridica. Ereditandolo dall’insegnamento di Gaetano Argento, egli aveva corredato il suo giurisdizionalismo di nuove e poderose motivazioni storico-filosofiche e di un accurato presidio documentario. «Intellettuale isolato», come lo ha giustamente definito Gustavo Costa, Giannone manifesta in queste pagine la modernità di un pensiero che, marginale e inascoltato nella Napoli borbonica, apparirà addirittura profetico al secolo seguente, né solo per i suoi riflessi politici, come testimoniano, ad esempio, le pagine della Vita dedicate alla riflessione teorica sugli studi storici e sulla ricerca erudita, in particolare su quella relativa ai «tempi bassi» (cioè alla tarda antichità e al Medioevo; si noti il nesso costituzione di Europa, nel significato di ‘assetto geopolitico’ conseguente alle paci di Utrecht e di Rastatt): Un confronto linguistico fra la Vita ed alcune lettere inedite ha proposto, in un primo saggio di descrizione stilistica, Giannantonio 1970. 11 Cfr. Bertelli 1968, p. 476. Nella stessa lista, conservata all’Archivio di Stato di Torino, è segnalato anche un «dizionari di quattro lingue Ital. Franc. Tedesco latino tom. i e ii», p. 475. Circa la fortuna inglese di Giannone, cfr. Venturi 1954. 10 76 E se bene negli ultimi tempi alcuni abbiano intrapresa una tal ricerca, siccome il Paruta, il Bandurio e pochissimi altri, con tutto ciò rimane ancora questa parte mancante e difettosa, poiché tutti si applicano all’antiche greche o romane e lasciano quelle de’ bassi tempi. Sicché fin ora non han potuto mostrare niuna delle monete de’ re longobardi, i quali, per lo spazio poco meno di ducento anni, ressero l’Italia avendo Pavia per loro sede regia. E pure, lo studio e conoscenza di questi tempi bassi dovrebbe essere a noi la più utile, anzi necessaria, poiché ha maggiore rapporto a’ nostri ultimi tempi ed alla presente costituzione di Europa ed a’ nuovi domini in essa stabiliti, dopo la decadenza del romano Imperio. Questi discorsi, che sovente soleva replicarmi, impressero nel mio animo idee conformi, sicché di proposito, secondo il metodo prescrittomi, cominciai a mescolare a’ studi legali l’istoria romana, principiando da quella di Tito Livio e proseguendo di passo in passo, secondo la cronologia de’ tempi, la lettura degli altri seguenti romani scrittori. Tipiche della prima parte della Vita sono anche le severe requisitorie contro la superstizione, la superficialità e la «prodigiosa ignoranza» (il nesso ricorre tre volte nell’autobiografia) degli avversari antichi e nuovi del giurisdizionalismo e dei seguaci di un cristianesimo arcaico e idolatrico che costituirà il bersaglio polemico di un’altra grande opera giannoniana rimasta inedita in vita, il Triregno 12. Di questo filone ideale fa parte un’interessante digressione del capitolo quinto sul linguaggio della Congregazione del Sant’Ufficio; con vivace sarcasmo, Giannone illustra l’«intelligenza», ossia il significato, che nel frasario dei «qualificatori», cioè dei censori della congregazione, acquisiscono le espressioni relative alla vita della Chiesa e alla dottrina ecclesiologica: «Essi, in qualificare le proposizioni, si han fatto un particolar vocabolario, e danno alla voce altra intelligenza di quel che sarebbe la propria. Chiamano la corte di Roma “sede apostolica”, la quale è dalla corte tutta diversa e differente; sicché tutto ciò che scrivesi contro gli abusi, corruttele ed intraprese della medesima, che tenta sopra la potestà de’ principi, si qualifica per ingiurioso alla Santa Sede, eversivo dell’immunità ecclesiastica, scandaloso e temerario». Il procedimento con cui Giannone traduce polemicamente i termini di questo «particolar vocabolario» è caratteristicamente settecentesco, tanto da essere impiegato spesso, in un secolo di grandi «lessici» e «vocabolari» scientifici, nella disputa politica e nella pamphlettistica. Se ne serviranno, in modo eguale e contrario, anche autori reazionari come Carlo Gozzi (di cui si dirà), o, ancor più platealmente, Ignazio 12 Sulla cui complessa circolazione manoscritto e sui problemi della relativa edizione cfr. da ultimo Ricuperati 2001, pp. 99-111. 77 Lorenzo Thyulen, nell’illustrare il nuovo significato della terminologia politica tradizionale nel linguaggio di novatori e rivoluzionari 13. Posta al centro dell’opera, a far da cerniera fra la parte più ideologicoculturale e quella più propriamente biografica e narrativa sugli anni della fuga e della persecuzione attraverso mezza Italia, sta la lunga e felice stagione viennese; nella capitale dell’Impero, l’autore dell’Istoria civile giunge nel 1723 e si sofferma per «undici anni e tre mesi». La descrizione della vita culturale della città, delle sue vicende politiche e del suo Alltag civile occupa la parte più ampia, più serena e più ricca d’aneddoti della Vita e dà luogo, come vedremo, a varie riflessioni linguistiche che, suggerite dal contatto con le culture straniere della città imperiale, sono più rare e più marginali nella narrazione sul periodo napoletano. Vienna è dunque, dopo Napoli, una nuova patria sia dal punto di vista intellettuale, sia per via delle amicizie e degli affetti che egli vi trova. I due passi che descrivono l’arrivo nell’una e nell’altra città sono caratterizzati da varie affinità strutturali e lessicali: «Giunsi in Napoli ne’ principi del mese di marzo dell’anno 1694, e que’ a’ quali io fui raccomandato, non per mancanza di affetto, ma per poca conoscenza che aveano de’ più insigni professori di legge che erano in quella città, mi mandarono ad apprender legge civile e canonica in casa d’un lettore». E a proposito dell’arrivo nella capitale dell’impero: «Giunsi a Vienna ne’ principi di giugno, e rimaso per pochi giorni in un’osteria d’un borgo prossimo al convento de’ Minimi di San Francesco di Paola, detti in Vienna “paulani”, finché dal mio uomo non mi si fosse trovato alloggio dentro la città, passai indi ad albergarvi a gli otto di giugno». Se già la descrizione del viaggio da Napoli a Vienna contiene vari elementi rocamboleschi (come l’acquisizione di false generalità, «poiché, in passando per gli alberghi, non trovava osteria nella qualle da’ viandanti partiti da Napoli non si parlasse del fatto mio»), nel racconto delle peregrinazioni italiane successive al soggiorno viennese – che occupa la seconda parte dell’opera – le peripezie dello sventurato protagonista passano in primo piano sopravanzando spesso il resoconto delle dispute giuridiche, teologiche e culturali in genere che oppongono Giannone ai suoi avversari. Venezia, Modena e Milano sono dunque tappe di una fuga precipitosa: solo nella prima delle tre città Giannone sembra poter trovare per un breve periodo un nuovo porto di tranquillità e di protezione. La città dei 13 78 Il testo di Thyulen è stato edito da ultimo da Continisio 2004. Dogi – descritta con un’uggia e un fastidio che appaiono riflessi mentali del risentimento maturato dall’autore per la Serenissima – riserva a Giannone la delusione più cocente, la cui narrazione egli affida, prima ancora che al testo della Vita, a un Ragguaglio dell’improvviso e violento fatto praticato in Venezia rimasto manoscritto fin dopo la sua morte, nel quale il nuovo esodo forzato è commentato con un’amara e dissimulata citazione decameroniana: «E questo fu il frutto che io trassi dalle tante carezze ed accoglienze usatemi in Venezia, sperimentando in mia persona qual veramente fosse la fede e lealtà veneziana» 14. Abbondano, negli ultimi capitoli della Vita, le sconsolate allusioni alla sventura e alle disavventure patite dall’autore, al fatal (4 volte), crudel (2 volte), fiero destino che lo sospinge nella sua fuga, alla dura sorte che lo riduce «nell’ultima necessità»: i termini usati per descrivere «incomodi, disagi» 11.67, «angosce e patimenti» 9.41 sono comuni a quelli della coeva letteratura romanzesca. Il tono avventuroso e l’andamento romanzesco della narrazione autobiografica giannoniana sembrano appunto anticipare un tipico sviluppo successivo del genere. Nell’impianto apologetico della Vita, le traversìe del protagonista (imputato e avvocato al tempo stesso) corredano di efficacia emozionale le lucide argomentazioni a sostegno delle tesi per le quali l’autore era perseguitato dall’autorità ecclesiastica: la stessa precisione che, come abbiamo accennato, caratterizza il resoconto relativo a tempi e luoghi della vicenda richiama quella di una serrata istruttoria giudiziaria. In una lettera al fratello del 1729, Giannone riferiva da Vienna di aver incontrato Apostolo Zeno che, di ritorno da Venezia, aveva portato con sé «una Raccolta di varie operette, fra le quali vi è la Vita del Vico scritta da lui medesimo, ch’è la cosa più sciapita e trasonica insieme che si potesse mai leggere» 15 (l’ultimo aggettivo è, come vedremo, non isolato nell’autobiografia e caratteristico dell’autore). La condanna senz’appello dell’autobiografia vichiana (letta evidentemente nella Raccolta calogeriana, di cui, citandola a memoria, Giannone deforma il titolo) non è solo, come è stato notato, una dimostrazione della distanza ideologica che separava i due intellettuali. Nel giudizio appare implicita anche una presa di distanza dal genere stesso della memoria autobiografica, oltre che una precisa avversione verso il linguaggio oscuro e preziosamente letterario del filosofo 16. 14 Cfr. Decameron, giorn. IV, nov. 2, 23: «e fu lealtà viniziana questa». Il Ragguaglio, pubblicato dapprima da Pierantoni 1892, si legge ora in Giannone 1971, pp. 513-54. 15 Cfr. Croce 1948, p. 194 16 Cfr. Ricuperati 1965, p. 403. 79 Quella del Giannone è, in realtà, la reazione che molti degl’intellettuali convocati dal Porcìa temevano di suscitare nella repubblica letteraria: proprio il timore di apparire vacui e presuntuosi aveva dissuaso la maggior parte di essi dall’aderire al Progetto pubblicato da Calogerà. Ma il giudizio dell’esule appare troppo netto per poter essere attribuito solo a riserve di opportunità: «sciapita e trasonica» doveva apparire a Giannone nel 1729 un’opera che dell’ambiente culturale napoletano tardo-seicentesco e primo-settecentesco offriva un’immagine sensibilmente diversa da quella che egli doveva aver già elaborato, e che di fatto offrirà, alcuni anni dopo, nella propria autobiografia; incomprensibile doveva sembrargli la manifesta polemica anticartesiana attorno a cui il filosofo costruiva, di fatto, l’intera impalcatura dell’opera; addirittura irritante – come emerge da altre lettere e da altri documenti giannoniani 17 – l’udienza che Vico s’andava guadagnando presso gl’intellettuali di tutta Europa, con una facilità ben maggiore di quella incontrata, nella sua faticosa peregrinazione, dalla solida dottrina storico-giuridica dell’Istoria civile. Di fronte a un’avversione così aperta, pare a prima vista impossibile che proprio l’autobiografia vichiana possa aver costituito un modello per quella giannoniana. Paradossalmente, nella sua costruzione e impostazione radicalmente alternativa, la Vita vichiana rappresenta piuttosto un incombente antimodello: essa sembra, mutatis mutandis, stare a quella di Giannone come il Discours stava al testo di Vico. Il tipo dell’autobiografia meramente intellettuale, fortemente filosofica e in un certo senso paradigmatica prodotta dal filosofo su precisa ispirazione del Progetto di Porcìa potrebbe aver influenzato, ad alcuni anni di distanza, il Giannone, che fin dalla prima pagina delle proprie memorie sottolinea le condizioni esterne (diverse da quelle che avevano mosso Vico) nelle quali egli ne intraprende la stesura, rimarcando la natura tutt’altro che esemplare e positivamente istruttiva della propria opera: «Ma sopra tutto prendo a scriverla perché sia a gli altri di documento, e spezialmente a gli uomini probi ed onesti ed 17 Cfr. Ricuperati 1965, p. 403: «Già in una lettera viennese dell’8 maggio 1728 (...) osservava che il “Vico” di cui si parlava come d’un abate, doveva essere “Giovan Battista Vico”, e concludeva che, a suo credere, non esisteva in Napoli “scrittore più fantastico e visionario di costui”. Pare che, nel frattempo, Carlo Giannone desse assicurazione che si trattava proprio del filosofo. Certo è che, nell’altra epistola del 13 giugno del medesimo anno, Pietro replicava che l’abate Acampora aveva perfettamente ragione di “stomacarsi” (!) nel “vedere che i compilatori degli Atti di Lipsia tanto si travagliano per intendere le fantastiche ed impercettibili (inintelligibili) idee del Vico, quando, per non torcersi il cervello, non dovrebbero nemmeno fiutare i suoi librettini”». 80 amanti del vero, quanto sia per essi dura e malagevole la strada che avran da calcare, per passar la loro [vita] in questo mondo liberi e sicuri» 18. Se l’intento di essere «a gli altri di documento» riflette un carattere comune alle autobiografie scritte sulla scia del Progetto pubblicato da Calogerà, lo sfondo e gli intenti dell’opera giannoniana sono ben altri da quelli cui faceva riferimento il Porcìa. 2. Le esperienze linguistiche di un esule Complici la notevole ampiezza e un impianto narrativo ben diverso da quello delle opere prodotte sul modello del Progetto di Porcìa, la Vita giannonana non si limita a trattare dell’apprendimento linguistico infantile e delle letture giovanili di poeti e prosatori volgari, ma dà spazio anche a un genere di esperienze linguistiche – viaggi e frequentazioni di accademie e corti italiane e straniere – assente nelle autobiografie italiane dei decenni precedenti, e tipico invece di quelle composte nella seconda metà del secolo. Gli studi di Gianfranco Folena hanno ampiamente documentato, tra i fenomeni più tipici della storia linguistica settecentesca, i contatti e gli scambi che l’italiano intrattiene con le altre grandi lingue europee per tramite degl’intellettuali che lo diffondono all’estero e di quelli stranieri che soggiornano in Italia o ne praticano la cultura e la letteratura: il Giannone è tra i primi a descrivere tale circolazione. Nel parlare del suo primo maestro – l’arciprete della chiesa di Ischitella – egli accenna solo all’insegnamento del latino; è ancora un riflesso della centralità che la lingua antica aveva, come si è visto, nella didassi primosettecentesca (tanto più nell’Italia meridionale) e della mancanza di una specifica attenzione al volgare: «Fui mandato a scuola ad apprender grammatica dall’arciprete di quella chiesa, uomo versato nella lingua latina per quanto comportava la condizione del luogo» 1.1. Soltanto dopo l’arrivo a Napoli (1694), il giovane apprendista avvocato incontra il suo iniziatore alla letteratura volgare, il poeta leccese Filippo de Angelis, membro dell’Arcadia e seguace del capuismo, il cui canone letterario volgare com18 L’integrazione dell’editore appare necessaria: il manoscritto presenta in questo punto numerose correzioni e riscritture (il segmento «la loro» è in interrigo), ed è possibile che la parola vita si trovasse in una frase precedente dello stesso periodo, e sia stata poi cassata e resa illeggibile. 81 prende naturalmente le tre corone (con anteposizione di Petrarca, o meglio posposizione di Dante, comprensibile nel clima del purismo casiano), ed è integrato, per la prosa, dal Villani, ma anche dai maestri dell’oratoria cinque-seicentesca 19. Nel giudizio solo parzialmente positivo su Dante e nella valutazione della propria giovanile lettura della Commedia si misura la distanza rispetto a un Vico, il cui apprezzamento per l’Alighieri riguardava per altro, più che il poeta, il «dotto di altissima scienza riposta» 20. Ancora, una differenza netta tra i due in merito alle questioni linguistiche, e in particolare storico-linguistiche, emerge chiaramente da un confronto tra le pagine della Scienza nuova dedicate ai primordi delle lingue naturali e il denso paragrafo dell’Istoria civile del regno di Napoli in cui Giannone connette la prima origine della «lingua italiana» alla commistione del «parlar latino comune, e popolare» con la «venuta de’ Bulgari» nei feudi dell’Italia meridionale ai tempi di Alzeco: l’autore ne trae spunto per una rassegna delle reliquie degli antichissimi volgari italiani attraverso documenti mediolatini, partendo dall’età altomedievale e spingendosi fino a quella federiciana, nella quale la lingua volgare «era già comunissima, e resa ormai già vecchia». Accostando poi all’influsso dello strato barbarico quello dello strato arabo («meschino, magazzino, maschera, gibel, che significa Monte, onde Gibel l’Etna per eccellenza s’appellò») e del greco bizantino, Giannone si riallaccia alla ricostruzione, già umanistica, sulle origini “barbariche” dell’italiano, rivisitandone la formula sulla base delle sue personali conoscenze documentarie, e adattandola alle circostanze storiche dell’Italia meridionale: 19 «Per gli autori toscani che avevano scritto in prosa, il de Angelis mi additò, fra’ primi, i due Giovanni – Boccaccio e Villano – ed altri scrittori fiorentini; e per apprender l’arte dell’eloquenza ed i vari generi dello stile, mi propose i Commentari del Panigarola sopra Demetrio Falereo, che io lessi con somma cura ed attenzione. A questi aggiunsi le prose del Bembo, i discorsi di Giulio Camillo Delminio, del Muzio, del Salviati ed altri. Ma intorno allo stile di quanti trattati aveva letti, niuno mi parve più savio e dotto che quello che compose il padre Pallavicino, gesuita poi cardinale – Dell’arte dello stile – il quale con acute riflessioni ed accurati accorgimenti avea superato la diligenza ed osservazioni degli altri». A Dante Giannone si rivolgerà più tardi, con interesse soprattutto politico-giuridico: per la citazione del Poeta come «ghibellino» nell’Istoria civile cfr. Ricuperati 1970, p. 184. Quanto al De Angelis, scarsissime le notizie biografiche su di lui, se ne ignorano persino le date di nascita e di morte: cfr. la voce di Angelo Romano in DBI 33 (1987), pp. 276-77. 20 Così nella Scienza nuova III.1.5, dove Vico varia occasionalmente il nesso «sapienza riposta», con il quale nel trattato viene indicata la conoscenza dei «sommi e rari filosofi» in opposizione a quella «volgare» dei legislatori. 82 Ma essendo poi a’ Longobardi, a’ Greci, a’ Saraceni succeduti i Normanni, e dapoi i Suevi, i Franzesi, gli Spagnuoli, gli Albanesi, e chi no? Si venne per questo, ancorché tutte le nostre Provincie ritenessero la medesima Italiana favella, a quella diversità, e mescolanza, che ora vediamo con tanta maggior maraviglia, quanto che non vi è luogo benché picciolo, che fosse nel Regno, che o nell’aria, o nell’accento, e sovente ne’ vocaboli non differisca, e dall’altro non si distingua. (L. IV, cap. X, § 2) (Dove l’uso del verbo succedere riferito ai popoli dell’Italia tardoantica, sembra appunto stabilire una parentela diretta con il passo delle Prose bembiane in cui Fregoso descrive la formazione della “volgar lingua”: «Successero a’ Goti i Longobardi» I.vii). Viatico alla scoperta di Omero è per Giannone la traduzione latina di Lorenzo Valla, ma tale lettura non gli trasmette alcuna particolare suggestione culturale («ne cavai poco profitto»). Con impegno e utilità maggiori egli dichiara di essersi accostato agli storici toscani del Rinascimento, Machiavelli, «piano, facile e corrente», e Guicciardini, «avviluppato, laborioso e contorto» 21: giudizio piuttosto convenzionale che tuttavia stride con la prassi stilistica giannoniana, così lontana dalla politezza classica che egli ammira nel Segretario fiorentino. Protagonista degli anni della formazione e della prima stagione di ricerche erudite del Giannone resta, comunque, il latino («Il goffo latino de’ volumacci forensi», come lo definisce egli stesso), usato anche nell’ambiente napoletano primosettecentesco, pur così favorevole alla promozione dell’italiano letterario e al tempo stesso così ricco di tradizioni linguistiche locali 22. Tuttavia, la lingua comune nazionale costituisce, per Giannone, una varietà abbastanza chiaramente definita da diventare, all’estero, elemento di identità culturale e insieme utile strumento di comunicazione internazionale. Così, nella sua lunga permanenza viennese egli non sarà mai costretto a imparare il tedesco. Già nel 1675, del resto, Lorenzo Magalotti aveva potuto dichiarare di non averne avuto bisogno («non c’è chi abbia viso e panni da galantuomo, che non parli correntemente l’italiano»); e lo 21 «E secondo che io coll’età m’avanzava a questi studi, dapoi, per la conoscenza de’ tempi meno a noi lontani, pervenni alla cognizione delle istorie d’Italia degli ultimi secoli. Da quelle del Guicciardino e del Machiavelli appresi lo stile, se bene sembravami più piano, facile e corrente quello del Macchiavelli, che quello contorto, avviluppato e laborioso del Guicciardino; onde mi attenni più al primo che a quello secondo» 2.2.9. 22 Lo stesso Giannone fu fatto oggetto di una corona di sonetti anonimi in dialetto napoletano (Sceuta de soniette), pubblicati da Rispoli 1922 e poi ripresi da Bertelli 1968, pp. 107-113. 83 stesso accadrà a Metastasio e a Da Ponte 23. Certo, la Vienna di Leopoldo I era da questo punto di vista diversa da quella di Carlo VI, e l’ambiente musicale e letterario in cui lavoravano poeti cesarei e librettisti di corte erano dissimili da quelli frequentati dall’autore dell’Istoria civile del Regno di Napoli. Eppure, la testimonianza di Giannone ripropone l’immagine di una capitale affollata di suoi connazionali (al punto che vi «s’intendeva non men il francese che l’italiano» 6.2.9) e apertissima verso la lingua di Dante – autore, quest’ultimo, oggetto di dotte lecturae da parte del giurista Alessandro Riccardi nella casa del «reggente Almartz», ossia del conte Domingo de Almarza, dove alle lezioni sul sommo poeta si affiancano quelle sulle «Meditazioni e i Principi di Cartesio, che io sentiva con molto piacere e contento» 5.2.13. La propagazione quasi contagiosa dell’italiano non riguarda, tuttavia, solo gli ambienti colti. Alla descrizione di una lingua capace di affascinare soprattutto le donne non sarà alieno, forse, un tocco di civetteria in cui pare riflettersi, e quasi deformarsi parodicamente, la topica primosettecentesca sul genio delle lingue, e dell’italiano in particolare. Di fatto, moglie e figlie di Giannone apprendono la sua lingua quasi per naturale contatto: «da ciò avvenne che io non ci avessi più cura, ed avendo resa quasi tutta la casa italiana, parlava sempre col mio linguaggio, col quale era ben inteso» 6.2.8. Altrettanto convenzionali sono, del resto, le considerazioni giannoniane sullo spirito del tedesco. Quella che Vico esalta come «lingua eroica vivente» è per Giannone «sì vasta ed intricata (...), che ha voci composte di tante consonanti e poche vocali, che mal si adatta alla pronuncia degl’Italiani» 6.2.8; gli stessi intellettuali viennesi tendono a preferirle il latino, almeno per i loro scritti: «intorno a’ libri, gli scrittori più dotti e savi non si valevano della tedesca, dandoli alla luce, ma sì bene della latina, perché fossero letti» 6.2.9. L’ammirazione con cui Giannone parla del «più versato in legge» fra i conoscenti viennesi, Ernest Plekner, non è disgiunta dall’apprezzamento per il fatto che egli «sentiva e parlava la lingua italiana» 5.1.59. E in una serena pagina dedicata alla villeggiatura di Pettersdorf, ricorda di aver goduto «non pur l’amenità della campagna, ma la conversa23 Folena 1983, p. 437; e alla pagina precedente: «l’italiano era la lingua usuale dell’ambiente musicale, ma ancor prima che l’Opera italiana trionfasse in Austria e in Germania e l’istituzione del poeta cesareo italiano si affermasse a Vienna, con Minato e Stampiglia, con Zeno e soprattutto con Metastasio, l’italiano era lingua di corte a Vienna e a Dresda e così anche a Salisburgo, e aveva stabilito il suo predominio per più d’un secolo nel cuore germanico di un’Europa sempre più gallicisée». 84 zione non meno de’ Tedeschi che de’ nostri Italiani», nella quale i primi praticavano verosimilmente la lingua dei secondi. Latino, italiano: alle lingue più familiari a Giannone si aggiunge, nell’ambiente della corte imperiale e in particolare in quello del Consiglio di Spagna – cioè nel «ministero istituito a Madrid (di qui il nome) e poi trasferito a Vienna per il governo degli affari dei Regni italiani» 24 – lo spagnolo. Ancora ben acclimate nella stessa Napoli (nell’Accademia di Medina Coeli Giannone testimonia di aver udito «vari componimenti di sublime e scelta materia, non meno in prosa che in versi e in rime, ed in più lingue: greca, latina, toscana e spagnola»: ma la circolazione del castigliano doveva essere ben più ampia in città), le lingue della «nazione spagnola» non sembrano influenzare lo stile di Giannone (se si eccettua un paio di referti lessicali di cui si dirà). Tuttavia esse sono le uniche ad essere occasionalmente impiegate nella Vita per ironici inserti espressivi, come la descrizione di un personaggio dai tratti comici, l’«ufficial maggiore della Secreteria del Suggello» di Vienna, un vecchio catalano «chiamato don Giovanni Llacuna» dal quale Giannone riscuote con grande difficoltà gli emolumenti per la difesa delle «spedizioni di Sicilia», ossia delle cause legali che da lì venivano inviate per un appello alla corte di Vienna: «sempre che io mandava per riscuoter le mesate, la risposta del catalano era: no hai dinero» 7.3.13 (poco oltre: «e sovente bisognava chinar il capo alla terribile voce del catalano: no hai dinero» 7.3.18). E ancora qualche pagina oltre: «questa protezione s’invigoriva o rallentava, a proporzione dell’abbondante o scarsa misura de los doblones, de’ quali i Coscia erano smunti» 7.3.39. Se, dunque, Giannone non si sente costretto, durante il suo soggiorno viennese, ad apprendere il tedesco, meno scontata è la minima dimestichezza ch’egli acquisisce con il francese durante le sue peregrinazioni europee. Nessun riferimento a questa lingua nella sezione della Vita dedicata al periodo austriaco. E anche durante la detenzione in Piemonte, Giannone sembra non aver mai avvertito il bisogno di imparare una lingua di cui pure doveva avere una generica competenza passiva. A Ginevra, egli può così partecipare alle «radunanze» settimanali degl’intellettuali raccolti attorno al principe Federico di Saxe-Gotha ascoltando i loro discorsi «ancorché pronunciati in lingua francese». Ma invitato a intervenire ai dibattiti di «scienze, di morale o di pratica» di quel consesso, egli dichiara la sua incapacità di esprimersi correntemente nella lingua locale, ma viene di 24 Cfr. De Martino in Giannone 1998, I, p. 129. 85 buon grado autorizzato a usare l’italiano: «tosto mi convinsero, con rispondermi che io poteva ben valermi della propria lingua italiana, poch’essi, se ben non la parlassero, l’intendevan sì bene, come la francese». Tutto al contrario di altri autori contemporanei, che – calcando la mano sui faux amis delle due lingue – si appuntavano sull’incomprensibilità reciproca di francofoni e italofoni. Ma nella rappresentazione giannoniana, la protestante e cosmopolita Ginevra è porto franco – anche linguistico – in cui la differenza fra le lingue e il loro «genio» non sembra inibire la possibilità di comunicare «con molto spirito e grazia». 3. La lingua della Vita giannoniana Il manoscritto della Vita, conservato negli archivi dello Stato sabaudo, venne concesso in lettura a Pietro Giordani nel 1837. Non appena le autorità seppero della sua intenzione di darlo alle stampe, esso venne sequestrato dall’archivista Luigi Nomis di Cossilla, il quale «provvedeva a effettuarne la trascrizione (terminata nell’ottobre 1840)» 25 che ancor oggi si legge nello stesso registro che conserva l’originale. Probabile che a questa copia abbiano largamente attinto, nei punti di più difficile lettura dell’autografo, i due primi editori del testo, Augusto Pierantoni e Fausto Nicolini 26. Complessivamente fedele e rispettosa anche degli aspetti più minuti di variabilità grafica dell’originale risulta invece l’edizione di Sergio Bertelli: il testo da lui predisposto (che è quello accolto nel corpus della LIZ) è in generale attendibile per uno spoglio linguistico: per questa ricerca, non si è tuttavia omesso di verificarne la lezione direttamente su una riproduzione fotografica del manoscritto, specie per le forme a bassa frequenza 27. La prosa della Vita giannoniana risente di notevoli condizionamenti dialettali, e al tempo stesso manifesta incertezze e difformità riconducibili ad un influsso altrettanto forte del latino, in particolare nell’àmbito delle 25 Marchi 2001, pp. 1009-1010. Cfr. Giannone 1890 (sulla cui inaffidabilità cfr. rispettivamente Cian 1903 e Marchi 2001, p. 1010) e Nicolini 1904 (in rivista), poi ristampata come volume autonomo: Giannone 1905. 27 In generale, le uniche mende che si è avuto modo di riscontrare riguardano l’occasionale e inavvertita normalizzazione di alcune grafie (ad es. dubj del ms., c. 8r mutato in dubbi, quanto alla consonante scempia/doppia: sistematica è, al contrario, la sostituzione di -j finale con i, secondo una prassi consueta nelle edizioni di testi settecenteschi; ciocché, c. 47r, mutato in ciò che): si tratta, comunque, di imperfezioni solo sporadiche, e comprensibili data la complessità e la difficoltà di lettura dell’autografo. 26 86 grafie, del lessico, della sintassi. A questi fattori si sovrappone poi la generica patina popolareggiante di una sintassi che ormeggia il parlato, disomogeneamente compensata dal ricorso a preziosismi letterari. Circa i tratti fonetici di ascendenza meridionale, i dittonghi di consuolo ‘consolazione’ e scuopo ‘scopo’ si spiegano per l’influsso delle corrispondenti forme dialettali 28. Al consonantismo tipico della sua area di provenienza (nella quale il nesso nk passa a ng) si deve la formazione di ipercorrettismi come pozzanchere ‘pozzanghere’ 2.1 29; e da ragioni affini dipende la forma appaldi 8.6 ‘appalti’ 30. All’influsso delle corrispondenti dialettali andranno analogamente ricondotte le velari sonore di galesse ‘calesse’ e derivati 31 e sguadrone 11.43 ‘squadrone’ 32, e simile spiegazione ha la presenza della consonante intensa (che riflette la mancanza, nel dialetto, di opposizione fonologica fra doppie e scempie per questi suoni) in bruggiare ‘bruciare’ e forme affini (si consideri che il tipo brugiare con la scempia, già toscano antico, era ancora piuttosto frequente in prosatori seisettecenteschi di varia provenienza) 33, e in numerose altre forme tipicamente meridionali con g palatale (tipo serviggio, alteriggia ecc. 34) e con b (tipo abbissarmi, subbito 35). Diverso il caso della forma doppo, ampiamente diffusa, all’epoca, in scrittori di ogni provenienza 36. La LIZ offre un esempio di consuolo sostantivo dalle Poesie di Vico, mentre non dà occorrenze per scuopo. D’Ambra 1873 riporta il sost. conzuolo. 29 Cfr. per il processo di formazione Rohlfs 1966, § 257. La stessa forma compare anche nelle Lettere accademiche del Genovesi 1962, p. 410. 30 La stessa forma si trova ad es. nella biografia di S. Alfonso de’ Liguori (Tannoia 1860, p. 363). 31 Esempi: galesse 5.1 (4 volte), 10.50, 10.51, 10.74 (2 volte), 10.77, 10.79 (3 volte), 10.80 (2 volte), 11.42, 11.43 (3 volte), 11.45, galessabile 5.1, galessiere 10.73, 10.77, 10.80 (2 volte). Galesse e affini è un tipo relativamente diffuso nei dialetti meridionali, ma forse deriva a Giannone dalla varietà del paese natale (cioè dal dialetto pugliese): cfr. ad esempio l’attestazione di Zingarelli 1899, p. 226 nel dialetto di Cerignola. 32 Cfr. Rohlfs 1966-1969 § 189. 33 Esempi: bruggiar 7.2, bruggiare 8.6, bruggiarsi 8.6, bruggiati 5.1, 8.6 (2 volte). 34 Esempi: aggiatamente 6.2, aggiato 6.2, aggio 6.2 (3 volte), 7.1 (2 volte), 7.3, 10.14, 10.17, 10.75, 11.33, aggitato 10.50, aggitazione 5.1, 9.17, 11.7, alteriggia 9.46, disaggi 6.1, malvaggio 7.2, piggione 9.36, piggioni 9.30, preggi 9.41 preggiava 10.19, presaggite 9.35. Diverso il caso di diriggere, esiggere e forme affini, per le quali il tipo con doppia era normale, nel Settecento, anche in scriventi settentrionali: cfr. Patota 1987, p. 55. 35 Esempi: abbissarmi 11.19, abbominazione 11.58, dubbitandosi 7.2, dubbitarsi 8.4, subbito 10.90. 36 La LIZ [700] riporta solo esempi da Vico, ma la stessa forma si trova ad esempio in testi veneziani come le Leggi criminali venete (Sabini 1851, pp. 47, 53, 54 ecc.), in autori toscani come il Fagiuoli (Fagiuoli 1736, pp. 48, 86, 110, 111 ecc.), nelle parti in italiano del Vocabolario 28 87 Meno decisamente connotate, ma spiegabili anch’esse con l’influsso della varietà locale, sono le forme con passaggio di ns a nz e di rs a rz 37. Più che meridionali, sono genericamente antitoscane voci non anafonetiche come longa 8.4 («longa vita, sanità, abbattimento de’ nemici») o congionto, di tipo comunissimo in autori coevi di varia provenienza 38. Anche nel prevalere di ar su er in protonia in forme nominali come cancellaria e affini e in forme del condizionale della prima coniugazione come bisognarebbe il modello dialettale converge con altri possibili matrici (nel primo esempio quella latina, nel secondo l’allineamento paradigmatico) 39: del tutto normale, all’epoca, in scrittori di ogni tipo è invece la stessa oscillazione in doppioni come maravigliati e meraviglia 40. La presenza di latinismi fonetici, scontata in un autore come Giannone, non è invero cospicua, e si manifesta nella scelta di allotropi culti per lessemi le cui corrispondenti alternative volgari non avevano ampio corso: è il caso, quanto alla vocale tonica, di forme come multiplici e corrigerle; e quanto al timbro delle vocali protoniche, di assignò, consignare, vindicare, multiplicare, vindemmie, manuscritti e simili. Diverso il caso del tipo surgere e del tipo fusse, che nella prosa italiana del secondo Settecento mostravano ancora una continua tendenza all’oscillazione con le corrispondenti forme con o (nella stessa Vita giannoniana si ha infatti anche sorgere, sorto, fosse e fossi) 41. Piuttosto ricca anche la serie dei toscanismi arcaizzanti, forse influenzata dalle tendenze puristiche ampiamente diffuse, come si è visto, nella siciliano etimologico di Michele Pasqualino (Pasqualino1790, t. IV, pp. 135, 249, 251, 255): solo per dare qualche esempio significativo e di diversa provenienza. 37 Esempi: borza 9.22, scanzie 9.60, 10.12, 10.44, estenzion 8.4. Per il movente fonetico di simili forme cfr. Rohlfs 1966, § 267 («il fenomeno è caratteristico in modo particolare dei dialetti del Mezzogiorno»). 38 Esempi: aggionta 11.64. congionti 4.2 (3 volte), 8.4, 9.40, 9.76, 9.84, 10.65, 11.67 versus aggiunta 9.31, 9.81, 10.23, 10.53, aggiunte 8.3, 9.69, 10.23, aggiunti 4.2, 7.2, congiunta 5.1, congiunte 8.5, 9.62, congiunti 5.1, 9.62, 10.79, congiunto 4.2. 39 Esempi per i sostantivi: libraria 2.1, 3.1, 10.4, cancellaria 6.2, 7.2, secretarie 8.6; esempi per i condizionali: secondarebbe 6.1, bisognarebbe 8.6, lasciarebbe 10.65. Teste la LIZ[700], forme simili ricorrono anche nel Vico poeta (A Massimiliano Emanuele, v. 81: mancarebbe) e nel prosatore (Vita, 37: addrizzarebbe due volte), ma anche nel «Caffè» (minacciarebbe, somministrarebbe, operarebbe, in scritti di Sebastiano Franci e di Pietro Secchi), e negli Animali parlanti del Casti (imbrogliarebbe, 8.43). 40 Esempi: maraviglia 2.1 bis, 5.1 bis, 6.2, 8.1, 10.84, 11.43, 11.59, meraviglia 7.2. 41 Esempi: surti 2.1.12, surto 2.1.16, 8.6.14; fusse 2.1.16, 7.3.21, 8.6.32, fusser 2.1.20, 4.2.10, fussimo 8.5.6. 88 Napoli primosettecentesca: sebbene i rapporti di Giannone con l’ambiente dell’Accademia degl’Investiganti e dei letterati capuisti siano solo superficiali, anch’egli subisce l’influsso di quell’ortodossia toscanista che, come si è visto, egli stesso lodava nel revisore linguistico dell’Istoria civile. Toscaneggiante è, ad esempio, la serie di forme con prefissi di- e ri- dimandare 42, divoto 43, ricapito, ricuperare, ridimere, riminiscenza, rimoto, riputare 44, cui andrà aggiunta la forma con i protonica non prefissale quistioni 45. Di tipo letterario è poi l’accoglimento di un’ampia serie di sostantivi in -dore, tipo imperadore, appaltadori e simili 46 (non invece i tipi covrire e coverta già incontrati in Vico 47). Una vaga letterarietà connota forme non dittongate come movere e rimovere (che però convivono con muover, muoversi) 48. Genericamente toscaneggianti sono anche le prostesi di i in forme quali isporre, isfuggire, istesso, istorici, istromento, istromenti, consuete, come si è visto nel capitolo precedente, anche negli autori napoletani della prima metà del secolo 49. Venendo alla morfologia, il genere maschile di pigione (due volte «il Per il tipo dimanda/dimandare rispondono 17 occ. (2.1 bis, 2.2, 5.1 ter, 6.1, 9.16, 10.33 bis, 10.45, 10.50, 10.51 bis, 10.70, 11.27, 11.43), contro 10 occ. di domanda/domandare (2.1, 3.2, 5.1, 5.2 bis, 7.3 bis, 9.50, 10.87, 11.27). 43 Per il tipo divoto/divozione rispondono 24 occ. (2.2, 3.1 ter, 5.1 ter, 5.2, 6.1, 6.2, 7.2 quater, 8.4 bis, 8.6, 9.32, 9.42, 10.27, 10.28, 10.30) contro due soli occ. di devozioni 5.1, 10.30. 44 Un esempio per ricapito 7.2, dieci per ricuperare (8.6, 9.25, 9.40, 9.78 bis, 10.56, 10.59, 10.61 bis, 11.56), uno per ridimere 8.6 (contro due di redimere 8.4, 8.6), riminiscenza 3.2, rimoti 8.6 (contro sette di remoto 2.1 cinque volte, 3.3, 5,1); ben 79 occ. per riputare contro 10 per re-. Per simili voci con alternanza e/i con riferimento al secondo Settecento osserva Patota 1987, p. 34: «L’impressione che si ricava dalla lettura dei dati è che per molte voci, per le quali i vocabolari documentano una certa oscillazione, l’allotropo con i sia definitivamente uscito dall’uso». 45 Un esempio di quistioni 2.1 contro quattro di questioni Proem.4, 1.4, 2.1, 8.6. 46 Esempi: ambasciadore 9.48, 9.82, 9.84, 10.6, 10.19, 10.21, ambasciadori 10.21, 10.55, appaltadori 8.6, conquistadore 9.11, governadore 6.1, 11.24, 11.42 bis, 11.45, 11.48, 11.50, 11.54, 11.56 bis, 11.58, 11.59, 11.64 bis, imperadore 6.2 ter, 7.1 cinque volte, 7.2 cinque volte ecc. (tot. 157 occ.), imperadori 2.1 ter, 3.3 cinque volte, 5.1 bis, 6.2 sette volte ecc. (tot. 25 occ.) servidore 6.2, 9.36, 10.37, 10.42, 10.75, servidori 4.3, 6.2 ter, 8.6, 9.30, 9.35. Si ha di contro: governatore 8.6, 11.24, servitore 10.34, governatori 11.3 e numerose altre forme attestate solo con la sonora: ad esempio adoratore 3.3, calunniatore 11.7, competitore 5.1, creatore 8.4 bis, escusatore 5.1, inquisitore 6.1 bis, 10.8, 10.25, 10.28, 10.29, 10.53, legislatore 3.3, 8.4, liberatore 8.4 bis, mediatore 8.6 bis, 9.42, millantatore 8.3, procuratore 4.1, 4.2, 8.4, ricevitore 7.3, riformatore 8.6, 9.52, Salvatore 10.28. 47 Esempi: coverta 5.1.33 bis, 9.61, coverti 3.1.3, covrendosi 5.1.14, covrire 5.2.17, covrendo 11.30, di contro a coperto 5.2.1, copre 11.51, coprisse 9.24, copriva 8.1.3. 48 Cfr. Patota 1987, p. 24: «l’oscillazione movo/muovo, movere/muovere, ecc. è normale», e inoltre: «le forme con dittongo sono preferite dai vocabolari». 49 Cfr. Vitale 1986, p. 196. 42 89 pigione» 6.2.4, 7.3.22) è un napoletanismo 50. Dominato da una grande varietà, solo in parte giustificabile con l’interferenza del dialetto, è poi il settore degli articoli e dei pronomi personali, il cui polimorfismo caratterizza peraltro la prosa italiana del pieno Settecento. In una simile variabilità s’inquadra dunque la compresenza dei plurali li davanti a consonante (non solo nella sequenza per li, di antica tradizione) 51 e gli anche davanti a parola iniziante con consonante diversa da s implicata 52. Quanto ai pronomi, si ritrovano qui varie forme toscane arcaiche e letterarie, predilette, come si è visto nel capitolo precendente, dai capuisti: dal pronome soggetto di terza persona singolare maschile e’ al plurale maschile eglino 53; già incontrata nel Vico e nei puristi anche la forma oggettiva diretta il davanti a parola iniziante per consonante (ad esempio «il facevano», «il dimostrò», «il vidi»). Liberamente alternantisi, nel singolare dativo e nel plurale dativo e accusativo, i pronomi clitici li e gli; troviamo dunque per il singolare dativo maschile bastandogli e assignarli quanto all’enclitico, e li risposi e gli risposi quanto al proclitico 54, e al femminile, natagli per ‘nàtale’ («quella onesta e savia donna, che erasi ritirata in monastero con sua figliuola di me natagli») 55. Per il plurale dativo, si ha ad esempio l’occorrono ‘occorrono a loro’ e comunicarli ‘comunicare a loro’, eccetera 56. Antiletterario e favorito Cfr. Puoti 1841 s.v. piggione e pesone, «sust. masch.». Esempi del primo tipo: per li tempi 3.3, per li loro impieghi 5.2, per li suoi Stati 8.6, 9.2; esempi del secondo tipo: li quali 5.1 bis, 6.1 ter, 10.6, 10.56, li reggenti 5.1, 6.2, li tanti apparecchi 5.2, li due provinciali 6.2, li tanto appariscenti riti 8.6, li labbri 8.6, li soggetti 11.4. 52 Esempi: gli goffi 3.1, gli diritti 5.2, gli danni 6.2, gli Francesi 8.6. 53 Esempi: e’ 2.1 ter, 3.3, 5.2, 6.1, 7.2 sette volte, 10.20, 10.55, 11.49; eglino 7.3 (quest’ultima forma è giudicata rara da Buommattei, che pure non la proscrive rilevandola sia in Boccaccio, sia in Petrarca: Buommattei 2007, p. 260; cfr. anche Corticelli 1775, p. 33; la contempla anche S. Alfonso M. de’ Liguori nei suoi Brevi avvertimenti di grammatica, cfr. Librandi 1984, p. 15). 54 Esempi per li dativo singolare: «niente li valsero sue preghiere» 5.1, «personaggi, che li facevan corona» 5.1, «li replicai che così avrei fatto» 7.2, «voleva che non se li toccassero» 7.3, «quelli che li stavan d’attorno» 7.3, «li risposi» 8.2, 9.84, «io intanto ce li sciogliessi» 10.73. La tradizione grammaticale accoglieva come indifferenti le forme gli e li proclitiche ed enclitiche: cfr. ad es. Buommattei 2007, p. 253. 55 Come nota Serianni 1998, p. 220, nell’italiano settecentesco «la serie dei personali atoni gli/le/loro cede abbastanza spesso a causa della sovraestensione di gli per il plurale – forte di una tradizione secolare e di uno statuto normativo relativamente recente – e per il femminile singolare». 56 Altri esempi: «ne avesser fatto l’uso che li paresse» 7.3, «secondo che li venivano alle mani» 10.44. 50 51 90 dall’uso dialettale – oltreché, probabilmente, dal nascente italiano regionale – l’uso di ci clitico per il dativo (in luogo di gli del toscano letterario, tipo somministrarcele 11.14 per ‘somministragliele’ 57), mentre l’uso del pronome gli per l’oggetto diretto plurale (‘loro’) e dell’identica forma per l’oggetto indiretto (‘a loro’) favorisce probabilmente la formazione della sequenza di clitici “se riflessivo + gli dativo” (tipo: «se gl’imponeva» 58), che è anche del toscano antico e ha dunque una certa sopravvivenza nell’italiano letterario, ma è qui probabilmente favorita dal modello dialettale 59. Nella sequenza dei pronomi personali “dativo + accusativo” in enclisi, normale nell’uso toscano post-trecentesco, si nota peraltro il ricorso alla forma mi per il tipo mandarmigli ‘mandarmeli’: tratto non tipicamente napoletano, ma caratteristico di scritture a vario titolo popolari di epoca precedente 60. Meno inconsueto (si tratta infatti di un tipo largamente diffuso nella prosa italiana) l’uso di chi in luogo di cui in dipendenza da preposizioni (di chi, a chi, da chi) 61. Morfologia verbale. Se poco significativi sono gl’imperfetti con dileguo di -v – del tipo di avea, doveano, movea, potea, comunissimi nella pro57 Esempi: «avendogli la morte impedito di poterci porre l’ultima mano» 2.1.10, «era proprio e più conveniente che io, di persona, andassi a presentarcela» 5.1.16, «fui dal medesimo a presentarcene uno» 5.1.35, «che avrei avuto l’onore di presentarcelo» 5.1.62, «di cui era il pensiero di darci quelle risposte che gli pareva» 6.1.3, «Con premura mi raccomandò di farcelo pervenire» 10.5, «sopra il mio memoriale non poteva il re Carlo darci provvidenza» 10.11, «il Pitteri negava di darceli» 10.56, «ce la diedi» 11.13. 58 Esempi: «se gli era dato» 6.1, «se gli dovesse fare» 6.1, «al Riccardi se gli pagavano novemila» 6.1, «bolla, che se gli dà nome di concordato» 6.2, «affinché se gli desse l’apertura di propormi a Sua Maestà» 7.1, «i tanti memoriali, che alla giornata se gli presentavano» 8.1, «il ritratto, che se gli mandò» 8.3, «Le nuove giunte ed annotazioni se gli promisero» 8.3, «che se gli sarebbero mandate» 8.3, «a questo nuovo principe se gli dava il titolo di re» 8.6, «perché se gli prestasse maggior fede» 8.6, «se gli era accordato il passaggio per li suoi Stati» 9.2, «Presto se gli rese quel di Sant’Ermo» 9.11, «a’ Milanesi, Napolitani e Siciliani se gli dava licenza di tornarsene» 9.25, «con quella autorità e riverenza che se gli prestava» 11.17, «se gli imponeva d’eseguirlo» 11.42, «fin che non se gli desse notizia» 11.46. 59 Esempi: «se gl’imponeva» 11.42, «se gli desse» 7.1.7, «se gli presentavano» 8.1.2, «se gli rendesse soggetti» 8.6.16, «se gli dava il titolo» 8.6.17, dicendosegli 11.12, «se gli imponeva» 11.42, «se gli desse notizia» 11.46. 60 Esempi: mandarmigli 10.16, 11.14, prestarmigli 2.1, 2.2. Per la sequenza -migli “dativo+accusativo” nella LIZ ritrovo solo un esempio utile dalle Lettere di Alessandra Macinghi Strozzi. 61 Esempi: «Imperadore, a chi l’opera era stata dedicata» 5.1.1, «Cesare, a chi io avea l’opera consecrata» 5.1.32, «il reggente Solanes, a chi dovea darsi successore» 7.3.32, «gli antichi Etruschi (da chi l’appresero)» 8.4.18, «magistrato, a chi ciò si appartiene» 10.9, «in casa di chi io dimorava» 10.41. 91 sa italiana settecentesca 62, e la forma di prima plurale latineggiante eramo 3.1.1 ‘eravamo’ 63, meritano attenzione alcuni esempi di prima persona plurale dei perfetti forti (formati su analogia con il tema della prima persona singolare), come la rara condussimo 11.34 ‘conducemmo’, e le più comuni posimo 11.34, 11.37 ‘ponemmo’ e vidimo 10.79, 11.45 ‘vedemmo’ (queste ultime ricalcate sul latino) 64. Notevoli anche le forme di congiuntivo presente come dichi, facci, eschino, possino, alternative a quelle prescritte dalla tradizione grammaticale ma notoriamente endemiche nei registri popolari dell’italiano e nelle sue varietà regionali 65. Il condizionale dovriamo 5.2 è quasi certamente un napoletanismo 66; mentre sariamo 10.10 ‘saremmo’ ha una discontinua presenza nella tradizione, anche letteraria, d’epoca precedente, ma all’altezza del pieno Settecento doveva essere già connotato come marginale e di uso prevalentemente popolare 67. Da registrare, infine, in questa rassegna di tratti morfologici inconsueti e a vario titolo anticlassici (ossia antipuristici) anche un participio passato come porgiutami, che non manca di qualche parallelo in testi letterari d’età precedente, e in questo caso è forse influenzato da simili forme dialettali 68; se «di tradizione toscana, insieme letteraria e popolare» è «il cosiddetto participio accorciato per i verbi della pri62 Cfr. Patota 1987, pp. 196-205; a p. 205 in particolare: «nella prosa del secondo Settecento, in alcuni verbi di largo uso, la forma d’imperfetto con dileguo della labiodentale è molto comune e diafasicamente neutra. L’uso di forme come avea, e poi di parea, dicea, ecc. è troppo esteso per poter essere ricondotto a motivazioni stilistiche. Invece, chi fra gli scrittori estende l’uscita in -ea a tutte, o a quasi tutte le forme verbali, connota la sua prosa in senso alto: queste forme erano pur sempre più familiari al linguaggio della poesia che a quello della prosa». 63 I grammatici sei-settecenteschi la consideravano forma “bassa”, cfr. Corticelli 1775, p. 68: «Noi eramo per eravamo, voi eri per eravate si usano, dice il Buommattei, solo in parlando, o scrivendo famigliarmente, e alla dimestica» (cfr. Buommattei 2007, p. 323). 64 La LIZ[700] offre per posimo un esempio dalla Vita alfieriana, per rilussero uno dal «Caffè» (Gianrinaldo Carli; nessun altro esempio settecentesco per rilusse); nessuna occorrenza per vidimo, che però è forma ben presente in testi ottocenteschi, da Tommaseo a Nievo, da Verga a Dossi. 65 Cfr. Antonelli 1996, p. 165: «nel Settecento queste violazioni della norma grammaticale “sono largamente diffuse” e attestate anche in puristi come il Di Capua e il Becelli», con rimando a Migliorini 1960, p. 540. 66 Segnalo un dovriamo nel numero 3 del «Veditore repubblicano» di Napoli (1799), il cui testo è consultabile in internet nel sito www.repubblicanapoletana.it. 67 Corticelli 1775, pp. 68-69 elenca solo saria, sariano, sarieno come forme alternative per i condizionali sarebbe, sarebbero. 68 Cfr. Vitale 1986, p. 207, che ne rileva in buona quantità nel Di Capua: «non si dimentichi che i participi passati deboli in -uto sono vitalissimi nel napoletano, anche fra i verbi della iii classe». 92 ma classe» 69 come stanco ‘stancato’, decisamente illustre è invece il tipo rappresentato da rimaso 70. Se dunque l’esame della facies fonomorfologica della Vita rivela tratti di minore aderenza ai modelli toscanisti e puristi rispetto alla media della prosa napoletana del primo Settecento, un’impressione di ancor maggiore anomalismo e anticlassicismo comunicano i caratteri della sintassi della Vita. Alcuni fenomeni microsintattici sono direttamente riconducibili all’influsso del dialetto napoletano: ad esempio, il ricorso – in almeno un caso – alla costruzione in cui l’oggetto diretto personale è introdotto dalla preposizione a: «avvisai intanto a Napoli a mio fratello» ii.117; e ancora, lo sporadico uso di tenere in luogo di avere (nell’accezione di ‘possedere’ o ‘mantenere’: «Teneva un suo fratello arcivescovo» 5,1.67 71) e di stare per essere («il quale, stando inteso di tutto, poteva darmi sano consiglio di ciò che dovessi fare» 11.8 72). Forse influenzato dal dialetto napoletano è anche l’uso di avere con i verbi pronominali, sebbene si tratti di un tipo sintattico discretamente diffuso già in italiano antico e piuttosto frequente in quello settecentesco («s’han meritata» ii.109 73); simile il caso di avere come ausiliare di piacere: «averle piaciuta» 5.1.65, che pure si ritrova in vari altri prosatori coevi di diversa provenienza 74. Caratteristici, come si è visto, dell’italiano settecentesco sono alcuni costrutti che, pur essendo attestati nella tradizione letteraria dei secoli precedenti, conoscono allora una particolare fortuna: è il caso della perifrasi pronominale «il di lui», consueta nella lingua letteraria almeno dal Cinquecento, ma particolarmente frequente a partire dal secolo XVII, e più Ibid., con rimando a Cinonio 1722, p. 14: «E quantunque simile uso, ci sia dai poeti venuto, i quali per accorciar ne’ loro versi voci sì fatte; diedero lor un tal fine, dalla loro naturale terminazione diverso, i Prosatori ancor essi ad imitazione se ne sono serviti». 70 Esempi: stanchi 2.1, 3.3, 8.1, rimasa 3.2 bis, 6.1, 8.4, 8.6, 10.41, 10.70; per esempi napoletani cfr. Vitale 1986, p. 207. 71 Altri esempi: «tenendo egli un giardino» 7.1.3, «tenessi pazienza» 7.3.28, «la Scrittura santa del nuovo e del vecchio Testamento, che teneva tradotta in lingua alemanna» 9.42. 72 Cfr. Rohlfs 1969, § 733. 73 Altri esempi: «mi avrei consumato» ii.117, «aveasi acquistato» ii.196, «aveasi acquistata». Cfr. Rohlfs 1969, § 731; inoltre Serianni 1998, p. 222; per simili costrutti nei testi di Leonardo di Capua, cfr. Vitale 1986, p. 212, che annota: «il Cinonio, Trattato de’ verbi, p. 65 s. considera l’uso come proprio della lingua; ivi è riprovato l’impiego di avere come ausiliare nel caso degli intransiviti pronominali, anche contro le testimonianze degli antichi». 74 Nella LIZ[700] si ricavano esempi dello stesso costrutto in Goldoni (Il matrimonio per concorso, I.17.21, Gli amanti timidi, Prefazione, 3) e in Alfieri (Del principe e delle lettere e Vita). 69 93 ancora nella prosa del XVIII, nella quale «conquista piena cittadinanza nel panorama letterario» 75; o ancora, per la sintassi verbale, dei costrutti preposizionali con il gerundio e con l’infinito (rispettivamente: in leggendo e in camminare 76, e affini), che ritroveremo in vari altri autori dell’epoca e la cui fortuna fu forse almeno in parte influenzata dai corrispondenti francesi. Genericamente aulica e letteraria è poi la «distanziazione della preposizione di rezione dal verbo retto», attestata con una certa frequenza nei capuisti napoletani, e qui presente in costrutti con avverbio come «per maggiormente invilupparle» Proem.4, «di cortesemente ricevergli» 5.1.1 77. La Vita giannoniana presenta in gran copia varie figure sintattiche che, marginali nella lingua della tradizione letteraria, sono generalmente riconducibili al parlato, o a uno scritto dall’andamento malcerto. Sebbene si tratti di fenomeni sporadicamente attestati anche in testi letterari canonici, colpisce nell’autobiografia giannoniana la loro frequenza e la loro varietà, ben maggiori che in qualsiasi scritto letterario coevo: è il caso, ad esempio, di taluni cambi di soggetto («fu il primo ad illuminarmi e, per suo mezzo, ad acquistar conoscenza de’ primi e più rinomati professori e letterati della città suoi amici» 2.1.2: dove il soggetto di acquistar coincide con l’oggetto del verbo illuminarmi ad esso coordinato) 78; o del costrutto focalizzante 75 Palermo 1998, p. 27, che alla pagina successiva aggiunge: «la costruzione è dominante nei protagonisti della stagione illuministica, dagli intellettuali napoletani agli animatori lombardi del “Caffè”», e ancora: «è difficile dire quanto la presenza del tipo in Giannone e in Genovesi sia da considerarsi l’inconsapevole fardello di una formazione non strettamente letteraria o piuttosto un modulo usato consapevolmente in funzione innovativa»: ma per Giannone tale consapevolezza parrebbe da escludere. Di fatto, il napoletano S. Alfonso M. de’ Liguori scrive nei suoi Avvertimenti: «In tutti poi i casi obliqui si dice lui, lei, cui ed altrui, dicendosi il di lui valore, la di lei bontà, benché può dirsi ancora il cui merito e ’l di cui merito» (Librandi 1984, p. 15). 76 Esempi: «in leggendo» Proemio.4, «in investigando» 3.2, «in passando» Proemio.4, 3.2, 5.1, 9.19, 10.79, 11.71, «in aspettandolo» 7.2, «in riandando» 10.25; «in camminare» 2.2, 4.2, «in emendare e corrigere» 4.2, «in concederla» 4.3, «con eleggermi» 5.1, «con preparar» 5.1, «in sentirla» 6.1, «con trarne profitto» 6.2, «per essere gesuita» 7.2, «in sentire» 7.2, «in vedere» 7.3 (2 volte), 8.1, 11.31, «in dire» 5.1, 9.2, «in pazientemente tollerare» 9.4, «in maledire» 9.46. 77 Altri esempi: «per nettamente capirlo» 2.1.15, «per maggiormente attendere» 3.1.9, «di maggiormente mostrare» 4.2.7, «per maggiormente istigare» 5.1.4, «di fisicamente guardargli» 5.1.38, «a separatamente manifestare» 5.1.47, «a separatamente additare» 5.1.48, «di semplicemente proibirla» 6.1.5, «per maggiormente rendermi» 8.2.7, «di altrimente pensare» 8.6.24, «di maggiormente arricchire» 10.32, «per maggiormente atterrirli» 11.42. Cfr. Vitale 1986, p. 221. 78 Altri esempi: «e che uno, che procurai stradarne, la persona a cui fu mandato non l’ave- 94 della dislocazione a sinistra, in cui un complemento viene spostato alla sinistra della frase (ossia anticipato), e ripreso da un clitico 79. Frequente anche la coordinazione di complementi (in particolare l’oggetto o un predicativo) in dipendenza da verba dicendi o affini con subordinate dichiarative, che sembra risultare da una riprogrammazione del periodo, con effetto di brusca discontinuità sintattica («mi sollevò dal fango e, postomi nella dritta via, mi additò il segno verso dove dovea incamminarmi; e che, per poterci arrivare, era mestieri cambiar maestro ed apprender la giurisprudenza non già dalle pozzanchere...» 2.1.2; «incolpandomi d’ingiurioso alla Santa Sede, e che meritassi severo castigo» 5.1.9 80). Analogo il caso in cui ad essere coordinate siano una subordinata implicita e una esplicita (di nuovo una dichiarativa): «Onde mi consigliò a rimanere, anzi che stimava che io mi fossi scoverto al gran cancelliere, ed ella avrebbe mandato il suo secretario» 10.66. va fatto veder luce di sole, tenendoselo nascosto, come se avesse un serpente»; «Or il marchese, ciò che importuna morte gli tolse, volea risarcir la perdita per quest’altra via». 79 Gli esempi abbondano per vari tipi di complementi: «Al marchese di Rialp, secretario di Stato e del dispaccio universale di Spagna, glielo presentai pure» 5.1.37, «di simili lettere, scritte di suo carattere, ne aveva empito Napoli e Benevento» 6.1.2, «Fu fama che la spesa l’avesse somministrata» 7.2.2, «di questi ne fece una compagnia» 9.5, «io dovessi fra quelle orride montagne passarci l’inverno» 11.64; «La mia domanda Sua Maestà la riputò giusta» 7.3.18. Simile il caso in cui un’analoga ridondanza pronominale riguardi la subordinata relativa: «questioni vane ed astratte, delle quali, dopo essersi lungamente affaticati, ne sapranno molto meno che prima» Proem.4; «del di cui nome e beneficenza non potrò mai dimenticarmene» 2.1.2; «dalla quale non ne fui smosso» 2.2.5; «sopra le prestazioni delle decime, che le voleva ecclesiastiche e dovute al vescovo» 4.2.3; «Teressa di Leichsenhoffen, alla quale, essendo morto il marito, che fu consigliero della Camera di Gratz, bisognò darle ricetto in sua casa» 5.1.60; «ci guadagnava mille fiori l’anno, che avrebbe potuto impiegargli ad altro uso» 7.3.26; «della quale ne fosse capace» 8.6.8; «dalla quale un medico ebreo di Rovigo me ne liberò» 9.69; «delle quali ne faceva raccolta» 11.17. 80 Altri esempi: «se ne mostrarono soddisfatti, e che non bisognava farci altro» 5.1.57; «dichiarandosene Egli particolare re e signore, e che da questo popolo dovesse sorgere al mondo il suo liberatore» 8.4.22; «Ma il basso concetto che s’avea delle forze di quel regno, e che non v’era da temere che l’impresa non vosse riuscita, massimamente per essersi congiunte le forze dell’Imperadrice di Moscovia, la qual mal volentieri soffriva che Stanislao regnasse in Polonia, fecer sì, nulla curando de’ mali che potevan da ciò nascere, avendosi per lontani ed impossibili – che scovertamente s’indirizzassero i mezzi a questo fine» 8.5.1; «Ed i Siciliani, avendo innanzi gli occhi l’esempio di Napoli e che gli Spagnoli aveano ne’ mari di Napoli navi e vasclli bastanti per intraprenderne l’acquisto» 9.15; «ne mostrò compiacenza e che volentieri mi avrebbe parlato» 10.67. Alcuni di questi esempi sembrano riconducibili al tipo delle preposizioni coordinate a una secondaria introdotte da che, documentate in alcuni prosatori settentrionali sette-ottocenteschi da Serianni 1988 e collegabili a costrutti ancor più antichi: ma l’uso giannoniano appare ben più libero, e slegato dalle condizioni tipiche di questo costrutto individuate da Serianni in altri autori. 95 In alcuni casi, poi, il costrutto che abbiamo appena esemplificato sfuma nel più comune – pur se anch’esso antiletterario e antinormativo – tipo sintattico con che usato come nesso relativo generico (riferito qui al soggetto di era dimorato): Non meno l’ambasciador di Spagna che quello di Francia rimaser sorpresi dalla proibizione che si faceva ad un naturale del Regno di non potersi ritirare in sua patria, quando di là non era uscito bandito o esiliato, ma per portarsi all’imperial corte di Vienna, a’ piedi dell’Imperadore, allora sua sovrano, dal quale era stato benignamente accolto e mantenuto nella sua corte, con assicurargli certo stipendio; dov’era dimorato per undici anni e tre mesi, e che ancor ivi sarebbe, se la mutazione de’ domini e Stati d’Italia non avesser cambiate le cose. 9.59 Vari elementi sintattici sono poi riconducibili all’influenza del latino. Tale è ad esempio il caso delle frasi che ricalcano il costrutto dell’accusativo con l’infinito, piuttosto frequenti («s’incontrarono esser dotati di somma probità e che sapevano la vera chiesa essere i poveri», dove la costruzione è addirittura iterata 81); latineggiante, ma più raro del tipo appena mostrato, è anche l’uso dell’infinito narrativo in una sequenza come: «ree novelle: essere disposta a rendersi, sicome, all’apparir dell’armata navale spagnola, tosto Palermo fu resa, e così, di mano in mano, facevan l’altre città e piazze di quel regno» 9.26. Più ancora di simili minuti fatti sintattici, il latinismo sembra agire nella generale gestione della struttura periodale, dominata da una complessità che interpreti moderni hanno ricondotto all’incombenza di un modello, la lactea ubertas di Tito Livio: autore certo apprezzato dal Giannone, ma forse non così determinante nella sua formazione stilistica 82. Più probabile, in realtà, che ad agire su di lui sia ancora una volta l’abitudine al periodare marcatamente ipotattico tipico del latino accademico e in particolare giuridico. A condizionare il tracciato della sintassi giannoniana sembra in81 Altri esempi: «Nel mio arrivo in Vienna, trovai l’Imperadore con sua corte essere a Laxenburg, villaggio dalla città lontano dodici miglia» 5.1.31, «Compresi ... Iddio averlo mandato per redimere l’uman genere dal peccato» 8.6.2, «saper questo, dicea Tertulliano, esser il vero sapere» 8.6.11, «Ancorché crescesse la fama le truppe francesi muoversi per lo Delfinato verso l’Italia, non era attesa» 8.6.28. 82 Scrive Giannantonio 1970, p. 16, con riferimento all’Istoria civile: «All’insegnamento liviano sono da ricondurre l’indagine psicologica sui grandi protagonisti, i rapidi tocchi sui costumi del tempo... Ma per quanto riguarda la forma stilistica, il calco liviano è presente nell’ampio periodare, nella scelta aggettivazione, nell’indovinata concatenazione di principali e di subordinate, nella variatio lessicale e sintattica». 96 somma la dimestichezza con moduli sintattici genericamente latini – più che specificamente liviani – come appare chiaro nei periodi in cui lunghe serie di subordinate sono aperte da una causale esplicita, con movenza simile a quella delle frasi introdotte da cum: E poiché, fra l’altre prerogative che seco porta la giubilazione, è di rimanere ad arbitrio del giubilato d’eleggersi un convento che fosse di suo piacere, per menar ivi il rimanente di sua vita in quiete e riposo, questi, ch’era naturale del luogo, s’elesse il convento de’ suoi frati, costrutto da antichissimi tempi in Ischitella sua patria, e quivi venne a dimorare. 1.3 A una generale propensione per le strutture sintattiche più complesse rimonta anche la costante tendenza a moltiplicare gli elementi incidentali, e in particolare le subordinate gerundiali con valore causale, tipiche del linguaggio giuridico: Egli, se ben come poeta, per conformarsi alla sua nazione avida del maraviglioso e sorprendente, a dii celesti aggiunga gl’infernali – Cocito, Plutone e Flegetonte e simili ciance de’ favolosi poeti – nulladimanco del morire, come sapiente, ebbe l’antico concetto degli altri antichi savi, paragonando il morir degli uomini alle foglie d’alberi, le quali, scosse al fin d’autunno e cadute a terra, non più risorgon esse, ma altre nella primavera in lor vece rinascono. 8.4.15 E scorgendo gli Spagnoli che a’ Tedeschi nulla caleva la perdita de’ regni di Napoli e di Sicilia, e più volte sentendo colle proprie loro orecchie le voci di molti, che sicome erano stati buoni ad esaurirgli, così pensassero ora a difendergli, il marchese di Rialp pensò, finalmente, ad una difesa pur troppo ingegnosa e valida 9.4 Or come io, commemorando queste insigni virtù che l’ornavano, potrò contenermi dalle lagrime, avendomi il duro mio fato diviso da persona cotanto cara ed amabile, ed averla dovuto lasciare, forse in pericolo di non tornar all’antiche miserie, senza che io, da sì lontani paesi ov’era incamminato, potessi sovvenirla e sottrarla da qualche necessità, dove il suo e il mio crudel destino potesse condurla? 9.45 Vario ed espressivisticamente connotato è poi il lessico. All’influsso del linguaggio forense si deve l’abbondanza di latinismi, specie giudirici, come estorquendo 4.1.3, 5.1.19, palmario 4.2.13 ‘somma aggiunta all’onorario’, espilata 6.1.11 ‘derubata’ 83, inquirere 7.3.39, reddizione 11.7 ‘restituzione’, incolato 11.67 ‘abitato’, e inoltre il meno raro – e meno connota83 Nel nesso «espilata eredità», che è quello in cui di norma il termine compare nel linguaggio giuridico (così ad esempio nel De Luca citato come primo esempio dal GDLI s.v.): cfr. anche, per l’uso settecentesco, Tomasin 2001, p. 197 (con riferimento al diritto veneto). 97 to – quartali 7.3.12, 7.3.16, 7.3.20, 7.3.23, 9.30 ‘rate di un pagamento’ 84. Di diversa origine altri latinismi come politia ‘politica’ 85, voce e accezione diffusi in italiano a partire dal Settecento 86, o i più comuni cultismi fluviatili 9.64 87 e spicilegio 4.1.3, 6.1.18. L’aggettivo trasonico ‘proprio di un millantatore’ e l’astratto trasoneria ‘millanteria’ 9.59 sono cultismi rari di cui, come si è visto, Giannone fa uso anche nella scrittura epistolare 88. Relativamente inconsueti, nella Vita, i termini, le locuzioni e i sintagmi latini di cui spesseggia tradizionalmente l’eloquio avvocatesco, non solo napoletano: «andato su la faccia del luogo, in re presenti maggiormente si conobbe questa verità» 100, «a qual fine, cui bono, l’Imperadore si fosse mosso» 8.5.1, «A qual fine, cui bono, dovean essere traditori» 9.9. Se complessivamente rari sono i calchi diretti dal francese (come di vantaggio 134 ecc., di rimarco 6.1.16) e altrettanto occasionali le tessere lessicali spagnole (la locuzione di repente 9.11 o il participio accreanzate 6.2.5), cospicuo è invece l’insieme del napoletanismi: està 89 è, come si è detto, termine anche vichiano; caratteristicamente meridionali sono poi il sostantivo percantazioni ‘incantesimi’ 90, spasseggiare 5.2.8, 11.52 e spasseggiato 10.34 (napoletano spassià), e probabilmente influenzato dalla corrispondente forma del dialetto locale anche sparamiar 3.1.11 (napoletano sparagnare). Tipicamente giannoniani, e forse favoriti dal concorso di cultismo e dialettalismo, sono anche l’aggettivo vafro ‘astuto, accorto’ 5.1.19 e l’astratto vafrizie 10.27 91. Ancor più notevole è il contingente di termini in vario modo espressivi, alcuni dei quali probabilmente coniati dall’autore stesso (poco significativa è, in effetti, l’occasionale attestazione in autori precedenti) come i Gli esempi più antichi riportati dal GDLI sono dello Zeno e, appunto, del Giannone. Occ.: 2.1.16, 2.1.18, 4.3.3, 5.1.2 bis, 5.1.4, 5.1.47, 6.2.28 bis, 9.70. 86 L’esempio più antico riportato dal GDLI proviene dall’epistolario fra Pietro Ercole Gherardi e il Muratori. 87 Nella LIZ, l’unica occ. anteriore a Giannone proviene dall’Hypnerotomachia Poliphili; e i successivi sono in D’Annunzio; più abbondanti (e cronologicamente più estesi) gli esempi del GDLI, a partire dal Citolini. 88 Il GDLI riporta esempi a partire dal secolo XVI (Varchi). Il riferimento è al Trasone protagonista dell’Eunuchus di Terenzio. 89 Occ.: 4.2.17, 5.1.61, 5.1.65, 5.2.2., 5.2.12, 5.2.12, 5.2.13, 6.1.29, 9.62, 9.64, 10.18, 11.60, 11.61. 90 Anche il GDLI segnala s.v. percantare «voce di area meridionale (in particolare napoletana: percantà)», cfr. infatti D’Ambra 1873 s.v. percantare. 91 Il GDLI attesta le due voci nel solo Giannone, e nota, s.v. vafro: «corrisponde alle forme abruzzesi vafrë, vafronë, e al calabrese mafrunì». 84 85 98 parasintetici illetarghito 7.2.10, 7.3.32 92 e istraricchire 10.20 93, o propri di un registro comico-realistico come il sostantivo mellonaggini 7.3.34 ‘scemenze’ 94, l’aggettivo ristucchevole 2.1.10 95 o il nesso, direttamente prelevato dal Boccaccio, «picchiapetto e spigolistra» 10.29 ‘bigotto e baciapile’ 96. La propensione per i tratti linguistici vivacemente connotanti si esprime in generale in un’aggettivazione sovrabbondante, e spesso anche nel ricorso a descrizioni come quella dell’avvocato napoletano presso il quale il giovane Giannone inizia il suo tirocinio, caratterizzata dalla ripetizione di aggettivi e sostantivi alterati (illitteratissimo, libracci, volumacci) e da particolari pittoreschi: Era un puro forense, sprovvisto di ogni altra cognizione, illitteratissimo e che appena sentiva il goffo latino de’ volumacci forenzi, inetto nel parlar le cause nelle Ruote e molto più nello scrivere e nel comporre allegazioni legali, ancorché forensi, del quale non se n’era veduta alcuna che meritasse essere letta. Aggiungevasi che, seguitandolo io la mattina ne’ tribunali, il dopo desinare andando in sua casa per studiare nella di lui libraria, non ci trovai se non libracci insipidi e sciapiti, tutti forensi; ed io, che non voleva perdere i mie’ studi, fatti sopra autori eruditi e classici, soffriva per ciò una gran pena. Fra tanti volumacci non vi ravvisai che i tomi di Antonio Fabro, che stavano ivi condennati per non essere mai aperti, coverti di polvere e di tele di ragni. 3.1.3 La coloritura espressiva è ancor più accentuata nei molti brani dedicati ai persecutori politici e religiosi di Giannone, cioè ai «campioni ... maligni non meno che ignoranti» che tramano contro di lui servendosi di calunnie e dicerie riferite dall’autore con termini ironicamente realistici («frittole o focacce»): Il GDLI riporta esempi a partire dal secentista Gregorio Leti. La LIZ riporta esempi precedenti da Doni e Bandello; il GDLI ne ha anche da Genovesi e da Girolamo Frachetta (autore morto a Napoli nel 1620), il che fa sospettare una particolare diffusione regionale della voce. 94 Già boccacciano nella locuzione mellonaggine da legnaia, il termine è particolarmente frequente, teste il GDLI, nella letteratura toscana argentea (Firenzuola, Cecchi, ecc.). 95 Il GDLI riporta esempi a partire dal Soderini. 96 Il nesso è qui riferito al nunzio apostolico a Venezia, monsignor Oddi. Il corrispondente passo boccacciano è nella novella di Pietro di Vinciolo, Decameron V.10.20: «io starei pur bene se tu alla moglie d’Ercolano mi volessi agguagliare, la quale è una vecchia picchiapetto spigolistra». L’etimologia di spigolistro – termine ben attestato nella letteratura dei primi secoli – è incerto: forse da spigolo (ma con quale significato?). 92 93 99 Ma nell’istesso tempo che in Roma questi campioni si accingevano all’impresa, non si tralasciavano i mali uffici alla corte di Vienna, ascrivendo a me ciò ch’essi facevano. Il marchese di Rialp mi disse che veniva scritto, che io in Vienna preparava un altro libro, per darlo presto alla luce. Non potei contenermi in rispondergli, che mal conoscevano questi maligni non meno che ignoranti quanto duro e difficil fosse il dar libri alle stampe, giacché immaginavano che io, in mezzo a tanti travagli ed angosce, fosse in istato di stampar libri, che forse si credevano che fosser frittole o focacce. 6.1.9 Ben più di qualsiasi autobiografo primosettecentesco, Giannone ricorre spesso ad espressioni proverbiali e a locuzioni popolaresche, talora comuni all’italiano e a svariati dialetti. Ad esempio: «io l’avrei reso pan per focaccia» 6.1.9 97; «andassero a ruba e saccomanno» 7.3.37 98; «era a pel rovescio ben pelato monsignore» 6.1.11; «assuefatti a mangiar a due ganasce» 6.2.37 99; «non gli rispondeva, ma facevagli un viso, per valermi delle sue parole, d’una vacca che piscia» 7.2.11. Se quasi nessun analogo tratto espressivo si riscontra nella prosa composta e magniloquente dell’Istoria civile, è chiaro che tale differenza dipende sia dalla diversità di genere fra le due opere, sia – ancora una volta – dall’incompiutezza e dalla mancata revisione dell’autobiografia. Nell’Istoria civile si osserva la tendenza ad un respiro periodale ampio e solenne, ma in genere non soggetto a quelle forze centrifughe che, nella Vita, sfaldano di continuo la coerenza sintattica, né alla frequente comparsa di voci dialettali o colloquiali. Ecco un passo dalla Introduzione dell’Istoria, nella quale si può supporre un particolare impegno stilistico da parte dell’autore, e una occhiuta attenzione da parte del revisore: [L’Istoria] conterà nel corso poco men di quindici secoli i varii stati ed i cambiamenti del suo governo civile sotto tanti prìncipi che lo dominarono; e per quanti gradi giugnesse in fine a quello stato in cui oggi ’l veggiamo: come variossi per la polizia ecclesiastica in esso introdotta, e per gli suoi regolamenti: qual uso ed autorità ebbonvi le leggi romane durante l’Imperio, e come poi dichinassero: le loro obblivioni, i ristoramenti e la varia fortuna delle tant’altre leggi introdotte da poi da varie nazioni: l’accademie, i tribunali, i magistrati, i giureconsulti, le signorie, gli uffici, gli ordini; in 97 Già boccacciano (Decameron V 10.6 e VIII 8.23), è di probabile origine toscana, ma largamente diffuso in autori di varia provenienza. 98 Per «mettere a saccomanno» il GDLI riporta esempi già da volgarizzamenti trecenteschi; anche «andare a ruba» è già trecentesco (esempi dal Boccaccio). 99 Numerosi esempi dal GDLI a partire dal Boccalini. 100 brieve, tutto ciò che alla forma del suo governo così politico e temporale, come ecclesiastico e spiritual s’appartiene 100. Altrove i caratteri di discontinuità e di irregolarità sintattica così evidenti nella Vita, emergono sporadicamente, e ben più tenuemente che nell’autobiografia, come nell’esempio che segue, con una dichiarativa («e che perciò procurasse») dipendente ad sensum da un verbo di opinione («attribuivano»), o forse addirittura da un verbo del periodo precedente («credettero»), di tipo analogo agli esempi visti sopra: Alcuni credettero che avendo sceleratissimamente ammazzato Teodosio, suo fratello, il quale sovente con immagini tetre e formidabili lo spaventava, agitato da sì funeste larve, procurasse allontanarsi da quella città e da que’ luoghi a lui già fatti odiosi e funesti. Altri attribuivano questa sua mossa all’odio che i Costantinopolitani portavangli per aver egli abbracciata l’eresia de’ Monoteliti, e che perciò procurasse traferir la sede dell’Imperio in Roma 101. Né mancano, nell’opera maggiore, taluni costrutti marcati assai frequenti anche nella Vita, come le dislocazioni a sinistra, che tuttavia in genere hanno un’evidenza e uno stacco, in termini di coesione sintattica, ben minori rispetto a quella. Ad esempio: Le possessioni ampissime che acquistarono non pur nel distretto delle loro città, ma anche in lontani paesi, onde tante rendite e frutti se ne ritraevano, le appellavano patrimonii, secondo l’uso di que’ tempi, ne’ quali le possessioni di qualunque famiglia e i retaggi pervenuti da’ loro maggiori si chiamavano il patrimonio di quella 102. Se dal piano propriamente linguistico si viene a quello stilistico, poi, la differenza della materia trattata si riflette naturalmente sull’assetto generale della narrazione. Pur passando spesso – come nel brano appena richiamato – dall’asettica descrizione della «polizia» (cioè della politeia, termine impiegato costantemente da Giannone, che lo eredita forse dalla trattatistica politica seicentesca, nonostante il suo uso in accezione simile sia ben più anticamente attestato in italiano 103) civile ed ecclesiastica alle vicende personali, e talora intime, dei protagonisti della politica napoletana, l’Isto100 Cfr. Giannone 1840, t. I, p. 12. Ibid., t. II, p. 280. 102 Ibid., t. II, p. 333. 103 Il GDLI riporta esempi già dal Buti e dal commento dantesco dell’Anonimo fiorentino del sec. XIV. 101 101 ria manca, in generale, di quel tono di accorata partecipazione o addirittura di drammatica angoscia che caratterizza tante pagine della Vita. Le vicende della biografia pesano sull’evoluzione stilistica di Giannone, come sul suo percorso ideologico, al punto che per trovare toni di deformante e ironica espressività comparabili con quelli della Vita si deve guardare – oltre che a scritti privati e naturalmente ormeggianti la spontaneità del parlato come le lettere – all’appassionata Apologia dell’Istoria civile stesa in varie fasi negli anni Venti, nonché la parodistica e sferzante Professione di fede redatta nel 1728 e indirizzata al gesuita Giuseppe Sanfelice 104. Giannone riprende qui in forma di memoriale la disputa sui limiti della podestà papale, ed elenca gli «errori» e le proposizioni ereticali imputate all’autore della Istoria civile dal censore; fingendo di «purgarle» con atteggiamento di umile sottomissione, egli le alimenta in realtà di nuove poderose argomentazioni storiche, giustificandole con la necessità di esporre dettagliatamente e di chiarire il proprio pensiero. Proprio come accade nella Vita (soprattutto nella prima parte), ogni volta che l’andamento ironico e antifrastico delle dichiarazioni giannoniane cede il passo all’aperto affondo polemico contro il censore, al tono sostenuto e quasi accademico dell’esposizione – fittissima di citazioni da testi canonici e dotti rimandi storici, teologici e giuridici – subentra la cruda espressività di grevi espressioni metaforiche: «Se più d’appresso aveste poi bene scorti i miei andamenti e la mia indole... non avreste avuto bisogno di ricorrere, come il cane o il villano dopo la percossa, a’ digrigni, agli urli e alle contumelie»; «di quanto in quello sia accaduto, non ne sapete nulla, e ci state dentro sol per lasciarci letame» (p. 49). E se anche altrove, nel testo, la compostezza argomentativa lascia spazio a qualche espressione colloquiale («chi più ne ha, più ne metta», p. 40; «entrar in briga», p. 49), lo stesso autore si premura di giustificare maliziosamente tali asprezze stilistiche con l’influsso delle abitudini tipiche di certo linguaggio avvocatesco: «Scusi la P. V. se queste frasi le sembrassero un poco goffe, perché essendo io un misero curialetto, non so allontanarmi dalle consuete formole nostre forensi». Excusatio ripetibile ancora nella Vita, se le condizioni in cui egli la scrisse fosse104 Sull’Apologia cfr. Costa 1998, p. 333: «subì una profonda rielaborazione negli anni 1724-1725, quando l’autore la fuse con altri suoi scritti. Sebbene si guardasse bene dal farla stampare, Giannone volle farla circolare in varie copie manoscritte: fu pubblicata, insieme con la Professione di fede, nelle Opere postume». Il testo della Professione è stato edito da ultimo da Giulio De Martino in Giannone 1998, III, pp. 37-63, traendolo da Giannone 1842, XIII, pp. 5-30. 102 ro state analoghe a quelle in cui egli compose la Professione di fede, nel pieno di una battaglia ideale non ancora conclusa con la sua sconfitta. 4. Le due autobiografie di Genovesi Antonio Genovesi (o Genovese, com’egli si appella sempre nelle opere conservate da manoscritti autografi 105) scrisse due autobiografie. La prima (modernamente indicata come Autobiografia I) redatta nel 1750 e con tutta evidenza non composta in vista di una pubblicazione; la seconda (Autobiografia II) stesa fra il 1755 e l’inizio del 1756, e probabilmente destinata alla divulgazione, ma poi rimasta inedita al pari dell’altra 106. I manoscritti di entrambe, apparentemente autografi, sono conservati presso l’Archivio, Biblioteca e Museo civico di Altamura, dove giunsero con il lascito della famiglia Serena di Lapigio. I due scritti – entrambi redatti nella forma tipica degli analoghi testi del primo Settecento, cioè in terza persona – furono dunque composti rispettivamente a trentasette e a quarantadue anni: circostanza che le distingue dalle altre opere di cui abbiamo fin qui discorso, scritte da autori ben più anziani. Si tratta, in effetti, di testi accostabili alla tradizione della memorialistica privata e familiare, assai fiorente nella Napoli seisettecentesca, più che a quella, tipicamente settecentesca, della Vita come opera composta «per servire» all’utilità e all’informazione della repubblica letteraria 107. A rendere l’esperienza del Genovesi diversa e peculiare rispetto a quella dei due grandi autobiografi conterranei e contemporanei, 105 La forma Genovesi prevarrebbe invece nelle stampe, secondo quanto osservano concordemente Franco Venturi (in Genovesi 1962, p. 46), e Gennaro Savarese (in Genovesi 1962, p. 5) sulla scorta di Cutolo 1924. Si tratta ovviamente di oscillazioni normalissime nel Settecento, per cui è senz’altro da accogliere l’osservazione di Luigi Einaudi riportata dallo stesso Venturi: «poiché nei frontispizi dei libri suoi il Genovesi usò sempre la forma in i, e i suoi amici e discepoli ... sempre scrissero Genovesi, è una pedanteria erudita mutare la grafia di un nome glorioso, consacrato dal tempo e dall’uso universale» («La riforma sociale», XXXVIII (1927), pp. 379-80). 106 Entrambe furono in effetti riscoperte e date alle stampe solo nel secolo scorso; l’Autobiografia II, conservata manoscritta fra le carte del barone Gennaro Serena di Lapigio fu edita da Cutolo 1924; l’Autobiografia I è stata pubblicata da Zambelli 1972. A quest’ultima edizione, pp. 797-860, si riferiscono i rimandi nelle successive citazioni dell’opera. 107 Cfr. Zambelli 1972, p. 15, che accenna alla copiosa produzione che si sviluppa «a partire da Francesco d’Andrea e dalle Memorie di Costantino Grimaldi per giungere ai diari e alle memorie redatti in più occasioni da Celestino Galiani, alle (...) pagine autobiografiche di P. M. Doria e alla Vita scritta dal Giannone». 103 Vico e Giannone, è anche la differenza di circostanze in cui furono scritte le due opere, nelle quali un’esigenza documentaria privata si unisce alla suggestione della lettura del Discorso sul metodo. L’Autobiografia I è ricca di notizie sulla formazione letteraria e linguistica dell’autore, oltreché sulle vicende che portarono all’istituzione della prima cattedra universitaria in lingua italiana, quella «scuola di commercio e di meccanica» voluta da Bartolomeo Intieri e da questi affidata al Genovesi 108. L’opera costituisce una sorta di analitica descrizione della «parabola degli studi, dalla sottigliezza e dal dogmatismo scolastico fino ai dubbi critici, alle letture dei moderni e alla ricerca d’una propria sintesi», e inoltre delle dispute teologiche e dottrinali che impegnarono il trentenne autore degli Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata (usciti nel 1743). Anziché dispiegare nella narrazione gli elementi autodifensivi (come nel modello del memoriale apologetico), Genovesi rievoca qui minutamente i colloqui e gli scritti in cui si era opposto “a caldo” alle accuse mossegli dagli avversari, costruendo una sorta di difesa en abîme delle proprie dottrine filosofiche. L’unica informazione relativa all’apprendimento linguistico riguarda lo studio del francese intrapreso «in qualche maniera» nel 1739 al fine di leggere le traduzioni della «celebre opera di Giovanni Loke» (p. 819), cioè la traduzione dell’Essay concerning Human Understanding nella versione di Pierre Coste rivista dallo stesso Locke e pubblicata nel 1700 (più tardi, Genovesi imparerà anche l’inglese, divenendo uno dei più attivi divulgatori della filosofia e delle teorie economiche elaborate Oltremanica): persino in una notizia così apparentemente inessenziale si riflette la concezione pragmatico-utilitaristica che egli ha nei confronti delle lingue naturali. Decisamente rari, nel primo testo autobiografico, i riferimenti alla vita privata dell’autore, gli aneddoti romanzeschi e le descrizioni dei caratteri fisici e psicologici di cui invece abbonderà l’Autobiografia II. Se la vicenda dell’amore per Angela Dragone, distesamente narrata nello scritto successivo, occupa qui poche righe reticenti, in un solo caso un episodio di per sé marginale nello svolgimento dell’autobiografia intellettuale dà luogo ad un’ampia parentesi quasi teatrale: allorché un frate si rivolge a Genovesi scambiandolo per un certo don Scipione e intimandogli di restituire l’onore a una fanciulla, l’autore alimenta maliziosamente l’equivoco prima di ri108 Sull’Intieri, oltre alla voce di Maria Fubini Leuzzi in DBI 62 (2004), pp. 521-24, cfr. Venturi 1969, pp. 553-55. 104 velarlo al religioso «non senza risa dell’uno e confusione dell’altro. Così finì la scena» (p. 835: e si noti l’impiego del termine teatrale). Ancorché non sottoposta a una revisione puntuale in vista di una pubblicazione, e caratterizzata da segni evidenti di incompiutezza, l’Autobiografia I è stilisticamente accurata e omogenea nell’architettura complessiva 109: il testo è scandito in brevissimi paragrafi costituiti in genere da meno d’una decina di periodi, con una netta preferenza per le soluzioni paratattiche. A congiungere i membri frasali sono sovente nessi che sottolineano il raccordo logico che governa la sequenza dei fatti narrati (analoghi a quelle «particelle e avverbi introduttivi e copulativi o conclusivi con un uso sempre più esteso» nell’italiano settecentesco, notati da Folena 110): «Il perché si pose a leggere la Scrittura Sacra colle osservazioni di Nicolò da Lura, senza però lasciare i studi umani»; «Perloché pubblicato il libro, partissi in villeggiatura» (p. 838); «Per la quale occasione ebbe l’onore di sua amicizia» (p. 847). Accanto alla costruzione letteraria e arcaizzante con anteposizione del verbo al soggetto («Nacque il nostro Antonio nel 1713 nella notte fra l’ultimo d’ottobre e ’l primo di novembre», p. 799, «era costui suo parente», p. 801), compare assai spesso la soluzione naturalis, nella quale non di rado il soggetto è indicato da un pronome anaforico, di gran lunga preferito alla sostituzione sinonimica o perifrastica: «Ella aveva quasi la stessa età, o qualch’anno di più» (p. 804); «Il che avvenne con gran dispiacere d’ambe le parti» (p. 804); «Egli ha raccolta moltissima materia e n’ha tessuto qualche capo: ma un’altra occupazione il frastornò dall’opera» (p. 819). Frequente è poi il caso in cui brevi frasi aventi come soggetto l’autoreprotagonista si susseguono serrate senza indicazione esplicita del soggetto, con un andamento simile a quello di rapidi appunti: Stava in questo quando s’intorbidarono i suoi affari. Aveva in questa dimora contratto amicizia con i primi galantuomini di Buccino, i quali per la sua egregia indole e 109 Sostanzialmente condivisibili le osservazioni di Zambelli 1972, pp. 797-98: «L’autografo risulta ... copiato frettolosamente e forse non rivisto dall’autore: si presenta cioè come un abbozzo che probabilmente fu abbandonato senza una revisione. Si vedano le parole rimaste tronche alla fine delle facciate 6v, 8v, quelle evidentemente saltate per un motivo di fretta (v. 8r tosto [fu] ad ascoltarlo; f. 10r due giorni [dopo], f. 13r a [cui] scrivono; f. 17r al [la] catedra; f. 19r alcune difficultà [di] metafisica; f. 19v dal[la] falda; f. 22r quel [che] sia), nonché lo stile trascurato». 110 Cfr. Folena 1983, p. 36, che aggiunge: «quello “riepilogativo” con riprese come cosa che..., fatto che... (...) si diffonde largamente nel Settecento, pur avendo notevoli premesse stilistiche nella prosa del Seicento». 105 speranza molto lo stimavano. Ma con niuna casa però aveva tanta dimestichezza, quanto con quelli di D. Marino Mauro, fratello di D. Carlo Mauro, ora Presidente di Camera. Stimolato dal giovane D. Francesco Mauro recitare in una commedia privata, s’addossò la parte di Servo accorto. (pp. 807-808). Aveva cent’anni addietro meditata un’opera ben grande e difficile, cui egli chiamava La Repubblica divina, nella quale, ad uso di Platone, voleva andare esaminando la vera religione secondo tutte le sue parti. Quando leggeva tutto là indirizzava. Per questo si pose ad una generale lettura di tutti i libri greci e latini, i quali poté avere nelle mani, e da tutti cavava congetture per l’opera sua, le quali scriveva ne’ zibaldoni, che sono fino a quest’ora molto cresciuti, e posso assicurare ch’egli avea fatte dell’ottime osservazioni (pp. 817-818). Nel secondo esempio citato, un narratore in prima persona emerge all’improvviso e del tutto isolatamente: un fenomeno simile si manifestava anche in una delle autobiografie muratoriane, ma se in quel caso lo scarto era probabilmente dovuto alla natura informale e di conseguenza incondita del testo, in Genovesi (che pure non scrive per essere stampato) potrebbe trattarsi di uno scherzoso ammiccamento, conforme all’andamento brillante e conversevole dello scritto. Difficile applicare a questo saggio autobiografico genovesiano la qualifica di «intralciato, languido, stiracchiato e scuro», che il Baretti riferì allo stile delle Meditazioni filosofiche sulla religione e sulla morale (e un giudizio non molto più clemente emetterà, due secoli dopo, persino uno storico come Franco Venturi a proposito degli scritti economici) 111; anche in quell’opera Genovesi esibisce in realtà quello stile spezzato tipico della scrittura di tanti illuministi italiani, che giusto fra i lettori più inflessibilmente tradizionalisti (tale era, e pur sui generis, anche Aristarco Scannabue) suscita più perplessità che plauso, e provoca disorientamento per la sua novità. Di «stile infrancescato» il medesimo Genovesi parlerà, del resto, a proposito delle proprie Lettere accademiche (che lo stesso autore sottopone a una minuziosa revisione anche linguistica nel passaggio dalla prima alla seconda edizione, in direzione letteraria e toscaneggiante 112), e 111 Per il giudizio di Baretti cfr. Serianni 1993, p. 529, con rimando a Puppo 1966, p. 215 (dove è notevole il confronto col Cellini, cioè col più celebre fra gli autobiografi rinascimentali). 112 Le linee di tendenza della revisione genovesiana delle Lettere accademiche sono ricavabili dal lavoro di Montariello 2004, che ha il pregio di riportare un prospetto completo delle varianti intervenute fra la prima e la seconda edizione dell’opera (varianti di cui l’autrice fornisce purtroppo un’analisi insoddisfacente, specie per quanto riguarda quelle di natura formale, pp. 51-61). Sebbene sulle varianti fonomorfologiche e microsintattiche gravi il sospetto di una pos- 106 l’espressione è equivalente a «stile spezzato», cioè style coupé: tendenza, d’importazione francese – anche se applicabile senz’alcuna forzatura alla prosa italiana – alla frattura del periodo in brevi membri separati, con effetto di scasione logicamente serrata del ragionamento. Non mancano – ma sono ben più rari sia rispetto al Vico, sia, a maggor ragione, rispetto al Giannone – i meridionalismi fonomorfologici, di cui Folena ha indicato esempi più vistosi (come il participio coniugato) in altre opere, e lessicali 113. Tali sono ad esempio i caratteristici raddoppiamenti consonantici di dispreggievole (emendato dall’editore moderno, che tuttavia ne segnala l’occorrenza) e di proggetto (p. 843); e ancora, la vocale intertonica di openioni (p. 858) e il nesso consonantico di rimprotto ‘rimbrotto’ (p. 808) 114. La quantità dei dialettalismi – in ispecie lessicali – è insomma inferiore a quella, già bassa, di altri scritti genovesiani: non solo delle lettere familiari, punteggiate da rari e spesso scherzosi inserti meridionaleggianti («Ma se il pagliettismo – ella sa questo nostro vocabolo – governa dappertutto il mondo», scrive ad Antonio Cantelli nel 1765, ricavando un nome astratto dalla designazione gergale degli avvocati napoletani, paglietta 115), ma anche di quelle accademiche, in cui i napoletanismi hanno funzione occasionalmente espressiva («Pericle ... pianse di tallute e calde lacrime», dove il primo aggettivo è greco e partenopeo al tempo stesso 116). sibile normalizzazione tipografica non promossa dall’autore, quelle che modificano lessico e fraseologia sono più difficilmente attribuibili ad altri che al Genovesi. Le une e le altre vanno comunque nella stessa direzione: eliminazione dei pochi tratti dialettali (pastinache sostituito con carote cfr. Puoti 1841 s.v. pastenaca), e accentuazione di quelli toscaneggianti e letterari, con assunzione di forme come cignali in luogo di cinghiali, della poetica imperadore in luogo di imperatore, e quanto alla morfologia, del tipo chiedeva, voleva con chiedea, volea, di vediamo e vedono con veggiamo e veggono, e di troveremo, troverete con troverremo, troverrete (per queste ultime forme cfr. Vitale 1986, p. 242). Più notevole, tuttavia, il ricorso a locuzioni di gusto espressivistico che subentrano a nessi più comuni e meno connotati, come nel caso di «star con le mani alla cintola», espressione boccacciana – Decameron II.10.3 – che prende il posto di «dir di no», o della sostituzione di un neutro contadina con un Ciutazza, altro riferimento boccacciano; diverso il caso dell’introduzione del nesso «fate Marco sfila» ‘sparite’, che è locuzione popolare ben attestata in napoletano (Galiani 1789, s.v. Marco sfila), ma diffusa anche in altre zone d’Italia (un esempio toscano – Forteguerri – nel GDLI s.v. sfilare2). 113 Cfr. Folena 1983, p. 65, con rimando a Venturi 1962, p. 104. 114 La LIZ attesta questa forma nel toscano Buonarroti il Giovane, nel quale tuttavia è possibile che essa si formi per influenza del sinonimo rimprovero. 115 Genovesi 1962, p. 182: «l’ordine degli avvocati (paglietti)», chiosa Savarese (p. 609): cfr. infatti Puoti 1841 s.v. paglietta. 116 Cfr. ad es. Volpe 1869 s.v., D’Ambra 1873 s.v. 107 Altrettanto misurato è, del resto, il ricorso ai tratti più marcatamente aulici e letterari, come – per la fonetica – l’impiego del toscanismo dilicata (p. 826), per la morfosintassi l’uso di costui con valore di possessivo («la costui vita», p. 799). Anche il lessico è caratterizzato da rarissime escursioni nei registri meno usuali: merita perciò attenzione l’avverbio posticamente (p. 803), ricavato dal raro latinismo postico 117 e, su tutt’altro versante stilistico, l’espressivo cappelloni (p. 839) usato per indicare i «capi della chiesa napolitana». Peculiare il caso del sostantivo commodata, usato apparentemente col significato di ‘possibilità’ o di ‘autorizzazione’ (p. 854: «per togliergli la commodata di ristamparla») in un passo nel quale si parla dell’edizione della Metafisica da parte dell’editore veneziano Tommaso Bettinelli. Trattandosi di un termine privo di riscontri sia in italiano, sia nei dialetti campani, bisognerà forse pensare al veneziano comodada 118: dato il contesto in cui compare, la voce potrebbe essere stata derivata al Genovesi dai carteggi intrattenuti con l’editore lagunare. Quanto all’Autobiografia II, occorre tener presente che l’edizione di Alessandro Cutolo (ripresa nel 1962 sia da Franco Venturi, sia da Gennaro Savarese, che non ne verificarono il testo sul manoscritto) è almeno in parte insoddisfacente e va dunque integrata con la lezione dell’autografo 119. L’opera (priva di titolo, ma modernamente indicata ora come Vita, ora come Memorie) è più breve della precedente: oltre a presentare segni di mancata revisione da parte dell’autore 120, essa è caratterizzata da un inizio abrupto, ben diverso da quello canonico della prima («Antonio Genovese nacque di Salvatore Genovese ed Adriana Alfenito, in Castiglione, picciola, ma illustre terra lungi otto miglia da Salerno...»), il quale a sua volta è simile a quello di vari altri fra i testi autobiografici che abbiamo incontrato, da quelli muratoriani a quello vichiano 121. Il secondo scritto ge117 Per questo aggettivo il GDLI riporta solo le accezioni tecniche dell’archeologia (‘che sta dietro rispetto alla parte frontale di una costruzione’) e dell’anatomia (‘posteriore’). L’avverbio posticamente non vi è registrato. 118 Boerio 1856 s.v. comodada riporta «Accomodatura, Accomodamento, Aggiustamento». Il termine è riportato anche in vicentino da Nazari 1876 («accomodatura»), che forse lo trae dal Boerio. 119 Si citerà qui di seguito dall’edizione di Savarese (Genovesi 1962), verificandone il testo sulla riproduzione fotografica digitale del manoscritto, gentilmente procuratami dall’ArchivioBiblioteca-Museo Civico di Altamura (si ringrazia la dr. Damiana Santoro). 120 A p. 21: «La corte di Roma si quietò, né ulterior premura.», con evidente omissione di una parte della frase, che non viene corretta; a p. 41: «secondando le prime ... del Re», con omissione di una parola. 121 Vico: «Il signor Giambattista Vico egli è nato in Napoli l’anno 1670 da onesti parenti, i 108 novesiano, dunque, si apre solo in apparenza col nome dell’autore (in realtà è quello del nonno), ed esordisce con una digressione familiare: Antonio Genovese, mio avo, per ciò che aveva ereditato da suo padre, e per la dote di sua moglie Giustina Genovese, aveva in terre tanto onde, con poca industria, avrebbe potuto non solo vivere con comodità, ma di molto accrescere il suo patrimonio. La sua poltroneria lo scemò. Ebbe sette figli, tre maschi e quattro femine. Delle femine due morirono pulcelle: due furono maritate. De’ maschi il secondo morì cherico, l’ultimo cambiò cielo e si stabilì altrove. Mio padre, erede d’una quarta parte del non molto grande patrimonio del padre, sposò Adriana Alfenito di S. Mango, che gli apportò buona dote. L’inizio della narrazione autobiografica vera e propria è ritardato di molte righe, quasi dissimulato e privo della sequenza usuale: nome di entrambi i genitori, luogo di nascita («Io nacqui la notte del 1 di novembre dell’anno 1712. Mio padre mi fece insegnare il leggere e lo scrivere fino a 5 anni da D. Domenico Genovese, canonico della nostra chiesa di Castiglione», p. 8 122). Altrettanto secco, del resto, è anche il finale, che interrompe bruscamente la relazione dei fatti relativi al 1755 con l’incontro con il conte Firmian, «inviato dell’Imperadore dei Tedeschi» a Napoli. Assai meno nettamente scandita rispetto allo scritto precedente, la narrazione procede nell’Autobiografia II per blocchi di diseguale lunghezza, ma con un andamento complessivamente più fluente di quello – di continuo interrotto nel breve respiro dei paragrafetti – del primo testo: le mutate condizioni in cui il Genovesi stende il suo secondo, dettagliato curriculum comportano anche un sensibile cambiamento dell’organizzazione testuale, della scansione narrativa, dello stesso centro d’interesse dell’autore. A una generale medietas è improntata nel complesso la lingua dell’Autobiografia II. Tipici, genericamente, della prosa italiana settecentesca sono, quanto alla fonetica, l’alternanza fra allotropi come fusse e fosse 123; il ricorso a forme poi disusate come ruina o padria ‘patria’ 124 e alle voci di quali lasciarono assai buona fama di sé»; Muratori: «Nacque di onesti parenti, cioè di Francesco Muratori e della Giovanna Altimani, l’anno 1672, il dì 21 d’ottobre in Vignola, terra riguardevole del Modenese, capo di un bel marchesato» (Sorbelli 1950, p. 13). 122 È stato in realtà dimostrato che la data di nascita del Genovesi dev’essere spostata al primo novembre 1713, cfr. Potolicchio 1922. 123 Il primo occorre ad es. alle pp. 10, 24, 40; il secondo alle pp. 10, 21, 22, 23, 24, ecc. 124 Quest’ultima forma è emendata dall’editore moderno, che tuttavia ne dà notizia rendendo conto della «normalizzazione tacita di alcune grafie» (Zambelli 1972, p. 798). Padria è forma rara già nel Settecento: non la citano né Patota 1987 né Antonelli 1996 nei loro spogli, e la LIZ[700] riporta esempi solo dal Vico della Scienza nuova. 109 scoprire con labiale sonorizzata, tipo scoverto (p. 37); l’uso del pronome il oggetto preconsonantico («il divorai», «il divenni», «il portai», p. 22, «il rifiutai», p. 23, «il ringraziai», p. 33, «il facevano», p. 35), di gli per l’oggetto diretto plurale («gli approvasse», p. 11, «gli facevano gridare», p. 16) dell’articolo lo dopo la preposizione per («per lo genere», p. 33, «per lo governo», p. 40 125); l’occasionale impiego dell’articolo determinativo maschile plurale li («li miei intrighi» p. 13); del pronome cui con valore di oggetto («cui io doveva ringraziare» p. 38), che pure cominciava ad apparire «affettato e pedantesco» (così Parini) nel corso di quel secolo 126. Poco connotati (perché relativamente consueti) anche alcuni usi sintattici d’eredità trecentesca – forse influenzati anche dal dialetto – come le sequenze di clitici accusativo + dativo («non la mi perdonò», p. 23) e quella di se + dativo («se le mostrò indifferente», p. 41) 127. Normali, come si è visto, anche in autori settentrionali, i raddoppiamenti consonantici incongrui presentano qui una distribuzione caratteristicamente influenzata da forme dialettali napoletane; si ha dunque: combacciantisi (p. 10), lezzioni, subbito, aggitava (p. 23) 128, esiggere (p. 24) 129, aggio (p. 30), proggetto (p. 34), sezzioni (p. 38); scempiamento ipercorrettivo, al contrario, in disertazione (p. 19). Tra i meridionalismi, rarissimi anche in questo testo, andranno segnalati i due più vistosi, cioè l’aggettivo stracqui (p. 32) ‘stanchi, stracchi’ 130, e il sostantivo polise ‘polizze’ 131. Per quanto riguarda l’organizzazione testuale, ai già accennati elementi di diversità rispetto all’Autobiografia I se ne aggiunge uno di natura più genericamente narrativo-stilistica. Alla maggiore tendenza diegetica di questo testo si collega in effetti l’abbondanza di brevi descrizioni, insieme fisiche e psicologiche, dei personaggi incontrati dal protagonista durante la sua vita: descrizioni che quasi sempre esordiscono con rapidi cenni sui tratti somatici e con ragguagli sul «temperamento», forse in ossequio ai 125 Il tipo è prescritto ancora da S. Alfonso M. de’ Liguori: «si dice per lo passato, non per il passato», Librandi 1984, p. 17. 126 Cfr. Serianni 2009, p. 186, che pure rammenta il suo uso costante nel Giorno e nei poeti dell’Arcadia (con rimando a Dardano 1991-94, p. 53). 127 Esempi analoghi dai capuisti in Vitale 1986, p. 243. 128 Cfr. l’avvertimento di S. Alfonso: «subito, non subbito» (Librandi 1984, p. 23). 129 Negli Avvertimenti di S. Alfonso: «esigere, non esiggere» (ibid., p. 20). 130 Cfr. Volpe 1869 s.v., D’Ambra 1873 s.v. La LIZ riporta numerosi esempi da Lo cunto de li cunti, e varie altre occorrenze da Masuccio Salernitano, Bruno e Giovanni Meli. 131 Cfr. Puoti 1841 s.v.; interessante il responso della LIZ, che per questa forma dà oltre a quello genovesiano tre soli esempi, da altrettante lettere del Tasso rivolte al napoletano Francesco Polverino. 110 principi filosofici cui lo stesso Genovesi accenna nel discorrere del suo trattato di etica («nel primo [libro] esaminava il fisico dell’uomo, onde dipendono le nostre inclinazioni, le passioni, le virtù, i vizi. Vi spiegava la natura dell’anima, le sue proprietà, i suoi difetti»). Ecco qualche esempio di queste compendiose descrizioni (la seconda si riferisce al cardinale Giuseppe Spinelli, la terza a Joseph Joaquim Montealegre, divenuto in seguito duca di Salas): D. Celestino Galliano era uomo di bella taglia: di facile abbordo: di gran mente e fornita delle migliori cognizioni, spezialmente per quello che appartiene alla filosofia e alla mattematica. Amava di portare avanti gli abili giovani, ch’egli sapeva conoscere. Ma non aveva il cuore eguale allo spirito: intraprendeva facilmente, ma con eguale facilità abbandonava i gran proggetti. (p. 15) Egli è d’un corpo secco, e di giusta statura: ha il naso grande: il colore acceso. Il suo temperamento è colerico ippocondriaco all’eccesso. La sua passione dominante è l’ambizione. Questa gli faceva coprire l’indole, ch’è feroce. Vestito del manto della religione, abusava della pietà dei Sovrani, e portava avanti le sue mire per dominare il Regno. (p. 16) Egli era ben fatto della persona e di allegro aspetto. Il suo temperamento era sanguigno, colerico: soggetto perciò a facili cambia[men]ti delle grandi passioni. Era ambizioso e cupido di danaro, con cui sosteneva il suo posto: magnifico nella sua vita. Aveva pronta e facile memoria, di cui si piccava molto: spirito penetrante: era eloquentissimo: come il suo posto e la sua ambizione gli faceva dei nemici, per potersi mantenere e per secondare i consigli e i desiderii della Regina di Spagna, Elisabetta Farnese, ebbe bisogno di molto denaro. I mezzi che sceglieve disonorarono il suo ministerio. Era molto dato alla libidine: ma sapeva nascondere i suoi fatti. (p. 18) Come si è detto, l’Autobiografia II è più generosa di particolari sull’educazione ricevuta dal giovane Genovesi. Delle prime letture giovanili, scelte seguendo gl’indirizzi del «prete e galantuomo» D. Saverio Perrilli nella natìa Castiglione, l’autore dà conto in un passo che non trova riscontro nemmeno parziale nell’Autobiografia I: ad iniziare il giovanetto alla prosa italiana non sono opere del canone classico ma rappresentanti tipici di una produzione romanzesca di consumo, ossia Il teatro dell’amicizia di Antonio Masucci 132, il fortunatissimo Calloandro fedele di Gian Ambrogio 132 Si tratta del romanzo Il teatro dell’amicizia del m.r.p. maestro frat’Antonio Masucci francescano conventuale; istoria francese data in luce dal dottor Paolo Francesco Pallieri accademico affidato, Genova, Meschini, 1661, ripubblicato a Napoli (Collecchia, 1708). 111 Marini 133, due ponderosi romanzi di Gauthier de Costes de la Calprenède (la Cleopatra e la Cassandra 134) e «alcuni romanzacci spagnoli» (p. 9), probabilmente letti in traduzione al pari di quelli francesi. Genovesi commenta: «io correvo alla ruina» (p. 9). A risollevare il livello delle sue letture non sono però autori italiani, bensì classici latini e greci – come Curzio Rufo e Plutarco – e solo successivamente i grandi della tradizione poetica nazionale: «Con tutte le proibizioni di mio padre, io aveva trovata l’arte di leggere a certe ore l’Ariosto, il Tasso, il Petrarca, ma per quest’ultimo, come per Dante, io ebbi singolare piacere» (p. 10). Nessun cenno alla prosa antica, per la quale, come si ricava da altri passi dell’opera genovesiana, il modello del Casa doveva essere, nella Napoli memore del purismo capuista, ancor più influente di quello boccacciano: «fate accoppiare – scriverà in una lettera ad Emilio Pacifico del 1765 – allo studio del buon latino il buon italiano. Il Casa dee esser loro amico per la prosa, il Petrarca pel gentile della rima, Dante pel robusto» 135. È dunque la poesia petrarchesca, assai manieristicamente, a risonare sullo sfondo dell’incontro con Angela Dragone – inizio dell’unica, romanzesca appunto, storia d’amore narrata nelle memorie genovesiane, che è anche la prima fra quelle narrate in un’autobiografia italiana del Settecento: «io era presso ad una chiara e fresca fonte... dentro opaca selva»; «io sedeva sopra un poggio che è quivi accanto, leggendo i Trionfi» (p. 11). Il risultato di letture così confuse e disomogenee è un’incompetenza linguistica generalizzata: «la mia lingua latina era mezzo barbara. L’italiana romanzesca. Lo scolastichesmo aveva guastato i miei studi» (p. 12): dove il caratteristico sostantivo è un conio che si affianca ai molti -ismi che l’italiano settecentesco formò su modello francese 136. Come già nel Vico, l’abbandono di un insoddisfacente maestro è il primo passo verso un recupero del tempo dissipato in letture disorganiche e spesso scadenti. Affidatosi, ventenne, agl’insegnamenti dell’arciprete Giovanni Abbamonte, a Bucino (l’attuale Buccino), Genovesi visita le opere 133 Sul quale cfr. Serianni 1993, pp. 518 s. La traduzione della Cleopatra, di Maiolino Bisaccioni, fu pubblicata nel 1672 (Venezia, Pezzana) e nel 1715 (Venezia, Indrich). Numerose anche le edizioni sei-settecentesche della Cassandra, tradotta da Giuseppe Ronchi (Bologna, Zenero, 1652) e dallo stesso Bisaccioni (Venezia, Miloco, 1667, ivi, Maldura, 1680, ivi, Indrich, 1698, ivi, Lovisa, 1733). 135 Cfr. Genovesi 1962, p. 185. E nelle Lettere accademiche del 1769 (ibid., p. 423): «Quando io era ragazzo, udiva parlar molto della eloquenza di Demostene e di Cicerone: di Tucidide e di Tacito: di Boccaccio, di Casa, di Bembo». 136 Cfr. Folena 1983, p. 13. 134 112 canoniche della tradizione scolastica offertegli da un maestro che «sapeva con gusto la teologia, i canoni, le leggi civili, la lingua greca e latina» (p. 12): Cornelio Nepote, Cesare, Terenzio, e assieme a questi le fondamentali letture filosofiche con cui il giovane getta le basi della sua ricerca speculativa. Sebbene anche del successivo maestro, D. Antonio Doti, Genovesi precisi che egli lo «ammaestrò nella lingua francese e lo ripulì nella latina e nell’italiana», nessun cenno particolare è dedicato alle letture – o alla scrittura – in italiano fino alla pagina incentrata sui principi ispiratori della cattedra di Economia voluta dall’Intieri: un programma fondato sulla convinzione che «fosse restar barbari il voler seguire, senza verun cambiamento, i stabilimenti letterarii de’ secoli passati», dal momento che «la ragione umana, per opra della stampa e del commercio delle nazioni, aveva fatto de’ gran passi; e che perciò, scoverte nuove idee, nuove cose, nuovi modi di vivere, nuove maniere di ragionare o sia calcolare l’idee e le cose, e in conseguenza nuove scienze, e infinitamente più utili, si dovesse attendere a queste diffondere nella più bassa parte del popolo, e non occuparsi solo di speculazione» (p. 33). Lo stesso termine barbaro impiegato per descrivere la condizione del suo mal appreso latino scolastico è usato qui per indicare l’eccesso conservativo di chi vuole mantenere gli usi stilistici e linguistici del passato (uno degli aggettivi più caratteristici di questo testo, in cui altrove viene riferito a manifestazioni del «cattivo gusto» e dell’oscurantismo dogmatico 137). Se fra i maggiori pregi intellettuali dell’Intieri vi è la persuasione che i «pedanteschi studii delle parole» siano da annoverarsi fra le «inutili astrazioni» dalle quali «gli uomini niun vero frutto possono ritrarre», la scelta della lingua in cui deve svolgersi l’insegnamento di Commercio e meccanica è coerente col principio che muove lo stesso Intieri nello stabilire che alla cattedra «non potessero ... pretendere religiosi di niun ordine, ma soli laici e preti», con evidente intento d’esclusione dei Gesuiti. Nell’introduzione dell’italiano per la didattica universitaria (oggetto di vivaci polemiche con gli intellettuali contemporanei che lo accusavano di aver «sbandito affatto la favella latina» 138), Genovesi applica i principii di 137 Esempi: «i studii erano barbari prima di lui» (di Celestino Galiani); «tra di noi, per lo cattivo gusto de’ secoli passati, niuna altra facoltà era apprezzata, che una barbara giurisprudenza, la medicina e una teologia ancora più barbara»; «egli era il più barbaro del clero napolitano» (del canonico Perrelli, revisore della Metafisica genovesiana); «I teologi mi lasciarono in pace, tutto che queste due parti fossero meno conformi alle loro barbare idee di quel che erano tutti gli miei libri». 138 Si tratta di Orazio Jacopo Martorelli: cfr. Pii 1982, p. 439, che riporta anche un altro 113 quel relativismo linguistico che nella Logica per gli giovanetti aveva sistematicamente teorizzato. Fin dalla prima pagina, l’autore vi giustificava l’uso dell’italiano («non già ... toscano, ch’io non saprei scrivere, ma ... italiano», precisa in una lettera 139) con la necessità di conferire vera maturità ed autonomia agli studi nazionali, e in particolare a quelli delle «scienze utili» 140. È questo il motivo per cui «lo studio (...) d’una lingua dovrebbe andare di passo eguale colla storia civile, economica, naturale del popolo che l’ha parlata»: scindere l’apprendimento linguistico dal resto del sistema educativo significa rinunciare a questo armonioso equilibrio. Con accenti simili, nelle Lettere accademiche Genovesi ribadisce la necessità di «vivere e parlare nella propria lingua» 141. Tale persuasione circa le potenzialità e l’autonomia dell’italiano rispetto alle lingue “sorellastre” non ne comporta tuttavia un’indiscriminata esaltazione. Ovviamente alieno da qualsiasi atteggiamento puristico, Genovesi afferma lapidariamente in vari punti della Logica la insufficienza di tutte le lingue naturali a bastare a sé stesse. Se nessuna lingua è «tanto copiosa, energetica, distinta, la quale basti a spiegare perfettamente tutti i pensieri e affetti interni d’un uomo ad un altro uomo» 142, ciascuna è imperfetta, e minacciata da una sorta di propensione all’incomprensibilità: commento del medesimo Martorelli: «Il gran pensante Genovesi non vuol dettare più in latino [...] spaccia ai giovani che non serve la lingua latina». 139 Cfr. Genovesi 1962, p. 190 cit. da Pennisi 1987, p. 148. Nei confronti della tradizione toscana Genovesi mostra in realtà un atteggiamento oscillante, come emerge dalle testimonianze raccolte dallo stesso Pennisi 1987, p. 152: così, con Galiani che manifestava il suo dissenso per la scelta di tenere in volgare un corso universitario, «Genovesi utilizza il prestigio della tradizione toscana facendo intervenire il Bembo per sostenere la pari dignità del volgare italiano rispetto alle lingue classiche»; d’altra parte, lo stesso Genovesi si mostra persuaso che «l’insufficienza del volgare riguarda le degenerazioni regionalistiche dell’italiano (“Regnicoli, Romagnoli, Lombardi. Non dirà questo sproposito mai un toscano”) e non il puro fiorentino». Si tratta, in realtà, di una distinzione marginale nell’economia del ragionamento genovesiano, incentrato sul concetto che «“le cognizioni abitano nelle parole” e che sarebbe, quindi, uno sproposito aver un paese “dove le scienze non ne parlino la lingua”». 140 Genovesi 1766, pp. 10-12. Si rimanda alla prima edizione bassanese dei Remondini: la princeps fu stampata nello stesso 1766 dalla Stamperia Simoniana di Napoli. Su questo brano cfr. anche Folena 1983, p. 48: «Siamo qui in acceso clima illuministico, e davvero un tale linguaggio è incommensurabile con quello del Galiani. Tutta la lingua del Genovesi è carica di simile enfasi ideologica, e la terminologia degli economisti francesi penetra largamente nelle Lezioni, che ne sono state uno dei veicoli più attivi». Il che è vero, anche se non bisogna dimenticare che ai teorici del liberalismo inglesi (pur se, come si vedrà, letti in traduzione francese), ben più che a quelli d’Oltralpe, guarda il Genovesi delle più impegnative opere economiche e politiche. 141 Cfr. Genovesi 1962, p. 423. 142 Ibid., pp. 57-58. 114 L’imperfezione delle lingue fa che noi ci capiamo poco, e spesso che prendiamo degli errori. Ma se all’imperfezione si aggiunga l’abuso, nascerà da’ libri, e dal parlare un’infinita copia di errori, e di controversie, che non di rado si terminano con le mani. L’abuso nasce o da ignoranza, o da negligenza, o da cattivo gusto, o da qualche rispetto umano. E questo fa il non volersi spiegare 143 Tale imperfezione ha diversi livelli: se non tutte le lingue sono parimenti povere e insufficienti, ciò dipende dal loro aver corso per un «tratto» più o meno lungo «per Nazioni, dove si scrive»: «le lingue sono come i fiumi», e quelle che, come la greca, posseggono un corso più lungo sono più dotate e più idonee a descrivere la quasi totalità delle esperienze e dei bisogni. Evidente il legame di simili considerazioni con la teoresi linguistica di un Locke e di altri pensatori razionalisti (soprattutto anglosassoni) ben presenti a Genovesi 144; altrettanto evidenti, poi, le suggestioni che concetti come questi potranno avere sul Cesarotti del Saggio: lungi dall’essere una lingua pura, lo stesso italiano è figlio del latino, «ma hanno servito a riempirla parole Greche, Saracene, Sassoni, Tedesche, Francesi, Spagnuole, ec.» 145. Da questa commistione o stratificazione diacronica deriva la cruciale importanza dello studio storico della lingua, che Genovesi prospetta già precocemente come indagine scientificamente comparativa, in esplicita contrapposizione con un approccio basato sulle semplici “similitudini”, di tipo vichiano. Sebbene l’esempio scelto sia nella sostanza erroneo, l’indicazione di metodo è valida 146: «L’italiano battere è fuor di dubbio esserci venuto dal beat de’ Sassoni, trovandosene esempj nelle leggi Longobarde, si quis battiderit: come la parola guerra. Ma è la storia della lingua Italiana, che cel debb’insegnare. La similitudine può ingannare anche quando è il medesimo senso» 147. Apertamente antipuristiche sono, dunque, le conseguenze che Genovesi trae da tali presupposti circa l’italiano, la sua storia e il suo presente – e si tratta, come giustamente è stato notato, di un antipurismo «politico», Ibid., pp. 62-63: maiuscolo dell’edizione. Sui contatti tra la filosofia del linguaggio lockiana e le idee esposte nella Logica per gli giovinetti, cfr. Pii 1982, p. 440 s. 145 Genovesi 1766, p. 265. 146 L’italiano battere è in realtà voce di derivazione latina, cfr. LEI, V, 344-590 batt(u)ere; i tipi battere, battire sono largamente attestati nel latino medievale (cfr. Du Cange 1883-1887 s.v.), e ad essi va probabilmente connesso il battiderit citato da Genovesi. 147 Genovesi 1766, p. 266; e di seguito: «Chi direbbe, che Mama Oella degli Americani [dea-madre nella mitologia incaica], significante Madre Oella, fosse venuto dal Greco mámma Elláq o dal Latino Mamma tellus? Chi, che il Tata di noi altri dal Tatar de’ Tartari?». 143 144 115 analogo a quello che si è rilevato nel Giannone e ben diverso da quello «filosofico» sviluppatosi a Napoli nel primo ventennio del secolo 148. La lingua dei secoli d’oro va dunque ricondotta al suo tempo e non può essere meccanicamente trapiantata nella modernità, a pena di una grave perdita di senso: Delle volte la vanità dello Scrittore il rende inintelligibile. Dante Alighieri, Fazio degli Uberti, l’Autore del Pataffio scrivevano il XIII secolo ad uomini del XIII secolo: Boccaccio uomo del XIV scriveva ad uomini del XIV, Varchi del XV scriveva ad uomini del XV. Toscani scrivevano a’ Toscani. Noi vogliamo scrivere il XVIII, a quei del XIII, o del XIV. Si può veder la maggior vanità? Le lingue si modellano sul pensare, e sul costume. Il pensare e ’l costume d’una medesima età, e in una medesima nazione rendono il parlar comune e intelligibile a quell’età e a quella nazione 149. Considerazioni simili si accompagnano ad una critica al primato fiorentino aureo, in nome di una «ragionevole» versatilità orientata dal «buon gusto» (e, in Genovesi, da un mercantesco pragmantismo), che già il Muratori aveva inaugurato nel trattato Della perfetta poesia italiana 150, e che si prolungherà, attraverso l’antipurismo dei riformatori lombardi, fino alla riflessione di Monti e Perticari. Spesso ricordato, negli studi storico-linguistici, come riformatore del linguaggio scientifico economico e come fondatore di un moderno italiano per il commercio, Genovesi è insomma anche un partecipante non marginale al dibattito teorico linguistico. Dei principi esposti nel trattato, le due autobiografie descrivono di fatto lo sfondo culturale e la personale elaborazione, oltre che una concreta ed elegante applicazione sul piano dello stile. 148 Cfr. Pennisi 1984, p. 84, parla di «una tendenza che scorge nel particolarismo grammaticale una minaccia al libero dispiegarsi del sapere metafisico». 149 Ibid., pp. 69-70. 150 Si vedano in particolare i brani riportati da Puppo 1966, p. 122-131. 116 LE MEMORIE DI UN CONSERVATORE 1. La vicenda testuale delle Memorie inutili Alcuni anni fa, una fortunata scoperta ha fatto di Carlo Gozzi uno dei meglio documentati fra gli autori di maggiore vaglia del Settecento veneziano 1: l’individuazione, nella villa di Loredana Marcello a Visinale presso Pordenone (cioè nella casa avìta dei Gozzi, dei quali l’attuale proprietaria è l’ultima discendente, per tramite di Almorò fratello di Carlo e Gasparo), dell’archivio di famiglia, avvenuta nel 2000. Per la verità, già nella prima metà dell’Ottocento alcuni studiosi di letteratura veneziana – fra i quali Niccolò Tommaseo e Pompeo Molmenti – avevano avuto accesso alle carte di quel fondo. Ma l’acquisizione da parte della Biblioteca Marciana e il completo riordino dell’archivio hanno consentito il varo di un’Edizione nazionale delle opere di Carlo Gozzi che nei prossimi anni integrerà il già noto – cioè il lascito di stampe e manoscritti autografi da tempo studiati o pubblicati – con le novità emerse dalle carte di Visinale. Oltre a rivelare l’esistenza di opere inedite delle quali non si aveva nemmeno notizia, esse forniscono materiale utile a ricostruire la genesi e l’elaborazione dei testi editi, comprese le Memorie inutili. In precedenza, il loro testo era tramandato dalla stampa pubblicata, vivente l’autore, fra gli ultimi mesi del 1797 (il manifesto che ne annuncia l’uscita risale al luglio di quell’anno) e il marzo 1798 dal libraio-editore veneziano Carlo Palese, e da un manoscritto autografo conservato alla Biblioteca Marciana (It. VII, 2504 = 12069), che di sicuro non coincide con quello mandato in tipografia, viste le notevoli differenze rispetto alla stampa nella struttura e nell’organizzazione testuale, e l’abbondanza di correzioni che fanno pensare a una redazione di lavoro 2; il codice è databile ante 1784 e come ha 1 Cfr. Soldini 2006b, p. 12. I tre volumi della princeps (Gozzi 1797) uscirono in effetti fra gli ultimi mesi del 1797 e il marzo 1798, ma portano tutti la stessa data. 2 117 osservato Gilberto Pizzamiglio, «nulla vieta di pensare a un avvio del libro addirittura prima del 1780» 3. Giusto su questi due testimoni si è fondata l’edizione critica pubblicata da Paolo Bosisio (con la collaborazione di Valentina Garavaglia) nel 2006, cioè solo pochi mesi prima che Fabio Soldini rendesse pubblico il contenuto del fondo Gozzi 4. Essa dovrà ora essere integrata dai manoscritti contenuti nel primo dei due fascicoli della scatola numero 11 del fondo 5. A quanto pare, tali materiali risalirebbero ad una fase anteriore a quella documentata dal manoscritto marciano: si tratta – secondo Soldini – della prima, già matura, elaborazione attestata dell’autobiografia gozziana, copia di lavoro che contiene parti in pulito, parti fitte di cassature, aggiunte interlineari o marginali di singole parole o interi periodi, fogli intercalati. Se tali impressioni, che Soldini ha ricavato da un primo e ancora incompleto esame della documentazione, sono corrette, il nuovo testo delle Memorie inutili che verrà stabilito per l’Edizione nazionale sarà conforme (se non identico) a quello stampato da Bosisio, restando invariate le informazioni circa l’ultima volontà dell’autore, e muterà solo nel senso di un maggiore dettaglio e di una più lunga visione prospettica delle fasi elaborative 6. La provvisorietà che grava sull’edizione critica rende altrettanto transitorio uno studio sulla sua lingua. Tuttavia, non sembra inutile mettere fin d’ora a frutto testo e apparato dell’edizione Bosisio e tentare l’esame di un’opera di notevole interesse linguistico, per altro funestata, nel corso del Novecento, da edizioni infide 7. Un inquadramento dell’autobiografia gozziana nella sua forma definitiva potrebbe anzi rendere qualche servigio a chi si occuperà della nuova edizione. 3 Cfr. Pizzamiglio 1996, p. 126, e in precedenza Bombieri 1965. Il codice fu venduto alla Biblioteca nel 1932 dal conte Gaspare Gozzi (1856-1935), al quale all’epoca appartenevano anche i manoscritti recentemente pervenuti alla Marciana: una sua descrizione, redatta da Stefano Trovato, si trova in Soldini 2006, p. 183. 4 Gozzi 2006: ringrazio vivamente i curatori per avermi messo a disposizione il testo in formato digitale. Lo si citia richiamando la numerazione delle pagine dell’edizione Palese, riportata anche in quella di Bosisio-Garavaglia; anche la lezione del manoscritto (citata richiamando il numero della carta) è tratta dall’apparato predisposto da questi ultimi. 5 L’inventario completo del fondo Gozzi è stato pubblicato, per cura di Susy Marcon, Elisabetta Lugato e Stefano Trovato, in Soldini 2006, pp. 113-181. 6 Il referto di Soldini 2007, p. 88 si accorda con le osservazioni, parimenti cursorie, di Pizzamiglio 2006. 7 Sono «parziali o non del tutto affidabili» (Marchi 1998, p. 1004) sia l’edizione curata da Giuseppe Prezzolini (Gozzi 1910), sia quella di Domenico Bulferetti (1928). 118 Le Memorie inutili – il cui caratteristico titolo venne elaborato, secondo la testimonianza dello stesso Gozzi, solo all’altezza della stampa, non comparendo nel manoscritto marciano – si presentano come un’opera scritta in risposta ad un libello apparso a Stoccolma nel 1779 8: la Narrazione apologetica di Pietro Antonio Gratarol, ex segretario del Senato veneto (e «residente» designato presso la corte di Napoli) travolto due anni prima da uno scandalo per una relazione con l’intrigante Teodora Ricci, attrice della compagnia Sacchi protetta da Gozzi e legata sentimentalmente anche al capocomico, l’Antonio Sacchi specializzato nel ruolo di Truffaldino 9. Alla prima edizione della Narrazione apologetica, messa al bando dal Consiglio dei Dieci, ne seguirono una (di certo veneziana) nel 1781 e tre nel 1797, subito dopo la caduta della Repubblica, altre due stampate da Gatti e da Zatta e un’ulteriore raccolta di scritti con un titolo significativamente simile a quello dell’autobiografia gozziana: Memorie ultime di Pietro Antonio Gratarol ... per servire di Supplemento alla Narrazione Apologetica del medesimo Autore 10. Gelosie, invidie e ripicche fra i quattro personaggi coinvolti nella vicenda avevano portato alla messa in scena, nel gennaio del 1777, di una commedia di Gozzi intitolata Le droghe d’amore, nella quale il pubblico veneziano aveva scorto trasparenti allusioni alla condotta scandalosa del segretario del Senato (che a quanto pare aveva tentato di impedire la rappresentazione). Sommerso dal ridicolo di una pièce che tutti a Venezia avevano subito ribattezzato La commedia del Gratarol, il funzionario era fuggito precipitosamente nel timore di un provvedimento punitivo da parte del Senato, ed era stato bandito in perpetuo dal Consiglio dei Dieci come traditore, subendo la confisca totale dei beni. Rifugiatosi a Stoccolma, Gratarol fornisce nella Narrazione apologetica la sua versione dei fatti, individuando nel Gozzi il regista di un complotto ordito ai suoi danni da «troppo potenti nemici», espressione che certo allude alla famiglia dei Tron, alcuni membri della quale (in particolare il poIl manoscritto riporta a c. 1r: «Memorie per servire alla vita di [corretto su: del Co:] Carlo Gozzi, scritte da lui medesimo [corretto su: da lui medesimo e pubblicate da lui medesimo]»; cfr. Soldini 2006, p. 86. Il titolo completo della stampa è: Memorie inutili della vita di Carlo Gozzi, scritte da lui medesimo e da lui pubblicate per umiltà. Sull’evoluzione del titolo dell’autobiografia gozziana si veda Ricorda 2001, p. 208. 9 Sui rapporti fra Gozzi e la Ricci, e sulla composizione dei capitoli delle Memorie inutili dedicati all’attrice, si veda ora la ricostruzione di Soldini 2007, fondata su manoscritti inediti restituiti dal fondo Gozzi proveniente da Visinale. 10 Rispettivamente: Gratarol 1779, 1781, 1797a, b, c. 8 119 tentissimo Andrea) erano stati effettivamente coinvolti nelle vicende sfociate nella famigerata rappresentazione del gennaio 1777. Dietro la banale pochade nella quale il Gratarol era rimasto invischiato fors’anche oltre la sua volontà s’agitava, in effetti, l’aspra lotta politica che contrapponeva un’aristocrazia conservatrice che faceva capo ai Tron e i settori della classe dirigente veneziana legati alla Massoneria, cui il Gratarol era affiliato 11. Esecutori materiali delle istruzioni ricevute da Gozzi erano stati, secondo il Gratarol della Narrazione apologetica, alcuni dei componenti della Compagnia Sacchi – in primis il capocomico Antonio – rei di avere carpito la buonafede della «valentissima» Teodora, del tutto estranea, per l’ex segretario, a una vera responsabilità nell’accaduto. L’appassionato volumetto del Gratarol (un in-quarto di quasi centocinquanta pagine, caratterizzate da uno stile turgido e iperletterario 12) è dunque al tempo stesso 11 Sui legami fra Gratarol e l’ambiente massonico, e in generale sull’attività dei Liberi muratori veneziani negli ultimi decenni della Serenissima informa Capaci 1997, p. 99. 12 Per tentare una sommaria caratterizzazione della scrittura grataroliana, si daranno qui esempi di soluzioni topologiche e di figure dell’ornatus tratti dalle prime pagine della Narrazione apologetica (tra parentesi il numero di pagina dell’edizione Gratarol 1779): ecco dunque la frequente anteposizione dell’aggettivo al sostantivo («alta risoluzione» 1, «sofferti mali» 1, «troppo dilicati riflessi» 2, «orrendo fulmine» 2, «scorsi mesi» 2, «i recenti miei casi» 2, «proporzionato decoro» 3, «estere corti» 3, «in forza d’antica legge» 3, «sedotta dall’incerto lume» 3) e dell’avverbio alla voce verbale («tempo da maggiormente bilanciare» 2, «a ben educarmi» 3); le strutture a iperbato, con allontanamento della preposizione dal sostantivo retto («per necessità di ben fondata instruzione» 2, «da troppo dilicati riflessi» 3) o del sostantivo dall’aggettivo («i legami d’un ministero di lor natura non dissolvibili» 1); le strutture iterative a due («riservandomi soltanto di tacer, benché vero, benché a me vantaggioso» 2, «ai soli imparziali d’animo retto, a quei soli, a cui diressi l’articolo inserito nei fogli, anche diriggo questa mia Narrazione» 2, «essi mi bandiscano dal loro conforto, essi mi nieghino asilo» 2, «vissero sempre e vivono uomini degni» 3) o a tre membri («uomo insigne in pietà, in onore, in profonda dottrina» 3, «per onor, per virtù, per ingegno» 3, «un dilicato onore, un amore dell’equità, un’appassionata inclinazione di giovare ad altrui» 3), che possono anche combinarsi in più elaborati parallelismi «gazzette, e publici fogli, e vicini, e lontani» 2; e quanto all’ornatus, le frequenti litoti («non senza l’approvazione, ed il braccio di saggi» 2, «la mia famiglia trae rimoti, e non oscuri principj dalla città di Bergamo» 2, «per serie non interrotta di molte età» 2). Si nota persino una sequenza metricamente perfetta, settenario-endecasillabo), con una sorta di rima interna (affetti:effetti): «questi diversi affetti, spesso alternando in me gli effetti loro» 3. Assai complessa, come è facile prevedere, anche l’incassatura periodale, per dare un esempio della quale si riportano le frasi finali della Narrazione, p. 146: «Su tutte l’altre, che l’han preceduto, siccome si raggirano ed abbracciano le azioni della mia volontà, così non si compete a me di riferire la comun voce di chi fino ad ora la mia voce intese, formando ella una parte di quel giudizio, che imprevenuto a voi tutti, lettori onorati e saggi, è riservato. Tacio qual presagio di lui l’altrui opinione m’annunzi; ma non tacio, che dolci, che pieni, che sicuri me ne suonino al core i presagi della ragione, della verità, della mia coscienza. Elle furono le mie guide, elle sono le mie avvocatrici, elle saranno il mio trionfo. Mi direi misero nella maggior fortuna, se mi vedessi per voi 120 un’autodifesa mirante a tutelare l’onore proprio e quello della presunta sedotta-seduttrice, e un vibrante atto d’accusa contro la rete di connivenze e di impenetrabili macchinazioni costruita dai conservatori. Che Carlo Gozzi abbia impreso a scrivere le sue memorie subito dopo l’uscita – o meglio l’arrivo clandestino a Venezia – della Narrazione grataroliana è dunque affermato ripetutamente dall’autore stesso, che fin dall’esordio dell’opera ne sottolinea il nesso con il libello dell’ex Segretario del Senato. La prefazione al primo volume dell’edizione Palese, indirizzata A’ suoi amati concittadini, si apre con un richiamo esplicito all’avversario: Sparsa la voce, che Pietro Antonio Gratarol, fu Secretario dell’ora ex Senato di Venezia, era fuggito, giudicai placidamente, ch’egli fosse fuggito per non poter più star fermo. M’increbbe la di lui fuga, e per i suoi congiunti, e per lui, e perché sapeva da quali funeste conseguenze, fuggendo egli dall’uffizio che sosteneva, sarebbe stato fulminato dall’ex Governo. (I.iii) E a più riprese, pur se en passant, l’autore torna sulla cronologia di composizione fissando al 1780 la redazione originaria di un testo che, rimasto nel cassetto per diciassette anni, viene finalmente dato alle stampe nel mutato clima della Venezia “democratica”, in cui l’autore si rivolge in sede prefatoria «ai suoi amati concittadini» e, nel secondo volume, riprende la narrazione all’ombra del motto «Libertà – Eguaglianza» con un «ragionamento del cittadino Carlo Gozzi». Lo stesso secondo tomo si chiude appunto con un accenno ai tempi di composizione del testo: «Questo secondo Tomo delle Memorie inutili della mia vita da me scritto sin dall’anno 1780...» II.430. Un analogo riferimento apre anche la parte terza dell’opera, quasi a riaffermare lo iato temporale fra la redazione originaria e la stampa, cui si sarebbe accompagnata la composizione dell’ultima parte: «Scrissi le memorie inutili della mia vita l’anno 1780 sino all’età che aveva in quel tempo, e poiché dall’anno 1780 all’anno 1797 m’avvedo d’essere vivo ancora, avendo il vizio insuperabile di scrivere, logoro alcuni fogli di inutili memorie posteriori, e pubblico anche queste per umiltà» III.187. Gilberto Pizzamiglio ha suggestivamente avanzato una possibile ricostruzione alternativa, secondo la quale l’affaire Gratarol e le sue pericolose conseguenze sull’immagine pubblica del conte avrebbero costituito solo l’impulso per la precipitosa riscrittura di un lavoro già da tempo in cantieconvinto d’aver errato: mi dirò felice nelle maggiori avversità, s’avrò ad accorgermi d’esser da voi e compatito, e approvato». 121 re. Del suo primitivo disegno una traccia parziale, o una sorta di sinopia, resterebbe nella prima parte dell’opera, dedicata all’infanzia e giovinezza e del tutto indipendente non solo dalla vicenda delle Droghe d’amore, ma anche dai suoi stessi presupposti umani e teatrali. Iniziata come una sorta di bilancio culturale di una stagione conclusasi con l’esilio volontario di Carlo Goldoni – che lascia Gozzi dominatore, peraltro non incontrastato, di una vita teatrale veneziana ormai esausta – l’autobiografia gozziana si riallaccerebbe insomma, ideologicamente, ai moventi e alle intenzioni tipiche della stagione di Porcìa e Calogerà: tardivo frutto della cultura veneziana primosettecentesca e almeno implicito contraltare ai Mémoires goldoniani, se non addirittura delle «memorie italiane», cioè delle prefazioni goldoniane all’edizione Pasquali 13. La quasi identità fra il titolo originario dell’opera gozziana (Memorie per servire alla vita di Carlo Gozzi scritte da lui medesimo), quello dell’autobiografia goldoniana (Mémoires de M. Goldoni pur servir à l’histoire de sa vie et à celle de son théatre) e quello delle «Memorie per servire all’istoria letteraria» di Calogerà è additato dallo stesso Pizzamiglio come suggestivo indizio in favore di una remota affinità culturale. Ipotesi affascinante, che le nuove carte gozziane potranno ora convalidare o chiarire ulteriormente. Nella redazione definitiva, consegnata alle stampe, le Memorie gozziane mostrano proporzioni assai disomogenee: l’opera è divisa in tre parti, non coincidenti con i tre volumetti dell’edizione Palese, visto che la sezione centrale occupa tutto il secondo tomo e l’inizio del terzo. La prima parte, dunque, è incentrata su infanzia e giovinezza dell’autore 14. Trentaquattro capitoli, gli ultimi due dei quali dedicati alla nascita dell’Accademia granellesca e alle «letterarie giocose baruffe» con Goldoni e Chiari: quasi un preambolo alle vicende più propriamente teatrali del volume successivo. Si dirama da questa prima parte dell’opera anche la serie delle beghe e delle liti familiari che per Carlo hanno pesanti ricadute sia sul piano affettivo, sia – come vedremo – su quello legale, per via delle interminabili cause che lo angustiarono per buona parte della sua vita: una vicenda così complessa che la sua narrazione minuziosa, condotta «con una calma e una freddezza stupefacenti» 15 darà materia ad un altro autonomo disegno autobiografico, quei «Frammenti di memorie» che il nipote di Carlo, Francesco Gozzi, lascerà manoscritti in un abbozzo interessante anche dal 13 14 15 122 Cfr. Pizzamiglio 1996, p. 129. Cfr. Ricorda 2001, p. 209. Così Pompeo Pompeati in G. Gozzi 1914, cit. da Soldini 1968, p. 371. punto di vista linguistico (perché testimone di un italiano regionale veneto primo-ottocentesco dai tratti molto marcati) 16. La seconda parte dell’opera è tutta dedicata alle vicende del teatro gozziano e dopo un capitolo introduttivo che si riallaccia alle polemiche goldoniane e chiariste già introdotte nel volume precedente, si apre con un «capitolo da filosofo osservatore» nel quale Gozzi rivendica principi e valori su cui si fonda la sua visione – accesamente e sinceramente morale – del lavoro teatrale. Segue una serie di capitoli ben più lunga di quella della parte precedente (cinquanta in tutto). A partire dal diciannovesimo, dunque, il ritmo della narrazione rallenta, amplificando fino all’esasperazione il resoconto dei fatti connessi con la famigerata messa in scena delle Droghe d’amore. Alla Parte seconda si ascrivono formalmente anche i primi cinque capitoli del terzo volume pubblicato da Palese: se non che, ad essi è anteposta una breve prefazione dell’autore e la lunghissima Lettera confutatoria, ben diversa, per mole e struttura dal resto dell’opera: un vero e proprio testo nel testo, pubblicato a rincalzo – più che a ricapitolazione, viste le dimensioni – degli argomenti apologetici già profusi nella Parte seconda, cui seguono ancora cinque capitoli dall’aspetto posticcio e incongruo. La Parte terza è presentata come un’integrazione sugli anni trascorsi fra il 1780 (data della – almeno pretesa – stesura delle parti prima e seconda) e il 1797. Essa si apre con una sorta di grande intermezzo comico, dedicato a Stravaganze e contrattempi a’ quali la mia stella mi volle soggetto, nel quale un Gozzi straordinariamente brillante – tanto da suggerire un parallelo con la sua malnota, ma apprezzabile produzione novellistica 17 – allinea una serie di casi strani e di situazioni comiche della sua vita. Nei ca16 Per dare un’idea del colorito fortemente regionale dello scritto di Francesco, ne riporto un brano dall’edizione di Soldini 1968, p. 383: «Formata questa nuova compagnia, si presentò in sena una comedia [da] questi poco esperti attori. Grande era l’aspettazione, perché con di[v]ulgati manifesti grandissime furono le promesse; ma l’esito non fu simile, poiché né la Fornici né la Passarina né gli altri sepero rapresentar convenientemente la lor parte e, quantu[n]que non fosse la commedia per se stessa cattiva, tutto andò a precipizio e cambiosi la scena in urli, fischiate e lanzate di pomi, e finì quella prima tanto studiata rapresentazione con un callo di tenda e con esecrande bestemie di chi avea così male impiegato il suo soldo. Mia madre non per questa si è perduta di corraglio, e volse tanto, e tanto corresse il teatro. Ne restrinse le spese dell’orchestra e dell’illuminazione, e fu persuasa massime nell’illuminazione di porre in scena invece di lumini, come si accostuma in allora, di banda ripieni d’oglio, fu persuasa a farvi porre degli antiani ripieni di grasso con grosso pavero». 17 Una scelta delle novelle gozziane è stata recentemente pubblicata da Ricciarda Ricorda (Gozzi 2001); e si veda ora anche Ricorda (in c.s.). 123 pitoli successivi l’ordinata e dettagliata esposizione dei fatti biografici è di continuo subordinata a una tendenza gnomica e moraleggiante che appare il carattere tipico di queste ultime pagine, nelle quali paiono dissolversi quelle «tentazioni romanzesche» che, assieme agl’influssi della scrittura teatrale, emergono in vari altri punti dell’opera 18. La materia testuale delle Memorie inutili è dunque alquanto frastagliata, risentendo della varietà e della disomogeneità che caratterizza la struttura complessiva. Se nella prima parte la narrazione scorre più filata – pur non mancando, nei capitoli dedicati all’Accademia dei Granelleschi, qualche inserto poetico tratto dalla produzione di quella brigata –, nella seconda le copiose citazioni tratte soprattutto dalla Narrazione grataroliana e abbondanti in molti capitoli della redazione manoscritta vengono in larga parte eliminate e riassorbite nel processo di radicale riscrittura che interessa alcune sezioni. Il secondo tomo dell’edizione Palese si conclude con una sorta di falso finale della Parte seconda (che in effetti verrà ripresa, quanto alla numerazione dei capitoli, nel tomo successivo). Prendendo congedo con un Avviso ... a’ benevoli, ed a’ malevoli Lettori delle Memorie della di lui vita, Gozzi tenta di giustificare l’evidente dissesto strutturale che segna il passaggio dal secondo al terzo tomo. Del disordine narrativo che regna sull’opera (specie sulla parte finale), uno scrittore esperto come Gozzi è in effetti conscio, ed è anche per questo che nei capitoli conclusivi della parte seconda e iniziali della terza si intensifica un fenomeno ben presente anche nella prima, ma in genere meno pervasivo, cioè l’appello ai lettori. Se i riferimenti al pubblico sono, nelle prime due parti, frequenti ma obliqui e quasi cerimoniosi («Può star certo il mio Lettore, ch’io non lo annojerò», II.9, «ed io farò ridere il mio Lettore» II.36), nella parte finale, che è anche la più narrativamente sconnessa, essi si fanno più accorati e quasi confidenziali («prego il mio lettore ad essere sofferente com’io lo fui a quel fastidioso colloquio» II.329, «Chiedo perdono al mio Lettore della lunghezza, e giuro di non scrivere mai più un Capitolo così lungo» II.354, ecc.). Fino alla frase conclusiva dell’intera opera, perfettamente identica a un congé teatrale: «Addio sofferenti, e benevoli Lettori miei» III.241. L’insistente tentativo di cattivarsi, con simili accenni, la «compassione» e l’adesione del lettore è, come si vedrà, tipico anche delle prefazioni Pasquali del Goldoni e dei suoi stessi Mémoires: cosicché persino in questo comune espe18 Di «tentazioni romanzesche» ha appunto parlato Pizzamiglio 1997; e per l’influsso della scrittura teatrale su quella di prosa del Gozzi si veda il recente volume di Scannapieco 2006. 124 diente letterario sembra rinnovarsi, lontano dall’agone teatrale, l’antica schermaglia fra i due. A coronamento della disomogeneità tipica della parte finale dell’opera, e come sintesi dei debiti contratti con la scrittura teatrale gozziana, sta la pubblicazione in coda alle Memorie inutili delle Droghe d’amore, pietra dello scandalo scenico che coinvolse Gozzi, Gratarol e la Ricci. È possibile che la riedizione della commedia si spieghi con l’esigenza dello stampatore di equilibrare le proporzioni del terzo volumetto. Ma è pure possibile che con tale incongrua appendice l’autore intendesse enfatizzare il legame tra l’opera nel suo complesso e le vicende della quérelle grataroliana: obliterare la vicenda compositiva dell’autobiografia – verosimilmente ben più lunga e più sfilacciata di quanto Gozzi riveli – e collegarla a una circostanza scatenante e a un intento apologetico significava riaffermare artificiosamente la natura di un’opera che si voleva pubblicata «per umiltà». 2. Dai Granelleschi alla Chiacchiera Le Memorie inutili sono forse l’unica fra le autobiografie del Settecento in cui il dibattito linguistico-letterario contemporaneo diviene oggetto della narrazione: conseguenza del fatto che l’autore ne fu uno dei protagonisti. La nascita dell’Accademia dei Granelleschi – situata qui «circa l’anno 1740», mentre da altre fonti sappiamo che essa fu costituita formalmente nel 1747 19 – è, come si è detto, oggetto del penultimo capitolo della prima parte delle Memorie inutili. Istituita «dal capriccio, e dal caso» e composta «di gente allegra versata nello studio delle belle lettere, amantissima della coltura, della semplicità, e del vero» (si trattava, in generale, di membri dell’aristocrazia veneziana barnabota, cioè decaduta, ma anche del patriziato benestante e del ceto cittadinesco), l’accademia si caratterizza soprattutto per gli orientamenti tradizionalistici in fatto di letteratura e di lingua: l’attività principale dei suoi membri consiste nel redigere e presentare alle adunanze accademiche composizioni in verso e in prosa, serie e facete, accomunate dalla studiata politezza linguistica. Tra i capisaldi ideologici dell’Accademia vi sono il culto di Dante e della tradizione toscana quattro-cinquecentesca (con predilezione per gli autori comici e burleschi, più che per quelli cari al classicismo bembiano), il conservatorismo politico-ideologico, la difesa delle «belle lettere» e di 19 Cfr. ad es. Farsetti 1799, e inoltre i documenti adunati da Bosisio 1979. 125 quello che Gozzi chiama – in esplicita polemica con chi lo qualifica come «toscano» – «puro linguaggio litterale», o «lingua litterale italiana», contrapponendo al patrimonio linguistico ricevuto dalla tradizione letteraria l’innovazione insieme linguistica, letteraria e ideologica promossa da autori contemporanei alla moda. I più vivacemente avversati sono, come è noto, il Goldoni e il Chiari (con le parole dello stesso Gozzi, l’«andazzo epidemico Goldoniano, e Chiarista»), nonché il Bettinelli delle Lettere virgiliane, contro il cui atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria i Granelleschi – e in particolare Gasparo Gozzi – polemizzano già nel 1758, cioè all’indomani dell’uscita dell’opera. È forse limitativo restringere il significato e il valore dell’accademia Granellesca a un nostalgico passatismo culturale: appiattire le polemiche linguistiche agitate da Carlo Gozzi in seno a quel sodalizio e poi nel séguito del suo operato su una miope laudatio temporis acti significa infatti trascurarne da un lato la forza propositiva e da un altro la consapevolezza e la maturità storica, non troppo inferiori a quelle degli avversari più ferrati in fatto di lingua (come il Cesarotti) e ben superiori a quelle di chi, come il Chiari e lo stesso Goldoni, subordinava la riflessione stilistica e il rapporto con la tradizione linguistica e letteraria nazionale alla ricerca di una naturalezza a cui gli avversari imputavano non del tutto a torto la mancanza di solidi fondamenti culturali. Punto di riferimento del programma granellesco è la constatazione che le novità letterarie introdottesi in Italia a partire dalla metà del secolo hanno comportato anche un’evoluzione linguistica che, a causa della subalternità ideologica nei confronti delle culture straniere (e in particolare di quella francese) rischia di snaturare i «colori» e la «coltura del nostro idioma». L’antidoto a una simile degenerazione strutturale dell’italiano starebbe, secondo il Gozzi delle Memorie inutili, in un recupero non dogmatico della tradizione e nella valorizzazione dell’autorità del Vocabolario della Crusca, il quale «si sarebbe anche potuto arricchire col trascorrere de’ tempi d’una maggior dovizia di termini scelti e approvati da’ diligenti Accademici fondatori», ma senza «scostarsi dalla favella litterale in quel Dizionario compilata, e consolidata» (I.263). Se dunque il capitolo XXXIII della parte prima rappresenta la pars construens del dittico, descrivendo intenti e ideali che ispiravano il sodalizio, il seguente è incentrato sulle polemiche antigoldoniane. Gozzi espone qui in forma più chiara e definita rispetto ai numerosi altri scritti precedenti i motivi del suo dissenso dalle scelte linguistiche e stilistiche del commediografo. Riconoscendogli, dunque, un’assoluta primazìa nella 126 scrittura nel «dialetto veneto del volgo nel quale era dottissimo», Gozzi rinfaccia al Goldoni autore in italiano di essere «de’ più goffi, bassi, e scorretti scrittori del nostro idioma» (I.267), riformulando un’accusa già mossa nella Tartana degl’influssi per l’anno bisestile 1756 – ossia nel manifesto della polemica antigoldoniana e, in generale, della critica contro la produzione teatrale contemporanea 20. Pur essendo «nato coll’istinto da poter fare delle ottime Commedie», il Goldoni è – per il Gozzi delle Memorie – ostacolato dalla «poca coltura», dal «poco discernimento» e dalla «fretta con cui doveva comporre ogn’anno una infinità d’opere nuove teatrali per sostenersi» (I.268). Le riserve strettamente linguistiche e stilistiche si accompagnano – nel giudizio su Goldoni come in quello sulla letteratura contemporanea in generale – a obiezioni di carattere morale che, pur essendo da quelle distinte, finiscono per confondersi con esse, appannando in parte il senso delle critiche allo stile del commediografo. Sul riconoscimento dell’«abilità indicibile d’innestare tutti i dialoghi in dialetto veneziano», propria dell’autore dei Pettegolezzi delle donne, grava dunque la riserva ideologica e letteraria circa un realismo qualificato da Gozzi nulla più che come «mendicume di verità». E sulla straordinaria capacità mimetica di caratteri come quelli della Putta onorata incombe il giudizio moralistico che condanna la presenza (vera o presunta) «di espressioni oscene, di circostanze sollecitatrici la lussuria, di equivoci sporchi, e di laidezze» (I.281). Critiche ancor più pesanti, ma espresse solo di passata nelle Memorie inutili, investono poi la produzione poetica del «buon amico» Goldoni (come lo stesso Gozzi si premura d’indicarlo): sull’imperizia dell’avversario come verseggiatore, del resto, egli faceva leva, in quegli stessi anni, in uno scritto il cui disegno complessivo si rivolgeva contro un altro nemico, ben più temibile sul piano della riflessione linguistica: la Chiacchiera .. intorno alla lingua litterale italiana, pensata come risposta al Saggio sopra la lingua italiana di Melchiorre Cesarotti (cioè alla prima redazione del futuro Saggio sulla filosofia delle lingue, uscita nel 1785), ma a quanto pare composta ben più tardi, cioè attorno agli anni di pubblicazione delle Memorie inutili 21. Al manifesto del rinnovamento linguistico illuminista, 20 Cfr. Gozzi 1962, p. 1076, dove si parla del «signor Goldoni, al quale la nostra pura favella italiana non ha punto di obbligazione, essendosi egli contentato della sola grazia dei dialetti di Venezia e di Chioggia», con trasparente allusione alle Baruffe. 21 La Chiacchiera è stata pubblicata da ultimo da Vaccalluzzo 1933, in un’edizione non impeccabile: si cita qui dal testo approntato per la nuova Edizione Nazionale da Marta Vanore, 127 Gozzi oppone il programma di un severo classicismo fondato sul «doversi studiare e imparare spezialmente da non toscani la lingua litterale italiana, come si studiano e imparano le lingue morte» (§ 72): un concetto sul quale il conte Carlo si sofferma anche nei Ragionamenti sopra una causa perduta (scritti, a quanto pare, «non prima del 1794», ma anteriormente alla Chiacchiera 22) che delle Memorie inutili appaiono, almeno per quanto riguarda la riflessione linguistica, quasi un cartone preparatorio: «Giammai il nostro bell’idioma, per essere disotterrato e ravvivato, ebbe la necessità d’oggidì, d’essere studiato e imparato come le lingue morte» 23. Se, come si è visto, per intellettuali come Muratori e Vallisneri il volgare era superiore al latino proprio in quanto «lingua viva» (persino il Salvini, nelle sue annotazioni alla Perfetta poesia aveva deplorato coloro i quali «vorrebbero la Lingua Toscana, Lingua morta, per non avere la pena di studiare, se non i Libri d’un solo secolo» 24), per l’anti-illuminista Gozzi l’avvenuto sovvertimento delle strutture e della «coltura del nostro idioma» ha reso la «lingua litterale italiana» (fiorente fino a tutto il secolo XVI) simile a una «lingua morta» da apprendere per via libresca. È un tema che egli riprende, rielaborandolo, da uno spunto di Bernardo Davanzati, «egregio fiorentino scrittore del detto secolo mille cinquecento», e che già un campione dell’oltranzismo purista veneto primosettecentesco certo non ignoto al Gozzi, Giulio Cesare Becelli, aveva espresso in termini perentori («L’esempio o il modello, cioè gli scrittori, sono morti. Dunque la lingua italiana si dee dir morta» 25). D’altra parte, in anni più vicini a quelli delle Memorie inutili un analogo assunto (l’italiano letterario è una lingua morta sui generis) era tornato anche, ma con declinazione ideologica ben diversa, in un autore al di sopra di ogni sospetto di purismo, il Parini delle lezioni sui Principi fondamentali e generali delle belle lettere, testi (rimasti inediti in quegli anni, ma i cui contenuti circolavano nella cultura, che ringrazio per avermene concesso la lettura in anteprima. Secondo Accame Bobbio 1951, p. 43, la composizione della Chiacchiera risalirebbe addirittura al 1798; sulla cronologia di composizione della Chiacchiera e sul suo intimo legame con la pubblicazione della Marfisa bizzarra si veda ora Vanore 2004, pp. 48-49. 22 Cfr. rispettivamente Accame Bobbio 1951, p. 43 e Vanore 2004, p. 49. 23 Cfr. Vaccalluzzo 1933, p. 113. 24 Il passo è richiamato da Migliorini 1987, p. 481. 25 Becelli 1737, p. 91 cit. da Vitale 1984, p. 367. Sullo scritto becelliano si soffermava già Toffanin 1924, p. 275, rilevandone la consonanza, su questo punto, con quello di Muratori e Salvini: «A noi è facile riconoscere che, anche nel pensiero del Becelli, c’è un soverchiante residuo umanistico: ma c’è tanta libertà quanta occorre per muovere i passi verso il romanticismo; e si contenterà di questa il Baretti». 128 soprattutto lombarda, del tardo Settecento) nei quali il concetto di «lingua nobile comune italiana», sospeso tra legame con la tradizione e «ragionevole» apertura alla modernità, appare per molti versi intermedio tra quello gozziano di «lingua litterale» e quello spregiudicatamente novatore del Cesarotti 26. Tornando a Gozzi, una trama di contatti testuali collega dunque la Chiacchiera, i Ragionamenti e i capitoli delle Memorie inutili dedicati alla critica (non solo linguistica) contro gl’illuministi italiani. Così, se il tema dell’apprendimento dell’italiano «come una lingua morta» non riecheggia esplicitamente nell’autobiografia, l’immagine dell’«italiana volubilità» simile al bracchetto «sempre in traccia ... di nuove illusioni» ricorre in un luogo della Chiacchiera dedicato alla moda dei neologismi d’importazione francese: ... quella moda fattucchiera medesima che fa vedere il gusto squisito cambiato di mese in mese nel modello delle cuffie, delle fibie, de’ bottoni, del taglio de’ vestiti, degli occhielli, delle braghe, de’ colori di fumo di londra di fango di Parigi, di sospiri d’amanti, di merdoà, e in altre simili fantasticherie e balordaggini della leggerezza degli uomini e delle femmine, bracchetti in perpetuo movimento di rinvenire un gusto che non esiste (§ 29) E ritorna, ulteriormente variata, nelle stesse Memorie, in un passo dedicato ancora alle «inumerabili follie della moda», questa volta con riferimento alle novità filosofiche e morali introdotte dall’illuminismo d’Oltralpe: Il contemplare donne divenute uomini, uomini divenuti donne, donne, ed uomini divenuti scimie; tutti immersi nello studio delle scoperte, e principalmente nelle invenzioni, e ne’ cambiamenti delle inumerabili follie della moda; in traccia come bracchetti di sedursi gl’uni con l’altre, le altre con gl’uni; gareggiare nelle lascivie, e nel lusso per rovinarsi, e per desolare le loro famiglie a vicenda; ridersi de’ Platoni, de’ Petrarchi; lasciare la vera sensibilità del cuore inoperosa; credere la brutalità de’ sensi leggiadramente vestita, sensibilità; cambiare la indecenza in decenza; chiamare ipocriti tutti quelli che pensano diversamente, ed ardere incensi con filosofica solennità al culto del Dio degl’Orti, furono tutte cose che dovevano presentarsi agl’occhi miei 26 Cfr. Parini 1951, pp. 532 s. Su questo passo ha richiamato l’attenzione Bruni 2007, p. 191 («Parini si riferisce alla “lingua nobile comune italiana”, all’italiano letterario formatosi lungo la tradizione, e lontano, in Toscana e ancor più nel resto d’Italia, dalla lingua della comunicazione fiorentino-toscana, che pure ha fornito la base»). I Principi generali e particolari delle belle lettere costituiscono la materia, rimasta incompiuta nell’elaborazione, del corso tenuto da Parini negli anni 1773-1775 nelle scuole di Brera. 129 in un’aspetto di lagrimevole Tragedia, e tuttavia non furono mai che una Farsa piacevole all’interno mio niente stupefatto, e niente ammiratore de’ capigiri dell’umanità (III.108-109). Ancora, il termine pregiudizio, cui la Chiacchiera allude come «vocabolo che [gli illuministi] han perpetuamente sulle labbra, e di cui qualificano tutto ciò ch’è contrario alle loro sognate novelle scoperte» (§ 75), nelle Memorie è fatto oggetto di un’annotazione sarcastica, analoga a quella che negli stessi anni altri intellettuali reazionari (ad esempio il Thjulen), proponevano per tanti altri termini del linguaggio rivoluzionario 27: Ho detto, che questo vocabolo fu ridotto ad un’essenza opposta al di lui vero significato, perocché , secondo i principj miei, i quali non andranno esenti dalla vergogna d’esser chiamati pregiudizio dagl’innovatori, ho dovuto sempre credere con fermezza, che a ciò che non nuoce, anzi giova, ed è necessario all’intera umanità, non si possa dare il titolo di pregiudizio, ed è facile il dar la prova alla mia proposizione. (I.253) La partecipazione di Gozzi al dibattito linguistico settecentesco conosce dunque due fasi distinte – pur se collegate da un interesse non interrotto e da un coerente esercizio letterario – riflesse in opere separate da vari anni. Alla prima fase, coincidente con gli anni d’attività dei Granelleschi e con l’infuriare delle polemiche (soprattutto letterarie) che coinvolsero anche Goldoni e Chiari, si ascrivono opere come gli Atti accademici dei Granelleschi – nei quali la figura del conte Carlo è seminascosta e quasi confusa con quella degli altri rappresentanti dell’allegra brigata – e la Tartana degl’influssi per l’anno bisestile 1756 – ben più rilevante per il versante delle polemiche letterarie che per quello delle discussioni sulla lingua e sullo stile, che pure vi si accampano, mescolandosi alle considerazioni sulla decadenza del «gusto». Alla seconda fase, frutto di una riflessione più Il nesso «volgar pregiudizi» ricompare anche in un passo del dramma spagnolesco La principessa filosofa, un rifacimento del Desden con el Desden di Agostino Moreto, nel quale l’autore veneziano pone in bocca alla protagonista Teodora un’antifrastica esaltazione del «secol felice» dell’Illuminismo; il passo è notato – e collegato alla digressione delle Memorie inutili – da Ricorda 2006, p. 106. E a proposito del termine pregiudizio cfr. Dardi 1992, p. 470: «la sua comparsa in it., a quanto pare non anteriore alla seconda metà del Settecento, in autori e contesti caratteristici della nuova temperie intellettuale, la sua sfera d’impiego come mot-témoin del razionalismo settecentesco, l’altissima frequenza sembrano difficilmente separabili dall’esempio francese». 27 130 matura e di una trattazione più articolata, si riferiscono la Chiacchiera intorno alla lingua litterale italiana e le stesse Memorie, che delle opere precedenti costituiscono un’integrazione – nel campo più vasto di un generale bilancio culturale – e uno sviluppo polemico. 3. Culto degli antichi e critica dei moderni nelle Memorie inutili Come quasi tutti gli autori settecenteschi di autobiografie, Gozzi non manca di ripercorrere le tappe più significative della propria educazione linguistica e letteraria: il che è tanto più naturale, in lui, vista l’importanza che simili questioni ebbero nella sua riflessione successiva. Il suo apprendistato linguistico giovanile subisce gli effetti delle difficoltà economiche in cui la famiglia versa fin dagli anni della sua fanciullezza, e che tanto contribuiscono al velenoso clima domestico descritto nelle Memorie. Se i due fratelli maggiori Gasparo e Francesco avevano potuto accedere all’istruzione dei collegi gesuitici, ricevendo un’educazione conforme ai canoni di quella Ratio che giusto Gasparo contribuirà a riformare, nella seconda metà del secolo, dopo l’emarginazione e poi l’espulsione della Compagnia di Gesù da Venezia, le sostanze dei Gozzi non bastano ad assicurare anche a Carlo la stessa trafila. Così, egli viene affidato prima a un «dotto Parroco di villa» (a Visinale), e poi, a Venezia, a un «Prete (...) d’una dottrina sufficiente, e d’ottimi costumi». Successivamente, accede a «un Licèo di due Sacerdoti genovesi», nel quale un curriculum di studi italiani che egli giudica favorevolmente («la poesia, la lingua purgata italiana, e l’eloquenza erano in quel tempo studj in andazzo, e pregevoli» I.13) è integrato dall’esempio e dal concreto magistero del fratello Gasparo, «la cui passione per gli studj era pubblicamente lodata». Per una volta, dunque, il topos dell’inadeguata educazione infantile riscattata da letture personali, variamente modulato già nelle autobiografie d’inizio secolo e ancora fortunatissimo in quelle successive alle Memorie inutili è, almeno in parte, rovesciato. La rappresentazione positiva – con tratti d’idealizzazione nell’immagine del fratello nel ricordo delle «adunanze de’ giovanetti in Venezia», che ancora una volta riecheggia fedelmente passi analoghi della Chiacchiera e dei Ragionamenti ... sopra una causa perduta – appare funzionale più alla deplorazione del presente che a un convinto omaggio alla didattica primosettecentesca 28. 28 Cfr. Chiacchiera, § 38. E per i Ragionamenti, Vaccalluzzo 1933, p. 118. 131 Più che la difesa di quel sistema scolastico, infatti, a Gozzi sta a cuore la critica corrucciata di un’istruzione la cui decadenza è particolarmente grave proprio nel campo delle lettere italiane, della «grammatica» e dell’«ortografia». La voce del Granellesco s’insinua nella narrazione degli anni ormai lontani dell’infanzia di Carlo: «Vedo un’infinità di giovani scapestrati, nani superbi, presuntuosi, leggeri, oziosi, e perniziosi» (I.13). L’apprendimento giovanile della «purgata lingua d’Italia» si svolge, per Carlo, con applicazione così assidua da causargli danni di salute («mi cagionarono un’emoraggia di sangue dalle narici così eccessiva, che replicandosi di quando in quando fui giudicato morto ben quattro volte come Seneca», I.15). Nel sottolineare i capisaldi di un’educazione fondata sull’imitazione dei classici e sulla loro laboriosa assimilazione, Gozzi pone l’accento sull’insufficienza della pura e semplice sequela degli antichi, e sulla necessità di una intelligente rigenerazione del loro patrimonio linguistico. Il Gozzi anziano e – almeno per quanto riguarda le vicende giovanili – serenamente impegnato in un bilancio retrospettivo è coerente con quello, tutto concentrato sull’attualità, delle polemiche e delle battaglie culturali anti-illuministiche: Ho voluto imitare lo stile di tutti i Scrittori antichi Toscani più celebrati. Sono certo di non essere mai giunto alla lor perfezione, ma sono certo ancora, che la lettura indeffessa, non superfiziale, d’una montagna di buoni libri, che trattano di tutte le materie, non lascia, una migliore testa della mia, vuota né di lumi, né di nozioni, né della facoltà di riflettere, e di conghietturare con aggiustatezza, né di morale, e sono altresì certissimo, che l’esercizio efficace dell’imitazione nello scrivere, insegna la facilità dell’esprimere le proprie idee colle tinte, co’ termini, colle frasi differenti, o adeguate a quelle immagini gravi, famigliari, e facete, che nascono negl’intelletti nostri, e vogliamo altrui comunicare sviluppate, nel loro vero aspetto, e ben tinteggiate, con delle prose, o de’ versi. (I.16) Anche in questo caso Gozzi non si limita alla valutazione del proprio personale percorso intellettuale, e scivola in un confronto polemico con la cultura contemporanea: poche righe ancora, e il conte Carlo torna all’attacco dei «molti libri italiani moderni ripieni di false immaginazioni, di sofismi, e soprattutto d’un’eloquenza, e d’una dicitura sempre eguale in tutte le materie che trattano». È il linguaggio dei philosophes, in realtà più un fantasma che una salda realtà, nel senso che l’offensiva polemica non riesce a conferirgli tratti di riconoscibilità più precisi di quelli che lo deprecano come lingua «lorda di gergoni, d’ampollosità, di goffaggini, di periodi vorticosi, ed oscuri, e d’un frasario ridicolo» (I.17: di «gergoni lombardi e 132 veneziani» discorreva la Tartana a proposito delle fatiche durate da Daniele Farsetti «per formare uno stil netto e purgato» 29). Tali accuse generiche non si chiariscono nemmeno quando l’obiettivo polemico è ristretto al linguaggio della “scienza piacevole” tanto in voga al tempo; quando cioè Gozzi contrappone la lingua di un Francesco Redi alla «incolta, impura, impropria, e spropositata dicitura» dei suoi settatori moderni. Tradendo, una volta di più, un’avversione più ideale e morale che propriamente stilistica. In un solo caso, forse, il biasimo per la lingua dei Moderni appare più circostanziato, pur se di fatto riferibile ad un solo autore, cioè all’odiosamato Goldoni. Si tratta della caratterizzazione negativa del linguaggio burocratico e avvocatesco tipico della Serenissima, che rovescia il topos goldoniano della gradevolezza del «veneto stil», ossia dell’eloquio caratteristico dei giuristi veneti, e recupera un motivo presente in vari altri luoghi dell’opera gozziana, a partire dai velenosi accenni della Tartana a «certo stile tonante o da scritturacce di piatitori» 30. Per ragioni diverse rispetto a Goldoni, quel linguaggio era ben familiare anche a Gozzi, perennemente angustiato dalle vertenze giudiziarie che si trascinano per anni nella sua famiglia e che emergono di continuo nel racconto biografico delle Memorie. Maturata attraverso le personali traversìe familiari, l’avversione per l’ambiente avvocatesco e il suo caratteristico linguaggio è esasperata dalla compiaciuta esibizione che Goldoni ne fa nella sua prosa, confluendo sia nelle pagine dell’autobiografia consacrate alle vicende familiari, sia in quelle direttamente legate alle polemiche antigoldoniane. Un capitolo quasi intero della prima parte delle Memorie, il XXIV, è dedicato allo «studio sul cetto forense», cioè alle riflessioni di Gozzi sugli avvocati, «queste menti sublimi, sottili, e inquietissime, nodrite dalla lor balia Discordia». Il capitolo XXIX della stessa parte è costituito da un’esposizione dei «Litigi utili che annojarono certamente più me nel farli, che non annojeranno il Lettore nel leggerli», come recita il titolo: ed è un brano tutto scritto nel linguaggio del foro, in cui il ricorso insistente a tecnicismi e locuzioni caratteristiche del lessico giuridico corrisponde alla ricerca di un effetto espressivo 31. 29 30 31 Gozzi 1962, p. 977. Ibid., p. 975. Su questo aspetto dell’opera gozziana cfr. Tomasin 2009. 133 4. La lingua delle Memorie inutili Di fronte a prese di posizione così nette contro tanta parte della prosa italiana contemporanea, vien da chiedersi se, in quale misura e in quali ambiti gli usi linguistici del purista Gozzi si discostino dai tratti innovativi propri dell’italiano tardosettecentesco. Un’analisi delle Memorie inutili – resa finalmente possibile da un’edizione fedele al testo della princeps – mostra che lo scarto fra la prosa gozziana e quella dei suoi coevi avversari (sul piano linguistico e culturale) è minima nel campo fonomorfologico e sintattico, e diviene apprezzabile quasi solo nel lessico. Ciò è meno contraddittorio di quanto appaia, perché la relativa “modernità” della lingua di Gozzi è assicurata, a conti fatti, dal suo generale rifiuto di soluzioni iperletterarie o ipertoscaneggianti nelle quali più spesso cadevano scrittori dichiaratamente “novatori”. L’allineamento di massima ai caratteri generali della prosa coeva conferma l’estraneità di Gozzi a un’intransigenza conservativa e passatista che, nel giudizio dei posteri, è stata estesa dalle sue posizioni ideali alle sue idee linguistiche. Purista moderato e intelligente mediatore fra i valori della tradizione e le esigenze dell’innovazione, Carlo spicca piuttosto, fra i prosatori coevi, proprio per la naturalezza con la quale convivono, in lui, elementi tradizionali, tratti tipici dell’italiano settecentesco nonché caute (e stilisticamente motivate) aperture verso il nuovo. Il rifiuto dell’iperletterarietà e la tendenziale medietas stilistica si constatano fin nei più minuti tratti fonomorfologici: ad esempio, nella costante adozione del dittongo per forme come cuore, fuoco, luogo, nuovo, vuoto, cui i coevi romanzi “di consumo” preferivano spesso gli allotropi monottongati, di sapore letterario e melodrammatico. Scola, poi, è sistematicamente corretto in scuola nel passaggio dal manoscritto alla stampa 32 (in cui pure la forma monottongata resiste tre volte, 11, 13, 83): sebbene non si possa dimostrare che la mutazione spetti all’autore e non al tipografo, la preferenza per le forme meno letterarie sembra confermata dalla prevalenza dei tipi muor e muore contro l’isolato moro, che compare nella frase pronunciata dal padre in articulo mortis e potrebbe interpretarsi come un dialettalismo. Definitivamente scomparsi anche i dittonghi dopo consonante occlusiva 32 È il caso di I.11, II.12, I.13, I.30, I.37, I.53, I.56, I.114, I.144, I.198, I.212, II.19 bis, II.91, II.233, II.236 bis. La forma monottongata compare spesso nel romanziere Antonio Piazza, cfr. Antonelli 1996, p. 84. 134 più r, tipo pruova, truova, brieve, che erano relativamente frequenti nella prosa italiana del primo Settecento 33, ma che continuavano a trovare cittadinanza presso i romanzieri veneziani contemporanei, e in particolare nel Chiari, rispetto al quale Gozzi si rivela dunque di fatto meno arcaizzante e conservativo 34. Nei romanzi dello stesso Chiari compaiono ancora voci dittongate dei verbi seguire e negare, molto rare nella prosa del secondo Settecento: nelle Memorie inutili risponde solo il tipo monottongato segue 35, mentre un’isolata forma niego II.202, cui si aggiunge un nieghi 169v del manoscritto (non passato nella stampa), si accompagna a ben più numerosi esempi di nego, nega, neghi 36. Per il tipo tiepido (la corrispondente forma non dittongata aveva ancora modesto impiego nella prosa coeva, e in particolare ancora nel Chiari romanziere) rispondono solo arizotoniche dittongate del verbo intiepidire 37; e sono sempre dittongate anche le rizotoniche di sedere, verbo per cui il dittongo permane anzi anche in atonia (siedevamo I.89, siedendo I.175, siedeva I.247 e nelle voci di presiedere) 38. L’alternanza fra allotropi come colto e culto, volgo e vulgo, somma e summa, fosse e fusse (dove quelli con u, etimologici o, nell’ultimo caso, modellati sul perfetto, sono più arcaici e letterari) si riscontra ancora, con diverse gradazioni, nei prosatori italiani settecenteschi, compresi quelli apparentemente meno occupati da scrupoli puristici, come i romanzieri veneziani 39: è significativo dunque che le Memorie inutili presentino com33 Le forme non dittongate sono consuete anche in Gasparo Gozzi e nei coevi Baretti e Pietro Verri, cfr. Patota 1987, p. 27. 34 Cfr. Antonelli 1996, p. 87. 35 Esempi: segua II.178, segue I.26, I.44, I.217, II.344, seguo I.50, I.131, II.16, II.29, II.98, II.108, II.159, II.381, II.394, III.57, III.70, III.80, seguono I.219, I.260, II.33, II.78, II.102, II.209, II.401, cui si aggiunga il sostantivo seguito II.114, II.186, II.212, II.260. 36 Esempi: nego II.172, II.272, III.85, III.152, III.219, cui si aggiunga negano 194r nel manoscritto in un passo non presente nella stampa, e per le forme rizoatone negata I.22, I.128, negare I.155, I.234, II.vi, II.8, II.24, II.28, II.54, II.69, II.195, II.220, II.227, II.247, II.315, II.339, II.340, II.375, II.405, II.422, III.50, III.76, III.122, III.144, III.172 bis, III.185, negando I.159, I.178, negava I.170, I.192, II.74, II.270, III.172 bis, negate II.123, III.76, negarla II.287, negarlo II.313, negato II.312, II.365, negarmi III.47, III.97, negarle III.120, negassi III.122, negasti III.176, negassi III.188. Un esempio di niega si legge anche nelle Lettere: Gozzi 2004, p. 81. 37 Esempi: intiepidirono I.242, I.253, intiepidita I.253, intiepidire I.299. Cfr. Patota 1987, p. 30: «quanto a tepido “très rare dans les textes en prose des premiers siècles de la langue”, i vocabolari lo registrano rinviando a tiepido», con citazione di Castellani 1983, I, p. 124. 38 Esempi: presiedevano I.iv, presiede I.xv, I.179, I.180, III.112, pressiede II.381, presiedeva II.412, presiedono II.333, III.26. 39 Cfr. Antonelli 1996, pp. 89 s.: «in coppie come volgo / vulgo, colto / culto si registra una 135 pattamente i tipi “moderni” colto, volgo, somma e fosse, senza eccezioni sia nella stampa, sia nel manoscritto (summa, tuttavia, si trova nelle Lettere, ed è forse favorita dall’influsso del dialetto 40). Relativamente consueto, nel primo Settecento, il mantenimento della vocale non anafonetica in forme come pontuale e pontualmente, che ricorrono anche nelle Memorie inutili 41, nelle quali il corrispondente anafonetico è invece usato sistematicamente per giunto e forme affini 42 e inoltre per lungo (mentre longo compare ancora nei romanzi del Chiari 43). La preferenza accordata alle serie prefissali con di- e ri- rispetto a de- e re – si spiega in primo luogo con la forte alternanza che esse presentavano in generale nella prosa italiana del secondo Settecento; ma non vi sarà estraneo, forse, un certo gusto per le forme toscaneggianti. Tali appaiono, ad esempio, dinotare, divoto, diretano e diserto (vera rarità nel secondo Settecento 44) da un lato, rispingere, ricolta, rimoto, ristringere dall’altro 45. Il simile vale per la generale preferenza per le forme di trafila popolare. Il tipo volgo è l’unico rappresentato, tanto nel Chiari (...), quanto nel Piazza»; tuttavia «nel Chiari anche culte», e ancora «nel Chiari colpisce la relativa frequenza del latinismo summa». Il tipo fussi ha una sola occorrenza negli spogli di Patota 1987, p. 31 (dal Neri), mentre «l’alternanza colto / culto sembra normale». 40 Cfr. Gozzi 2004, pp. 80, 213 e inoltre p. 266 (dove summa è aggettivo). 41 Esempi: pontuale I.3, I.21, I.58, I.80, I.110, I.240, II.88, II.178, III.138, III.142, III.148, III.217, pontualmente I.103, I.216, I.219, I.269, II.131, II.203, II.353, II.361, III.217, pontualità II.87, II.118, III.156, III.235, pontuali II.209, III.226, pontualissimi III.227; analogo (pur esulando dall’ambito specifico dell’anafonesi) prosontuoso II.367, III.146. 42 Esempi: aggiunta I.x, I.67, I.216 bis, I.259, III.39, III.150, aggiunte II.355, aggiunto I.218, II.251, aggiunti I.139, congiunto II.13, II.370, II.373, II.376, III.84, congiunti I.iii, I.56, I.118, I.154, I.157, I.179, II.63, II.426, III.9, III.23, III.97, III.211, III.212, III.233, giunto I.11, I.16, I.54, I.65, I.105, I.114, I.124, I.148, I.155, I.203, II.56, II.104, II.131, II.132, II.170, II.225, II.227, II.250, II.301 bis, II.327, II.388, II.408, III.138, III.142, III.178, III.189, III.192, III.195 bis, III.196, III.197, giunta II.60, II.105, II.117, II.130, II.139, II.150, II.174, II.215, II.234, III.156, giunte II.150, II.286, II.389, giunti II.239, III.120, III.154, III.159, disgiunta I.45, disgiunti I.229, I.256, II.29, disgiunto I.58, disgiunte I.239, I.269, II.54, giunta I.123, giunti I.61, I.147, I.160, I.273, II.48, II.162, sopraggiunto II.44, aggiunta II.111, II.410, II.415, II.421, disgiunta III.24, aggiunte III.39 bis, giunte III.192. La stessa distribuzione si riscontra anche nelle Lettere, dove si ha pontuale, impontuale e pontualità, ma sempre giunto e forme affini. 43 Cfr. Antonelli 1996, p. 91. 44 Non ne registra alcun esempio Patota 1987, p. 34, contro numerose occorrenze del tipo con de-. 45 Esempi di forme notevoli con di-: dinota III.6, dinotai II.126, dinotando I.vi, II.198, dinotante II.284, dinotanti I.235, dinotare I.247, II.49, dinotasse I.203, II.115, dinotassero II.372, dinotato II.62, dinotava I.144, I.167, I.283, II.62, II.198, II.222, III.143, dinotavano I.viii, II.43, dinotò II.162; divota III.151 bis, III.152 bis, II.153, divotamente I.106, divoti I.47, divoto I.55 bis, I.401; diretani I.58, III.33, diretano I.42, II.31; diserto I.118, I.263, II.49, II.135, II.154, II.236; divota I.151 bis, I.152 bis, I.153, divotamente I.106, divoti I.47, divot(issi)mo II.401, di- 136 forma nimico 46 (ben frequente, assieme ai suoi derivati, nelle Memorie inutili, e nettamente maggioritaria a fronte di un isolato nemici II.153, per il quale si potrebbe sospettare una svista nella stampa, se non fosse che i due tipi oscillano anche nelle Lettere 47); mentre in direzione opposta (cioè contro la tradizione culta e letteraria) va la scelta di desiderio e delicato in luogo di disiderio e dilicato 48 - forma, quest’ultima, impiegata ancora da vari autori del secondo Settecento, anche di fede antipuristica (come il Bettinelli e Pietro Verri) 49. Forme con assimilazione regressiva delle vocali toniche del tipo di anotomico I.88, anotomica II.16 (che prendono il posto di annotomico, annotomica del manoscritto), anotomiche I.218, anotomizzare I.133, anotomista II.1, e di osofago II.419 hanno discontinua occorrenza nella tradizione letteraria, e perciò non appaiono, a quest’epoca, particolarmente connotate 50; diverso il caso di forfante, che è forse influenzato dal dialetto 51. voto I.55 bis (inoltre 225r nel manoscritto); dimonio I.91, I.108, II.81, II.122, III.179 (contro un caso di demonio III.200), dicembre II.290, II.223, III.29, III.38, III.39 bis, III.47, III.94. 46 Esempi: nimica I.109, I.26, II.55, II.238, II.246, II.253, II.266, II.310, II.314, II.364, II.382, III.95, nimico I.xii bis, I.19, I.288 bis, I.296, II.3, II.37, II.38, II.91, II.128, II.138, II.182, II.258, II.275, II.310, II.353, II.387, II.425, III.16, III.103, nimiche II.4, II.140, II.146, II.195, II.208, II.345, II.377, II.382, nimici I.xiv, I.3, I.4 bis, I.11, I.14, I.24 bis, I.49, I.69, I.74, I.93, I.110, I.166, I.172, I.190, I.191, I.200, I.244, II.v, II.ix bis, II.xiii, II.3, II.29, II.39, II.78, II.83, II.92, II.101, II.109 bis, II.138, II.140, II.145, II.158, II.168, II.170, II.185, II.192, II.211, II.239, II.264, II.268, II.274, II.279, II.286, II.333, II.336, II.342, II.345, II.357, II.374, II.375, II.383, II.405, II.406, II.422 bis, II.423, II.427, III.16 bis, III.23 bis, III.24 ter, III.25 bis, III.46, III.53, III.54, III.63, III.93, III.190, III.212, III.230, nimicissima II.362, II.423, nimicissimi II.83, nimicissimo I.243, nimicizie II.348, II.406, II.423. 47 Cfr. Gozzi 2004, pp. 139, 177; nella lettera 18, di cui esistono tre redazioni autografe con minime varianti, si ha appunto passaggio da nimici a nimici, come Soldini rileva nella Nota al testo di Gozzi 2004, p. 308. 48 Esempi: desidera II.340, desiderai I.121, desiderare I.219, II.viii, II.90, II.99, II.319, III.178, III.200, desiderarono I.219, desiderasse III.43, desiderata III.172, desiderate II.108, II.218, desiderato I.300, II.32, II.206, II.348, III.169, desiderava I.174, I.175, I.176, II.1, II.45, II.51 bis, II.60, II.72, II.183, II.193, II.215, II.220, II.307, II.316, III.199, III.238, desideravano II.145, desideravate III.84, desiderio I.xv, I.2, I.26, I.32, I.68, I.135, I.140, I.183, I.184, I.215, I.230, I.234, I.238, I.284, II.44, II.65, II.68, II.102, II.162, II.220, II.222, II.228, II.247, II.258, II.277, II.278, II.283, II.286, II.310, II.344, II.359, II.365, II.370, II.373, II.374, II.377, II.390, II.391 bis, II.422, II.426, III.12, III.28, III.33, III.69, III.84, III.100, III.131, III.157, III.221, desiderj I.8, I.116, I.163, I.242, I.244, I.256, II.208, II.303, III.110, III.159, desidero I.116, I.201, II.178, II.199, II.216, II.293, II.358, III.162, desiderò III.197, desiderosi I.214, II.392, II.405, II.414, desideroso I.97, I.272, II.222, II.255, II.419. 49 Cfr. Patota 1987, p. 127. 50 Per il tipo anotomia e affini la LIZ riporta occorrenze a partire da Lando: l’astratto compare anche nel Bandello e nel Marino; e lo stesso Gozzi del Ragionamento ingenuo impiega anotomizzati. 51 La LIZ riporta esempi prevalentemente non toscani, e in particolare da autori come Ruzante, Giovan Francesco Straparola e Carlo Maria Maggi. 137 Se non molto significativa è l’alternanza fra romore (qui più frequente, ancora una volta in accordo con l’uso di autori come il Chiari) e rumore 52, per il tipo stromento/strumenti, Carlo adotta – al pari di Gasparo – la sola forma “moderna” con u, contro la tradizione e l’uso di molti altri prosatori contemporanei (tra i quali il Chiari romanziere) 53; anche incombenza II.379 era, all’epoca, forma meno comune del corrispondente allotropo con u 54. Interessante il caso di nodrire, che in vari prosatori contemporanei oscillava con nutrire: l’edizione delle Memorie inutili presenta solo il tipo con o 55, di contro all’uso testimoniato da altri autori veneziani coevi, come il Piazza e lo stesso Gasparo Gozzi 56, ma in conformità con il Chiari romanziere 57. Il tipo ricolta «non è del tutto sconosciuto alla prosa secondosettecentesca», ed è impiegato occasionalmente anche da Gasparo 58; nelle Memorie inutili esso si alterna con raccolta con prevalenza di quest’ultimo, e dunque in linea con l’uso medio coevo 59. Al contrario, il prevalere del tipo dimanda su domanda (che pure è presente) 60 è un tratto arcaico, non condiviso dalla prosa del fratello, ma anche in tal caso comune a quella di un romanziere come Esempi: romore I.87, I.203, II.58, II.303, III.136, III.139, III.140, III.197, romori I.196, I.222, II.126, II.166, romorìo II.295, romorosa I.264, II.166, II.167, II.379, II.404, II.431, III.241; di contro si ha: rumoroso I.260, I.281, rumore III.140. 53 Esempi: strumento II.xiii, II.310, II.320, strumenti I.39, I.44, istrumento I.144, I.220, II.349, III.56, istrumenti I.221 bis, instrumenti I.204. Cfr. Patota 1987, p. 40: «Stromento era, nell’Ottocento, variante meno comune di strumento. Per quanto riguarda i testi settecenteschi, vi ho incontrato sia stromento (...), sia instrumenti (...), strumenti (...), strumento (...)». 54 Cfr. Patota 1987, p. 41: «C’è qualche altro elemento per poter ritenere che incumbenza e romore fossero più in uso dei rispettivi allotropi: indicazioni lessicografiche e riscontri dei testi offrono in tal senso un quadro abbastanza concorde». 55 Esempi per obbedire: obbediente I.vii, I.21, I.140, I.259, I.283, I.284, II.303, II.399, III.83, obbedire I.11, I.21, I.64, I.67, II.vii, II.187, II.224, II.277, II.404, III.75, obbedirli II.264, obbedirlo I.281, obbedirsi II.297, obbediti II.369, obbedito I.196, I.217, obbediva I.167, III.420, III.422, obbedita II.389, obbedito II.114, II.394, II.396, II.405 bis, cui si aggiunga disobbedienza I.68, obbedienza I.68, I.77, II.189, II.274, II.350 bis, II.359, II.361, II.374, II.377, III.54, III.74; di contro a ubbidire I.223. 56 Per il Piazza cfr. Antonelli 1996, p. 100; per Gasparo, cfr. Patota 1987, p. 40. 57 Cfr. Antonelli 1996, p. 100. 58 Cfr. Patota 1987, p. 135. 59 Si ha: ricolta I.73, I.143, I.163, I.167, I.179, I.292, II.xvi, II.7, II.28, II.111, II.135, II.147, II.155, II.258, II.421, ricolte II.46, II.151, II.239, II.201, II.204; di contro: raccolse I.241, raccolsi II.186, II.323, II.332, III.155, III.178, raccolta I.114, I.237, I.273, I.287, I.294, II.337, III.212, raccolte I.28, I.233 bis, I.234, I.251, I.259 ter, I.284, I.286, I.287, I.293, I.296, II.338, raccolti II.280, III.49, raccoltina I.294 bis, raccolto I.36, III.39, III.49, III.122. Solo nel manoscritto compare ricogliere 149r. 60 Esempi: dimanda I.176 ter, I.224, II.287, II.311, II.344, II.365, II.398, II.423 bis, dimandati I.166, dimande III.25, III.141; di contro: domanda III.161, III.217. 52 138 Piazza (nello stesso Chiari, del resto, non mancano esempi degli allotropi con vocale palatale) 61. Più interessante il fatto che al tipo dimani dominante nel manoscritto corrisponda quasi sempre domani nella stampa: ma ancora una volta, è impossibile accertare se si tratti di un intervento autoriale 62. Senza eccezioni è poi il tipo somigliare (l’allotropo simigliare, a suo tempo caro ai puristi come Di Capua e Becelli, era decisamente raro nella prosa italiana dell’epoca 63). Quanto al consonantismo, l’oscillazione fra scempie e doppie dopo alcuni prefissi è a tal punto diffusa e irregolare nella prosa di autori italiani di ogni provenienza, che quasi per nulla rilevante è la comparsa di tipi come addattare (accanto a adattare), dettrazione (accanto a detrazione), innoltrare (accanto a inoltrare), proccurare (accanto a procurare: ma in questo caso le forme con la scempia del manoscritto vengono sostituite quasi tutte nella stampa), ommettere 64 (accanto a omettere) e affini 65. Non molto significativo è anche il frequente raddoppiamento della consonante centrale in parole sdrucciole come Steffano, scattola e presside (oltreché nel verbo gruffolare, a partire da voci sdrucciole come gruffolo, gruffola) 66, che estendono ipercorrettivamente un fenomeno che per altre forme (come femmina, sistematicamente istaurata nella stampa in luogo di femina del manoscritto 67) è regolare. 61 Cfr. Patota 1987, p. 46 e Antonelli 1996, pp. 103-104. Esempi: domani II.184, II.264, II.293, II.323, II.344, II.346, II.347 bis, II.350, II.352, II.353 bis, II.357 bis, II.358, II.359, II.360, II.361, II.361, II.369 bis, II.371, II.376 bis, III.177. Notevole che nelle Lettere il tipo dimani prevalga su domani, con 11 occorrenze contro 8. 63 Cfr. Patota 1987, p. 47. 64 Esempi: addattai II.38 di contro a adattai I.50, adattava I.166, I.210, adattate II.19, adattarmi I.25, adattano I.91, adattato I.154; dettrazioni II.viii, II.282 bis, II.286, II.296, III.14, III.18, III.24, III.30, III.50, III.78, III.93 di contro a detrazione II.75, detrazioni I.xii, I.61; innoltrandomi I.38, innoltrato I.196, I.199, III.194 di contro a inoltrarsi I.32, inoltrava II.170, II.250, inoltri III.161; ommette II.245, ommetterlo II.67, ommetteva II.93, II.278, ommetto I.132 di contro a omettersi I.112 (ommettersi nel manoscritto, 47r); proccura I.149, proccurar I.81, II.373, proccurare I.141, I.234, II.96, II.165, I.176, I.199, I.236, I.254, II.271, II.285, II.312, II.360, II.361, II.376, II.413, III:104, III.213, proccurarle II.88, II.101, II.110, III.30, proccurarlo II.303, proccurarmi I.172, I.230, proccurarsi II.306, II.349, II.406, proccurarvi I.202, III.70, III.76 di contro a procurarsi I.127 (nel manoscritto probabile correzione su proccurarsi 53v). 65 Alcuni esempi: avvanzata II.370, II.419, III.125, II.175, avvanzamenti I.36, avvanzamenti II.158, avvanzamento II.22, II.202, avvanzare I.177, avvanzata I.84, I.104, avvanzati I.235, avvanzato I.131, II.258, avvanzava II.236, avvanzi I.296, II.326, avvanzo I.198, I.225; commitiva I.63, II.61, II.154, prevvisioni I.63, ecc. 66 Esempi: Steffano I.90 (istaurato in luogo di Stefano del manoscritto, 38v), I.102, I.103; scattola II.218, scattole III.30; presside II.153, gruffolare III.111. 67 Alle forme femmine II.63, II.100 bis, I.101 corrispondono nel manoscritto femine 119r, 133v bis; ma nelle Lettere si ha sempre femmina e simili, pp. 156, 253, 284. 62 139 Spesso, poi, si osserva il raddoppiamento incongruo di consonanti, favorito soprattutto dall’attrazione di forme con la doppia che, pur avendo diverso significato e diversa origine, nella pronuncia regionale suonano allo stesso modo; così è per gitta I.90 ‘gita’, fatte III.70 ‘fate’, e penna III.182 ‘pena’, mentre per cetto I.6, I.100, I.133, I.186, I.189 bis, II.4, II.11, II.75, II.100 bis, II.347 ‘ceto’, guffo I.247, I.249 ‘gufo’, ramminghi I.194, rammingo III.6, ullularono III.128 (forse influenzato da pullulare) il raddoppiamento si deve semplicemente all’incertezza dello scrivente settentrionale; tipico è il caso di parole nelle quali la corretta geminazione di una consonante viene estesa anche ad un’altra (come in avverrato I.200, avverrata III.209, barruffe I.112, I.133 bis, scilloppata III.46 68). Speculari ai tipi appena mostrati sono le molte forme che presentano la scempia in luogo della doppia etimologica o toscana 69. Ancora, nell’alternanza fra sostantivi in -tore e in -dore (questi ultimi, di tradizione letteraria, erano ancora ben diffusi, come si è visto, nella prosa primosettecentesca e resistevano a fine secolo anche in autori scevri di preoccupazioni puristiche 70), Gozzi adotta in genere le forme più moderne: se il venezianismo Avogadore presenta la sonora, la sorda compare in un gran numero di altri termini, anche legati alla tradizione giuridico-civile (come Senatore, Proccuratore) o toponomastica (Salvatore in San Salvatore, nome della contrada di uno dei teatri in cui opera la compagnia Sacchi, la veneziana San Salvador), o ampiamente circolanti, nella tradizione letteraria, nell’allotropo con la sonora (come Imperatore, Commendatore e simili) 71. Il tipo sciloppo è ben attestato nei testi toscani della tradizione linguaiola quattrocinquecentesca: la LIZ ne dà esempi da Burchiello, Luigi Pulci, Giovan Battista Gelli, Pietro Aretino, Anton Francesco Doni; per il Settecento, risponde un esempio dalla Frusta del Baretti. 69 L’indebolimento può riguardare indifferentemente consonanti occlusive (Bibia II.x, esatezza I.107, viotolo II.146, anedoti I.viii, ricade II.109, II.408, III.128 ‘ricadde’, combricole I.37 bis, I.86), fricative (oviare I.165), liquide (cavaleresche I.8, cavaleresco II.280, milanterie III.25, III.44, III.81, malevadore II.96, II.110, II.118, II.163, II.227), nasali (iminente I.94, I.170, II.104, iminenti I.88, resistemo I.94 corretto su ressistemmo del manoscritto 40r). Per l’affricata palatale, sorda e – soprattutto – sonora, le grafie con scempia e doppia presentano una particolare instabilità in scriventi di ogni provenienza: è il caso di affacenda III.181, dilegiarli III.111, slogiai III.134 e del venezianismo piegieria II.117 (cfr. Boerio 1856 s.v. piezaria). 70 Antonelli 1996, p. 120 riporta vari esempi da Chiari e Piazza. 71 Forme notevoli: commendatore I.283, I.290, conquistatore I.61, disturbatore I.42, improvvisatore I.21, I.23, I.24 (nel manoscritto: improvisatore 12r, 12v, 13r), Imperatore I.51, ingannatore I.49, I.188, osservatore I.45, II.11 bis, II.16, II.216, II.232, II.234, II.309, II.329, II.415, III.34, III.87, III.184, III.185, Proccuratore I.150, I.192, I.233, I.240, I.252, Salvatore II.50 bis, II.51, II.53, II.68, II.150, II.153, II.154, II.275, II.287, II.301 bis, II.307, II.379 bis, 68 140 La preferenza accordata al tipo secreto rispetto a segreto (quest’ultimo più comune già nel Settecento 72) potrebbe interpretarsi come un tratto letterario e arcaizzante, ma trova riscontro in un coevo autore veneziano “di consumo” – pur incline a una patina «leggermente (e ... facilmente) arcaizzante» 73 – come Antonio Piazza, ed è forse favorita dalla persistenza, nel dialetto, della forma con sorda conservata 74; al contrario, l’alternanza fra lacrima e lagrima, col secondo più frequente del primo, è normale nel Settecento, epoca in cui anche i vocabolari consideravano più consueta la forma con la sonora 75: a prediligere quella letteraria con -gr- erano, nella Venezia coeva, ancora una volta i romanzieri come Chiari e Piazza, rispetto ai quali dunque Gozzi si dimostra di nuovo meno culto e arcaizzante 76. L’alternanza fra i tipi coperto e coverto si è ormai risolta, nel secondo Settecento, col prevalere del tipo con l’occlusiva sorda. Tramontate dunque – come in tutti i prosatori coevi – le forme con la sonora che ancora s’incontravano negli autori della prima metà del secolo, la sopravvivenza della voce covertella in locuzioni come far covertella, servire di covertella e simili, cioè ‘servire da copertura, da pretesto’, si dovrà semplicemente a un prelievo dialettale 77. Schignazzando II.368 (che ripete un tipo sporadicaII.381, III.62, III.201, III.207, Senatore I.8, I.41, I.130, I.197 ter, I.199, I.205, II.340, II.381, II.393, II.400 bis, II.402 bis, II.405, II.420, testatore I.221. 72 Cfr. Patota 1987, pp. 58-61, che tuttavia nota la frequenza del tipo con sorda nell’Ortis: «Secreto, accolto così frequentemente dal Foscolo, non sembra molto comune. I vocabolari rinviano alla forma con velare sonora. Quella con velare sorda compare in P. Verri (...). Negli altri scrittori, sempre segreta». 73 Così Antonelli 1996, p. 129. 74 Ibid., pp. 121 s.; per la forma secreto cfr. Boerio 1856 s.v. 75 Cfr. Patota 1987, p. 151. Esempi: secreta I.140, II.44, II.262, III.128, III.168, III.204, secretamente I.100, I.120, I.197, II.54, II.72, II.247, II.278, II.362, secretaria I.90, I.91, secretarie III.22, secretario I.iii, I.14, I.58 bis, I.248, II.171 bis, II.187 bis, II.205, II.263, II.275, II.282 bis, II.335, II.365, II.412, II.425, III.24, III.25, III.49, III.50, III.55, III.57, III.58, III.62, III.80, III.94, III.152, III.153, secretarj II.180, secrete I.102 bis, I.160, I.197, I.103, II.282, secretezza I.iv, I.100, I.126, I.140, I.187, I.214, II.113, II.143, II.146, II.164, II.266, II.268, II.327, III.136, III.139, III.149, III.153, III.171, III.224, secretezze II.120, secreti I.126, I.162, II.138, II.166, I.168, II.266, II.268 bis, II.279, II.282 bis, II.287, III.139, secreto I.99, I.100, I.135, I.138, I.155, I.284, I.297, I.298, II.43, II.97, II.118 bis, II.166, II.181, II.190, II.198, II.201, II.227, II.253, II.279, II.282, II.307, II.344, III.128, III.137, III.138, III.168 bis, III.170, III.171, III.225. 76 Cfr. Antonelli 1996, p. 120. 77 Esempi: «Era alieno dal seguitare la professione del soldato, e dal razzolare con delle insidiose covertelle nel Pubblico erario» I.115, «Che la padronanza del nostro Padre infermo, non era che una covertella sedotta, e adoperata dalla volontà della nostra Madre» I.126, « Il Sacchi a cui ho proccurato tanti vantaggi cerca di far me covertella al suo bavoso bamboleggiare?» II.137, «L’ombra mia non deve servire di covertella a’ vostri trapassi» II.198, «Che il volermi costringere a forza di circuizioni, e impertinenze a una comunella di visite in casa d’una 141 mente attestato in scrittori di varia epoca e di varia provenienza) si spiega forse come ipercorrettismo a partire da forme in cui il dialetto ha la velare sonora (in nesso con s) dove il toscano ha la sorda. Trattandosi di voci rare e quasi del tutto disusate nel corso del Settecento, il ricorso ai tipi giugnere, piagnere, strignere (propri del fiorentino aureo e quindi della tradizione letteraria più antica) in luogo dei corrispondenti con ng potrebbe apparire un tratto arcaizzante. Se non che, le Memorie inutili presentano simili voci in proporzioni assai disomogenee e in modo contraddittorio nel passaggio dal manoscritto alla stampa. Così, i tipi giugnere e giungere convivono con leggera prevalenza di quello arcaico 78; il tipo piagnere compare una sola volta nella stampa là dove il manoscritto presenta una forma con ng (e fa sospettare ancora l’intervento da parte dello stampatore), come in tutte le altre occorrenze, nelle quali autografo ed edizione convergono sugli allotropi più moderni 79; anche il verbo stringere e derivati si presenta sempre nelle forme argentee, che sono le stesse impiegate dalla maggior parte dei prosatori coevi 80. Per nulla arcaizzanti o letterari il participio vegnente 81 e il sostantivo ugne II.331, consueti nell’italiano tardosettecentesco 82. giovane Comica perch’io servissi di covertella, e riparo alle sciagure da lei volute contro la mia volontà» II.220. Cfr. Boerio 1856 s.v. coertèla: «Frode o sim. Ma coperta a fine d’ingannare altrui». Per il quadro della prosa secondosettecentesca, cfr. Patota 1987, p. 151. 78 Esempi: giugne I.186, II.164, giugnemmo I.123, giugnendo I.105, I.111, III.192, giugnere I.v, I.16, I.18, I.22, I.30, I.100, I.114, II.97, II.118, I.120, I.135, II.175, I.176, II.195, II.223, II.412, III.10, III.33, III.64, III.87, III.88, III.147, III.195, III.232, III.235, III.238, giugnesse I.38, II.327, giugneva I.64, II.259, II.306, III.227, III.238, giugnevano I.80, I.250, II.192, III.200, III.214. 79 Si ha dunque una sola volta piagnere I.71: il corrispondente punto del manoscritto ha piangere 31v. Per il resto: piange III.161, piangendo I.151, I.196, I.203, I.216, I.282, II.107, II.125, III.123, III.166, III.182, III.188, III.204, III.205, III.210, III.219, piangente III.132, piangenti I.139, I.231, piangere I.53, I.175, I.187, I.208, II.311, III.111, III.119, III.150, III.161, III.240, piangesse I.105, piangessero I.74, piangeva I.150, II.71, II.144. 80 Esempi: astringendoli I.24, astringenti I.47, astringere II.397, costringe II.167, II.367, III.87, III.176, costringendomi I.208, II.142, costringendosi II.325, costringerci I.178, costringere I.261, II.160, II.220, II.326, costringerla II.227, costringerle II.19, costringerli II.113, costringerlo II.371, costringermi II.305, II.330, II.130, costringersi II.325, costringessero I.127, costringeva II.87, III.171, costringevano I.137, restringersi II.360, ristringendomi I.269, ristringermi II.274, ristringersi I.217, I.280, stringendo I.130, stringendomi III.161, stringendosi I.40, stringer III.42 bis, stringersi III.159, stringeva I.197, III.191, stringevano II.412, stringimenti I.108, III.124, stringimento III.160. 81 Occ.: I.109, II.129, II.311, II.317 bis, II.318, II.351. 82 Patota 1987, p. 63, riporta per il primo esempi da Chiari e Alessandro Verri, per il secondo da Gasparo Gozzi e dallo stesso Verri. 142 Vagliono e valgono si alternano con pari frequenza, come spesso nella prosa coeva: già all’inizio dell’Ottocento, la prima era considerata «ricercata rispetto agli usi letterari correnti» 83; altrettanto normali, al congiuntivo, vaglia e vagliano 84, come pure – per il verbo convenire – la distribuzione di convegna III.135 e convengono II.xiv. Il tipo rappresentato da conghietturare I.16, I.48, I.183, e conghietture I.160, assente nell’italiano antico (che ha solo congetturare 85) e diffuso in italiano a partire dal Cinque-Seicento, è consigliato fin dalla prima Crusca (che non lemmatizza nemmeno il tipo con -ge-), e ha un’abbondante presenza nella prosa del secolo XVIII. Le forme sbaviglio I.118, sbavigliando II.235, sbavigliare II.332, e la già citata scilloppata III.46 sono tra i pochi vistosi toscanismi delle Memorie inutili. Le forme artificio, beneficio, sacrificio, ufficio e affini si alternano con i corrispondenti in -fizio sia nel manoscritto, sia nella stampa, ma in quest’ultima alcune delle forme con c si sostituiscono ai corrispondenti con z del manoscritto: il bilancio complessivo delle occorrenze fa emergere una certa preferenza per i tipi più arcaici (cioè appunto quelli con z), lasciando sospettare ancora che i mutamenti intervenuti nell’edizione vadano attribuiti allo stampatore 86. Il simile vale per spezie nel significato di ‘specie’, che oscilla col suo allotropo in entrambe le redazioni, anche se nel manoscritto è documentato un caso di correzione della prima forma con la seconda 87. La generale propensione per le forme semidotte con z è tuttavia confermata dal fatto che queste ultime sono le sole attestate per i tipi ri83 Cfr. Vitale 1992, p. 36; per riscontri primoottocenteschi da scritture non letterarie, cfr. Antonelli 2003, p. 171. 84 Esempi: vaglia I.88, I.256, III.28, vagliano III.167, vagliono I.244, I.203; di contro si ha lg due volte in valgono II.100, II.277. 85 Svariati esempi riporta ad esempio il corpus del TLIO, da Brunetto Latini ai volgarizzamenti tardotrecenteschi della Bibbia. 86 Esempi: artifizio II.9, II.257, II.271, II.292, II.293, II.336, III.59; benefizio I.15, I.115, II.5, III.225, III.235, I.239; ufficio: uffizio I.iii, I.1, I.46, I.53, I.79, I.80, I.115, I.121, I.130, I.136, I.139, I.142, I.146, I.182, I.230, I.232 bis, I.234, I.239, I.283, II.181, II.183, II.188, II.189, II.194, II.196 ter, II.197, II.234 bis, II.252, II.259, II.263, II.270, II.273 bis, II.310, II.311, II.337, II.362, II.370 bis, II.412 bis, II.414, II.416, II.420, II.424 bis, III.20, III.21, III.22, III.33, III.50, III.51, III.52, III.90; edifizio I.117, II.35, III.15; sacrifizio I.149, I.178, II.312, II.361, II.386, III.161. 87 Esempi: spezie I.3, I.5, I.267, II.9, II.25, II.36, II.94, II.112, II.122, II.184, II.192, II.264, II.302, cui si aggiungono spezialmente I.ix, I.229, I.242, I.270, I.271, I.300, II.61, II.70, II.81, II.234, II.240, II.241, II.244, II.275, II.295, III.106, di contro a: specie I.45, I.67, I.71, I.83, I.90, I.102, I.128, I.131, I.134, I.145, I.157 ter, I.164, I.181, I.277 bis, I.301, II.32, II.89, II.174, II.236, II.244, II.392, III.58, III.113, III.137, III.158, III.162, III.170, III.200, III.209. 143 nunzia, pronunzia e derivati; e inoltre dal fatto che presentano qui l’affricata dentale alcune forme per le quali nella prosa italiana si registra sempre la palatale. Se dunque pernizioso – e fors’anche sozio, forma che darà da pensare a un purista come il Cesari – può annoverarsi, con le precedenti, fra i cultismi, in altri casi, come per catenazzo, dezina e derivati, zeffo ‘ceffo’, zeppo ‘ceppo’, e inoltre bilanziato e derivati 88, è probabile l’influenza del dialetto, nel quale all’epoca la corrispondente sibilante non aveva ancora sostituito del tutto l’affricata dentale 89. Dovevano essersi già assibilate, invece, le affricate a contatto di sonante (l o r: ad esempio in forme come alzar o orzo), visto che polzo II.412, III.212, III.213 rappresenta verosimilmente un ipercorrettismo modellato su altre voci nelle quali la sequenza lz dell’italiano veniva pronunciata ls e ns nell’italiano regionale veneto; diverso il caso di zolfureo II.84, zulfureo II.257, esemplate su zolfo, e dell’arabismo veneziano arzanali II.261, per il quale la forma con z è di antica tradizione anche toscana. Tra i pochi tratti condizionati dalla pronuncia dialettale andrà annoverata anche la presenza della grafia sc in corrispondenza di s sorda, come susciego I.144 (suscieguo nel manoscritto, 60v), sfuggisci I.150 ‘sfuggissi’, scillaba I.203 ‘sillaba’, scillabe II.387, partorisce III.220 ‘partorisse’, e reciprocamente di s in luogo della sibilante palatale dell’italiano in simitarra III.140, ben spiegabile in uno scrivente settentrionale abituato a non cogliere la differenza fra i due fonemi. Anche l’isolato colgerò II.274 ‘coglierò’ (cui si aggiunge un colgendo 79v del manoscritto che diviene cogliendo I.204 nella stampa: per il resto si ha sempre il tipo con gli 90) è un venezianismo, visto che la grafia lg davanti a palatale sarà impiegata da Giuseppe 88 Esempi: perniziosa I.269, I.281, II.21, II.253, II.284, II.367, III.44, III.213, perniziose I.262, I.281, II.153, II.218, II.262, II.264, II.304, II.389, perniziosi I.13, I.18, II.352, II.368, II.395, pernizioso I.213, III.206, per altre forme, come bilanzati I.256, sbilanziato III.19, catenazzi III.218, dezina I.27, I.48, sozio I.37, I.120, I.283, soziale I.48, II.88, sozj I.41, I.134 bis, I.249, I.250, I.251, I.259, I.278, I.298, II.3, II.48, II.82, II.98, II.111, II.112, II.151, II.189, III.200, III.201, zeffo II.141, zeppo III.139 ‘ceppo’. 89 Cfr. Boerio 1856, p. 12: «Voi sentirete che non solo la plebe Veneta, ma molte altre persone hanno il bel vezzo di pronunciare il ce e il ci ed anche la z aspra, come se fossero una s dolce. Dicono per esempio sinque per Cinque, senquessento per Cinquecento, seola per Ceola, sendà per Cendà, sievolo per Cievolo; così pure cusso per Cuzzo, fassa per Fazza, sarsegna per Zarzegna, sata per Zata, saratàn per Zaratàn ec. Ma questo non è che appunto un vezzo o mendo, contratto fin dalla fanciullezza per l’ignoranza o l’inavvertenza di chi insegna a parlare». 90 Esempi: accogliere II.145, accoglierlo I.39, accoglieva II.63, III.158, cogliendo I.xii, I.188, I.204, cogliere I.75, I.111, I.238, III.100, raccogliendo I.151, II.225, raccogliere I.277, raccoglieste III.46, III.57, III.93. 144 Boerio per descrivere l’articolazione del suono risultante, in veneziano, dall’esito del nesso latino LJ 91. Venendo alla morfologia, senza eccezioni è il ricorso a tristo come aggettivo della prima classe (in luogo di triste): ma anche in questo caso si tratta della forma più consueta nella prosa del Settecento, nella quale al contrario il tipo etimologico era connotato come solenne e letterario 92. Di gusto toscaneggiante – ma usati, in quel secolo, da scrittori di ogni provenienza, sono il numerale cardinale dugento e l’ordinale cenventesima 93, il primo dei quali è regolarmente impiegato da Gozzi anche nelle Lettere. Ben più numerosi dei caratteri culti e letterari sono, anche nel campo della sintassi, i tratti antitradizionali, nel duplice senso di contrari alla norma grammaticale – in particolare a quella codificata dai grammatici primosettecenteschi come Salvadore Corticelli, di cui giusto Gasparo Gozzi criticava la ristrettezza di vedute e l’eccessivo irrigidimento normativo – e di conformi agli usi più innovativi della prosa settecentesca 94: è il caso, ad esempio, del frequente ricorso al di partitivo, spesso con preposizione (tipo «a de’ zelanti» I.195, «per de’ puri sospetti» I.196 95), la cui diffusione nell’italiano del Settecento è certo influenzata dal corrispondente costrutto del francese 96. 91 Pare che il fenomeno abbia iniziato a manifestarsi nel corso dell’Ottocento. Scrive infatti Boerio 1856, p. 12: «dicono i Toscani ed anche i Lombardi che noi non sappiamo ben pronunciare il gi avanti l’elle: per esempio le parole Pacotiglia, Spadiglia, Maniglia, Pastiglia, né Artiglier, Artiglieria, perché essi vi fanno appena sentire il g, e a noi pare che dicano Pacotilia, Spadilia, Manilia, Pastilia, Artilier, Artilieria: laddove noi le pronunciamo come se fosse scritto pacotilgia, spadilgia, manilgia, pastilgia, artilgièr, artilgieria». 92 Esempi: trista I.95, II.69, II.299, tristo I.120, I.224, II.288, II.291, III.73, cui si aggiunga tristo I.304 in un testo in versi. Per tristo nella prosa del Settecento, Antonelli 1996, p. 136 lo rileva in Piazza; la LIZ[prosa700] dà numerosi esempi in autori di tutto il secolo e di ogni orientamento stilistico (Vico, Goldoni, Crudeli, Parini, Baretti, Bettinelli, il «Caffè», Verri, Alfieri, Beccaria). 93 Si ha rispettivamente: dugento I.6, I.111, I.112, I.115, I.116, I.121, I.143, I.147, I.150, I.161, I.219, I.220, I.222, I.242, I.244, II.332, II.234, II.235; cenventesima I.122. 94 Scriveva Gasparo nella Difesa di Dante: «Arrabbio, Zatta, e dicovi più di quello che vorrei: è giunto di qua, sì, è giunto quel nuovo libro d’eloquenza italiana [il Corticelli, appunto] stampato in Venezia poco tempo fa. (...) I buoni antichi e tutti i moderni, che hanno sapore di quest’arte, non hanno mai creduto che l’eloquenza stesse nelle sole parole, come l’autore di quel benedetto libro pare che creda. (...). Qua e là vuole ricopiare i passi del Boccaccio e di Dante: e vedete voi com’egli tratta prima cotesti scrittori?» (G. Gozzi 1990, p. 86). 95 Altri esempi: «a de’ stipendj, e a delle pensioni» 230, «con de’ monosillabi» 266, «con delle insidiose covertelle» 274 «con de’ scherzj» 382, «con delle soccorrevoli graziose» 441, «con delle accuse» 446, «con de’ riflessi» 462. 96 Svariati esempi anche nelle Lettere (Gozzi 2004), soprattutto in presenza della preposizione con: «con dei maneggi» (p. 111), «con della considerazione» (p. 111), «con delle preghie- 145 Il costante impiego del pronome si per l’oggetto diretto – e il riflessivo – di prima persona plurale (cioè in luogo di ci) è invece, molto probabilmente, un tratto di ascendenza dialettale, che compare in sequenze come: «Si armammo del nostro brando... si piantammo» 257, «che si fece saltare come caprioli» 259, ‘che ci fece saltare’ «si avvezziamo a non curare» 354, «si affatichiamo» 472, «si ponemmo» 707, «si separammo» 875, «sospirando nel separarsi» ‘nel separarci’ 892, «si trovammo» 895, «si prendiamo» 902. Contrario alle prescrizioni della grammatica tradizionale (a partire da Bembo) e di quella coeva – in particolare del Corticelli – è l’uso dell’articolo il dopo la preposizione per, costante nelle Memorie inutili 97: a parte un caso («per lo passato» I.146), la sequenza per lo è impiegata solo nei tipi cristallizzatisi anche nell’italiano otto-novecentesco, cioè «per lo meno» e «per lo più», oltreché davanti a s implicata («per lo specchio», «per lo scandalo» e simili) 98; al plurale si nota una volta «per li scritti» II.xvi, ma il medesimo articolo è usato anche in altri contesti («li signori» II.46, «li quali» II.401, nel testo di una lettera di Gratarol, autore che in effetti fa un uso costante di questa forma 99). Considerato un costrutto moderno e riprovato dai grammatici del tempo è anche il tipo «il di lui», assai frequente anche nei romanzi di un Piazza, e impiegato dallo stesso Chiari più moderatamente rispetto a Gozzi 100. re» (p. 119), «con de’ sciocchi suggerimenti» (p. 124), «con de’ modi non vili» (p. 125), «con delle corde da violoncello» (p. 127), «con de’ viglietti» (p. 194), «con de’ discorsi» (p. 194), «per delle necessità» (p. 206), «con delle falsità» (p. 224), «con del pentimento» (p. 232), «con degl’autori» (p. 232), «con delle punture» (p. 274), «con del disprezzo» (p. 275), «con del fervor» (p. 317). Folena 1983, p. 37, annovera la maggior frequenza d’uso di questo costrutto nell’italiano del Settecento tra i fattori influenzati dal francese, e ne rileva la particolare intensità negli scritti goldoniani del periodo parigino (p. 382). 97 Occorrenze: I.8, I.9, I.11, I.24, I.48, I.71, I.87, I.124, I.133 bis, I.149, I.160, I.166, I.167, I.194, I.200 bis, I.214, I.240, I.269, I.275 bis, II.xvi, II.3, II.14, II.16, II.30, II.62, II.70, II.81, II.83, II.84, II.105, II.119, II.133, II.135, II.140, II.154, II,166, II.167, II.170, II.179, II.193 bis, II.196, II.198, II.205, II.212, II.219, II.228 bis, II.238, II.242, II 244, II.246, II.251, II.262, II.265 bis, II.266, II.267, II.269, II.271, II.275, II.284 bis, II.285, II.289, II.301, II.303, II.304, II.307, II.311, II.312, II.335, II.345, II.354, II.356, II.367, II.376, II.384, II.396, II.407, II.415, II.429, III.38, III.39, III.47, III.48, III.55, III.59 bis, III.60 bis, III.61, III.62, III.63, III.67, III.86, III.91, III.120, III.121, III.124, III.133, III.136, III.139 bis, III.141, III.155, III.162, III.171, III.175, III.178, III.179, III.194 bis, III.204, III.221, III.225, III.227. 98 Lievemente più tradizionalisti i romanzieri Chiari e Piazza, che usano per lo in una casistica più ampia: Antonelli 1996, p. 131. La grammatica del Corticelli 1775, p. 19 prescriveva l’uso di lo dopo per: «onde si dice: l’abate, l’orto, lo studio, per lo quale, e non mai per il quale». 99 Corticelli 1775, p. 19, elenca «i, o li» come articoli plurali, senza ulteriori specificazioni. 100 Cfr. Antonelli 1996, p. 153. 146 Una tradizione che risale al Bembo ed era «ancora vigente nel secondo Settecento» riservava la forma niuno alla prosa e la forma nessuno alla poesia 101: se già nei romanzi veneziani dell’epoca si nota, tuttavia, un netto prevalere del tipo poi invalso nell’italiano otto-novecentesco, è notevole che le Memorie inutili presentino 98 casi di nessuno e non ne presentino alcuno per la forma concorrente; lo stesso uso è osservabile nelle lettere e nelle opere in versi gozziane 102. Quanto alla morfologia verbale, del tutto conforme alla consuetudine della maggior parte degli scrittori coevi 103 è ad esempio l’impiego di -a come terminazione per la prima persona singolare dell’imperfetto (tipo io aveva): l’uscita in -o, che pure cominciava ad affermarsi all’epoca non ostante la strenua opposizione dei grammatici – tanto da prevalere, ad esempio, nei romanzi di Pietro Chiari, ma non in quelli del più tradizionalista Antonio Piazza – compare (se non ho visto male) una sola volta nell’edizione delle Memorie inutili (avevo II.6), e si tratta quasi certamente un’involontaria modifica del tipografo 104; le tre occorrenze nel manoscritto, a poca distanza fra loro (sapevo 171r, 171v e supponevo 171r) sono infatti citazioni dal testo di Gratarol, per le quali, nel primo caso, il Gozzi ha cura di correggere il primitivo sapeva uscitogli dalla penna con la forma in -o per riportare più scrupolosamente il testo da cui sta copiando. Anche nella possibile alternanza fra siano e sieno, Gozzi si allinea alla consuetudine della prosa tardosettecentesca (e alle prescrizioni grammaticali coeve, pur caute su questo punto 105), in cui la forma con e era dominante (qui è esclusiva 106), e discorda dall’uso dei romanzi veneziani, che 101 Cfr. Serianni 1982, e inoltre Antonelli 1996, p. 151. Quanto alle ultime, vi sono 23 esempi in Gozzi 2004. 103 Cfr. Patota 1987, p. 193. 104 Cfr. ad esempio ancora Corticelli 1775, p. 75: «La prima persona singulare del preterito imperfetto dell’indicativo non è già: io amavo, come dice il volgo, ma io amava, e questa terminazione in a in tal tempo, senza ch’io l’abbia a replicar di vantaggio, è comune a tutti i Verbi, ed è stabilita con fermissima regola», dove proprio l’insistenza dell’autore testimonia indirettamente della fortuna che un simile tratto volgare aveva già nell’italiano del tempo. Per i romanzieri veneziani, cfr. Antonelli 1996, p. 158. 105 Corticelli 1775, p. 66, indica sieno come forma principale e aggiunge, a p. 68: «Siano, che alcuni dicono per sieno, di tre sillabe, è riprovato dal Buommattei, siccome contrario all’uso degli Autori, che vanno per la maggiore. Io però ora nol riprenderei sì di leggieri, trovandosi in Autori moderni approvati, singolarmente nel Segneri (...) E in altri luoghi ancora». Cfr. infatti Buommattei 2007, p. 324. 106 Anche nelle Lettere (Gozzi 2004) è l’unica forma attestata: pp. 114, 130, 134, 137, 144, 145, 147, 152, 173, 177, 198, 208, 149, 260, 265, 270, 284, 307. 102 147 preferiscono siano, pur accompagnandosi all’altra. Anche in questo caso, le Memorie inutili non appaiono dunque particolarmente letterarie o arcaizzanti. Addirittura modernizzante risulta, poi, l’adozione esclusiva di devo in luogo del debbo preferito dai prosatori coevi 107: notevole è l’eliminazione, nella stampa, dell’unico caso di deggio presente nel manoscritto marciano (204v). Solo in apparenza letterario e toscaneggiante è invece l’uso esclusivo di fo in luogo di faccio, secondo la consuetudine della prosa italiana fino all’Ottocento 108. Averei, che si alterna qui con avrei, è annoverato dalla grammatica del Corticelli come uno degli «errori popolareschi, da schivarsi nelle voci del Verbo avere» 109; cambio si affianca nelle Memorie inutili a cangio: quest’ultimo era in effetti «costantemente preferito» ancora dal Foscolo dell’Ortis, mentre in Gozzi (anche in quello delle Lettere) i tipi poi invalsi nell’italiano otto-novecentesco prevalgono su quelli caduti in disuso. Influenzate dal dialetto (ma largamente impiegate, nonostante il biasimo dei grammatici, da scrittori di varia provenienza) sono le forme di condizionale del tipo di averessimo I.213 bis, III.14, cui non s’affianca alcun esempio per le forme toscane in -remmo o in -riamo 110: ma questa terminazione poteva contare su una pur filiforme tradizione letteraria almeno a partire dal Cinquecento e su una discreta sopravvivenza in vari prosatori veneziani coevi 111. L’aspetto complessivo della sintassi delle Memorie inutili conferma l’impressione di una generale conformità con le tendenze tipiche della prosa italiana del tempo: Gozzi condivide la propensione settecentesca a un andamento rapido e regolare dei membri frasali, scanditi da blocchi piuttosto brevi tra loro isolati, e raccordati da singole congiunzioni o, più spesso, da locuzioni e nessi che sottolineano la concatenazione logica fra i membri. Tali caratteri sono evidenti nella prima parte dell’autobiografia, 107 Cfr. Patota 1987, p. 209. Esempi: I.144, I.202, I.245, I.246, I.262, II.20, II.100, II.140, II.198, II.246, II.253, II.292, II.296, II.313, II.315 bis, II.320, II.331, II.342, II.347, II.349, II.357, II.364, II.371 bis, II.376, II.383, II.402, II.408, II.420, III.25, III.51, III.123, III.128, III.157 bis, III.161, III.177, III.209. Corticelli 1775, p. 82, segnala le due forme debbo e deggio come indifferenti, ma non menziona nemmeno la forma devo. 108 Cfr. Serianni 1981, p. 26-28, Vitale 1986, p. 469. Corticelli 1775, p. 77 scrive infatti: «Io fo, e poeticamente faccio». 109 Corticelli 1775, p. 71. 110 La stessa forma anche nelle lettere, Gozzi 2004, p. 100. Per la diffusione settecentesca di questo tipo cfr. Migliorini 1987, p. 489. 111 Cfr. Antonelli 1996, p. 166. 148 nella quale un andamento narrativo più veloce e uno scorrere più rapido della fabula corrispondono a una maggiore agilità stilistica; laddove il ritmo più lento e l’indugio, nella seconda e nella terza parte, sugli ambigui e logoranti rapporti con Teodora Ricci e sullo scontro col Segretario del Senato si riflettono in una maggiore complessità periodale, spesso favorita dall’inserzione di battute di discorso diretto nel corpo della narrazione, di norma segnalate dalla presenza di incisi “didascalici”, posti fra parentesi, tipo «(diss’egli)», «(rispos’egli)», «(diceva io)», «(dissi io)», ecc. Ben rare – e limitate a casi stilisticamente neutri – le inversioni di sapore boccacciano: «Salì egli nella galera Generalizia» I.39, «Risuonò l’aere per tre ore di lunghe dissertazioni ampollose erudite, e di carmi poco soavi» I.60, «Egli m’addusse, che serviva di gondoliere (...), e che abitava egli nella contrada di S. Geremia» III.218. Assai più frequenti i casi in cui la narrazione procede accostando membri frasali relativamente brevi, con effetto di estrema freschezza narrativa, ad esempio nelle pagine dedicate alle avvenuture vissute dal giovane Carlo durante il triennio trascorso come militare nelle guarnigioni veneziane in Dalmazia, al seguito del provveditore Girolamo Querini. Ecco un brano tratto dalle pagine in cui Gozzi descrive impietosamente l’arretratezza delle popolazioni dalmate: Uno di quelli delle famiglie d’una lunga serie morta pacificamente, rimproverato da un’altro di quella vergogna, volle troncare il rossore a’ suoi posteri, e incominciare i loro trofei dal farsi ammazzare ammazzando. Le zuffe, e le archibugiate tra villaggio, e villaggio in que’ contorni sono frequenti. Quelli d’un villaggio, che uccidono un’uomo d’altro villaggio, non hanno mai la pace, che al prezzo di cento zecchini, o a quello d’una testa d’uomo del villaggio loro; tariffa stabilita senza intervento di Principe tra quelle genti dalla bestialità considerata equità. Ebbi molte di queste erudizioni di tratti umani da un’ecclesiastico d’un villaggio del Monte nero, che mi teneva conversazione quasi ogni giorno sulla spiaggia di Budua. Egli parlava un gergone italiano, narrava gl’omicidj de’ suoi villici con occhio di compiacenza, e lasciava intendere che il fucile stava meglio nelle sue mani de’ sacri arredi. (I.70) Gasparo, il fratello giornalista, non avrebbe saputo descrivere con più ammiccante agilità un simile bozzetto di vita zaratina. Passando al lessico, su vari mots témoins, cioè su termini caratteristici della società e della cultura settecentesche, lo stesso Gozzi indugia in alcuni brillanti esercizi d’interpretazione del tipo di quello già richiamato so149 pra per la parola pregiudizio. Ecco dunque la glossa che accompagna il francesismo galanteria: Credo di non essere in necessità di spiegare al mio Lettore qual significato abbia oggidì il vocabolo, galanteria, né di dimostrare quante dissensioni, quante sciagure, quanti disordini, quanti abbandoni a’ proprj doveri, e quante nimicizie cagioni nella società, ne’ conjugati, e nelle famiglie, il significato abusivo dato da’ filosofi del secolo al vocabolo galanteria. Riferendosi ai Granelleschi, e a Gozzi in particolare, Gianfranco Folena ha parlato di un «gusto edonistico della caratura dei vocaboli insieme con quello di una vivacità che sconfinava spesso nella bizzarria». Se, come si è visto, di natura prevalentemente lessicale erano i rilievi mossi da Gozzi nei suoi scritti linguistici contro le tendenze innovatrici dell’italiano tardosettecentesco, giusto nella scelta dei termini emerge, finalmente, l’omaggio alla tradizione comico-realistica toscana. Ma anche in questo caso, non si tratta di tendenze così nette e univoche da non lasciare spazio a infrazioni, o almeno a deviazioni verso ben diversi àmbiti della tradizione letteraria. Così come nei suoi scritti teorici il conte Carlo rifiutava una visione esclusivamente imitativa dello stile e un irrigidimento del canone su modelli del passato, anche nella sua prassi di scrittura egli contempera il riuso di materiali tradizionali con un cauto accoglimento di elementi innovativi, e soprattutto con occasionali incursioni nel campo della neoformazione e dell’alterazione espressiva. Anche in quest’ambito, insomma, la tradizione non è per lui un limite, ma al contrario un fattore di rinnovamento e di reinvenzione. Ampio è, dunque, il contingente dei termini ereditati dalla letteratura burlesca toscana tre-quattrocentesca, cioè da quella produzione sul modello dei cui massimi auctores, Burchiello e Pulci, Gozzi aveva concepito opere come la Tartana e la Marfisa: ad esempio, bugioni ‘fanfaluche, grosse bugie’ III.29 112, cerbacone ‘cervello’ III.55 113, magnificaggine I.251 114, 112 Voce assente nel GDLI; la LIZ riporta esempi da Aretino (un brano in furbesco dal Filosofo) e dai Marmi del Doni, ai quali se può aggiungere uno da un capitolo di Benedetto Busini (Berni et al. 1760, p. 106). 113 Sia il GDLI s.v. cerbaccone, sia la LIZ riportano esempi da Sacchetti (il vocabolario la ritiene anzi «voce formata» dall’autore del Trecentonovelle «da cer[vello] con incrocio con bacca»). 114 Il GDLI riporta occ. da vari autori burleschi (Berni, Doni, Allegri), e da Gasparo Gozzi. La LIZ risponde con un esempio dal Brancaleone di Latrobio. 150 mantachetti ‘mantici’ II.283 115, mendicume ‘miseria’ I.274, I.281, II.147 116, ragnaja II.246 (nel senso figurato di ‘macchinazione’) 117, parabolano ‘chiacchierone’, ‘ciarlatano’ II.100, II.391, III.69 118, ricadìa ‘noia, fastidio’ III.192 119, (occhi) scerpellini ‘con le palpebre infiammate’ III.116 120, schiccheratura 657 ‘opera, scrittura’ (come ancora nell’Alfieri, e in vari altri autori settecenteschi) 121, sconcacature ‘cacate’ II.152 122, smucciarono ‘sfuggirono’ III.6 123, sopiattoni ‘che agiscono di soppiatto’ II.x 124 (detto di librai), tombolata ‘scivolata giù’ («per la scala») II.304 125, a cui si aggiunga la forma letteraria (e dantesca) aombrare 195, meno connotata, ma frequente nella letteratura toscana del Tre e del Quattrocento (con punte di significativa frequenza in autori come Sacchetti e Pulci 126) e relativamente rara in quella successiva, e ancora il boccacciano – e poi sacchettiano e firenVoce assente dal GDLI; La LIZ dà un esempio dal Sacchetti. Il GDLI riporta esempi già nel Velluti; e grazie alla LIZ, che registra l’occorrenza più antica nel Trecentonovelle di Sacchetti, si recuperano altre due occorrenze gozziane, dai Pitocchi fortunati e dal Ragionamento ingenuo. 117 Il GDLI riporta varie occorrenze da autori toscani quattro-cinquecenteschi come il Grazzini, il Vasari, il Soderini, Raffaello Borghini. La LIZ dà un esempio da Buonarroti il Giovane. 118 Il GDLI documenta il termine già nel Buti, ma appare significativo il fatto che la schiacciante maggioranza degli esempi proviene da autori toscani, e tra essi non mancano il Doni, l’Arienti e Buonarroti il Giovane: il termine può essere dunque considerato un caratteristico toscanismo. 119 Per questa accezione il GDLI riporta esempi già da Meo de’ Tolomei e dall’Angiolieri, poi dal Sacchetti e da vari autori toscani della tradizione burlesca, come il Pulci e il Firenzuola (esempi, questi ultimi, ricavabili anche dalla LIZ). 120 Sia il GDLI, sia la LIZ danno occorrenze da Lorenzo de’ Medici, Poliziano, Doni. 121 Il GDLI riporta esempi a partire dal Segneri; dalla LIZ si ricavano esempi di schiccherare nel senso di ‘scrivere’, ‘comporre’ in Salvator Rosa, Goldoni, Da Ponte e Baretti. 122 Il GDLI riporta questo sostantivo come hapax gozziano; per il verbo sconcacare e per le forme nominali sconcacata e sconcacato sia il GDLI sia la LIZ danno varie occorrenze dal Sacchetti all’Aretino, da Ortensio Lando al Grazzini, da Tassoni a Bartoli: lo stesso Gozzi impiega il verbo nella Tartana (Gozzi 1962, p. 1024). 123 Termine già boccacciano, il GDLI ne riporta varie occorrenze da autori della tradizione comica e burlesca come il Sacchetti, Luca Pulci, il Giambullari. 124 Il GDLI registra varie occorrenze, a partire dal Sacchetti, in autori toscani come Giovan Battista dell’Ottonaio, il Varchi, il Cecchi; La LIZ dà esempi dalla Cazzaria di Vignali (in cui è citata l’«oppenione del Soppiattone Intronato», figura welleristica di accademico) e dal Doni. 125 Il GDLI segnala gli esempi più antichi nel Pataffio, nel Firenzuola, in Luca Pulci e nel secentista fiorentino Andrea Cavalcanti. 126 La LIZ dà ben 32 esempi anteriori al Bembo, tutti da autori toscani (Novellino, Dante, Villani, Uberti, Sacchetti, Palmieri, Pulci, Lorenzo de’ Medici, Poliziano), e nessuna occorrenza sei-settecentesca. 115 116 151 zuoliano – spigolistro ‘bigotto’, ‘baciapile’ II.94, già incontrato anche nel Giannone. Da allegare qui anche l’espressivo favate I.276, I.286 bis, II.75, II.221, II.243, III.34 riferito sia alle proprie opere letterarie, e in particolare a quelle prodotte durante la stagione delle vivaci dispute granellesche 127, sia a quelle degli avversari; e l’analogo pisciarelli II.50 ‘opere di poco valore’ 128, impiegato in una sferzante definizione delle opere teatrali composte dai rivali seguaci dell’«andazzo (...) Goldoniano, e Chiarista» («pisciarelli scenici di alcuni poetuzzi sognanti coltura»). Accanto a termini così tipicamente toscani non mancano vari venezianismi, che vanno ad aggiungersi ai tratti locali già notati nel campo della fonomorfologia: sospettoso di fronte all’interferenza del dialetto nell’italiano di autori come il Goldoni, nemmeno Gozzi resta immune da occasionali dialettalismi come zendaline ‘nastri per legare i capelli’ III.135 129, svegliarino ‘orologio con la sveglia’ III.140 130, impagliolata 484 ‘puerpera’ 131, scarsella ‘tasca, sacchetto’ I.60, III.134 132, e la serie scamoffia ‘smorfia’ II.235, scamoffie II.204, scamoffioso II.87 ‘smorfioso’ 133; singolare il caso di calajetta III.126, in contesto non chiaro: probabilmente significa ‘discesa’, ‘strada in pendìo’ ed è un derivato di calaia, termine che non pare attestato in veneziano ma è presente in altri dialetti settentrionali 134; di sapore regionale anche canzeria, che equivale al toscano scanceria ‘scansia’ – forma quest’ultima usata anche nella Tartana 135. Quanto ai francesismi lessicali, Gozzi era naturalmente attento nello schivarli, ma sapeva altrettanto abilmente impiegarli a fini ironici ed espressivi. Nella Chiacchiera, anzi, egli ne aveva allineati in lunghe serie Per l’accezione ‘stupidaggine’, ‘sciocchezza’, il GDLI riporta esempi a partire dal Pazzi e dal Cecchi. Il termine, teste la LIZ, è impiegato anche da Baretti nella Frusta. 128 Il GDLI s.v. pisciarello registra esempi dal Redi e dall’Alfieri col significato di ‘vino leggero e di poco colore’ (ma per l’esempio del Redi, «pisciarello di Bracciano» è probabile che l’allusione rimandi appunto a una località Pisciarelli negl’immediati dintorni della città laziale), mentre per l’accezione ‘opera di scarso valore’, ‘persona di poco conto’ sono riportati due esempi gozziani e uno dal Botta. 129 Cfr. Boerio 1856 s.v. cendalina: «Frenello, dicesi alla Fettuccia onde le contadine s’intrecciano i capelli». 130 Ibid., s.v. svegiarin. 131 Il GDLI cita il venez., impagiolada ‘donna di parto mentre si trova nella quarantina del puerperio’, traendo la definizione da Boerio 1856 s.v. impagiolada. 132 Ibid., s.v. scarsela. 133 Cfr. Boerio 1856 s.vv. scamofia, scamofiosa, scamofioso. 134 Il vocabolario ferrarese di Azzi 1857 riporta ad esempio s.v. calà «Calaia, calaietta». 135 Cfr. Gozzi 1962., p. 975. 127 152 giusto per mettere in ridicolo le oltranze gallicizzanti dei suoi avversari – e del Cesarotti in particolare 136. Anche nelle Memorie, l’impiego di termini d’origine francese risponde a simili intenti: ad esempio i derivati di coquette come cocchetteria II.125, cocchettismo II.140, cochettina II.89 137, il termine ponsò II.175, adattamento di ponceau, indicante una tonalità di rosso («un drappo di seta color ponsò» è quello di cui va coperto Pietro Antonio Gratarol durante le sue visite alla Ricci) 138, la locuzione bon ton II.309 ter («quello che in Venezia si chiama: bon ton e gran mondo» 139) sono impiegati con intento maliziosamente espressivo, cioè ironico proprio nei confronti della cultura d’Oltralpe. Anche elettricità I.85, introdotto in Italia nel primo ventennio del Settecento 140 viene impiegato ad arte in una tirata misogina e misoneista: «mi rallegro con questo sesso, che sieno estinte per lui le idee del costume de’ tempi del Petrarca, e di vederlo nuotare a dì nostri in un lago di soave elettricità confacente al suo genio» I.85. Ben più rari sono i francesismi privi di tale esposta connotazione espressiva, come il ghiridone III.126 ‘tavolino con un piede solo’ (fr. guéridon) notato già da Migliorini 141. E ancor più di rado si incontrano francesismi che, pur non essendo antichi, erano ormai acclimati in italiano, come ad esempio viglietto 142, che ha qui numerose occorrenze e, non essendo mai oggetto di commenti (le prime attestazioni risalgono all’inizio del Seicento, e il termine era penetrato anche nello stesso dialetto veneziano 143) Chiacchiera, § 95. Coc(c)hetta è, secondo Dardi 1992, p. 154, un «adattamento la cui notevole diffusione, che data solo dalla metà del XVIII, rimasta tutta a livelli di giocosità e confidenzialità letteraria». Lo stesso Gozzi impiega il termine nel toponimo fantastico «Turbine delle Cochette» che compare nel testo novellistico Afranoro e Bellanira (di fatto, una traduzione di un testo del conte di Caylus), tuttora inedito, su cui ha richiamato l’attenzione Ricorda in c.s. 138 Il GDLI riporta esempi dalla fine del Seicento: Filippo Baldinucci segnalava il termine come un neologismo: «il qual rosso chiaro i moderni con voce nuova chiamano ponsò»; Zolli 1971, p. 81, attesta il veneziano pensò già nel 1682: cfr. anche Dardi 1992, pp.218-19. 139 Per gran mondo, che assieme a bel mondo «si divulga ... nel corso del XVIII sec. (cfr. ingl. Great monde)» cfr. Dardi 1992, p. 343. 140 Al 1715 risale l’occorrenza più antica segnalata da Dardi 1992, p. 522. 141 Cfr. Migliorini 1987, p. 519. 142 Esempi: viglietto I.14, I.245, II.185 bis, II.200, II.201 bis, II.202 bis, II.203, II.218 ter, II.355 bis, II.360, II.361, II.365, II.384 bis, II.385, II.386 bis, II.388, II.389 bis, II.390, II.391, II.392, II.394 bis, II.398, II.399, II.401 ter, II.402 bis, II.407 bis, III.31, III.37, III.43, III.79 bis, III.81 ter, III.147 bis, III.149 bis, III.150 sei volte, III.152, III.153 bis, III.155, III.156, viglietti I.58, I.59, I.97, I.98, I.205, I.218, II.390, II.392 bis, II.400, III.32, III.131, III.148, III.153 bis, III.154, III.156. 143 Cfr. Zolli 1971, p. 169. 136 137 153 non veniva percepito nemmeno dal guardingo orecchio di un Granellesco 144; e il simile vale per particolarizzarsi II.95, che circola in italiano già dal tardo Cinquecento 145. Il contingente dei cultismi e dei latinismi, complessivamente limitato, consiste in termini impiegati perlopiù con esibito intento parodico, come il raro sostantivo manupolìo 146 in un passo polemico contro il Gratarol: «Ecco il fondamento d’un diabolico manupolio concertato» II.291; o il sostantivo regezione II.338 (la cui forma grafico-fonetica è più rara rispetto alla conservativa reiezione), termine tipico del linguaggio giuridico seisettecentesco, impiegato in un altro passo contro il Gratarol e accostabile alla serie di cultismi giurisprudenziali di cui, come abbiamo visto, Gozzi si serve nella sua parodia dello stile goldoniano. Gozziano è il primo esempio riportato dai dizionari storici per l’aggettivo cribrato I.250 ‘raffinato, squisito’ 147, usato invece in un passo giocosamente autoironico sulla «seriofaceta Accademia» dei Granelleschi, di cui erano un vanto la «cribrata nitidezza, le frasi, e i termini scelti e proprj». Non mancano nemmeno varie neoformazioni lessicali, che in alcuni casi emergono nella stampa Palese e non sono documentate dal manoscritto marciano, e sono quindi frutto dell’ultima fase elaborativa: così, il semplice aggettivo pazze riferito rispettivamente alla c. 196v del codice e alla «ambiziose violenze» del Gratarol e a c. 203r alle sue «esagerazioni arrabbiate» viene sostituito in un caso con l’aggettivo stratagemmatiche II.309 (che a quanto pare è un neologismo gozziano 148) e nell’altro con la forma libellatrici I.v 149, ricavata sul maschile libellatore ‘proprio di un libello’ e Il purismo ottocentesco non mancherà, tuttavia, di proscriverlo: il DELI cita a tal proposito Ugolini 1848 s.v. 145 Il GDLI dà esempi già in Filippo Sassetti: ma le occorrenze ivi registrate si concentrano fra Sei e Settecento. 146 Il GDLI riporta, prima dell’esempio gozziano, un’occorrenza dal secentista Vittorio Siri. 147 Nel GDLI vi è poi un esempio dal D’Annunzio, ma nel significato letterale di ‘passato al vaglio’, ‘filtrato’. 148 La voce manca nel GDLI. È del tutto improbabile che Gozzi potesse conoscere il trattato del medico seicentesco Pietro Piperno intitolato De magicis affectibus horum dignotione, praenotione, curat.ne, medica, stratagemmatica, diuina, plerisque curationibus electis, pubblicato a Napoli da Domenico Roncaioli nel 1634, che è l’unico esempio anteriore rintracciabile per questa forma. L’aggettivo ricomparirà poi, poligeneticamente, anche in un racconto di Massimo Bontempelli. 149 Il GDLI riporta, s.v. libellatore (per il maschile soccorre un’occorrenza dall’Achillini), il solo esempio gozziano per il femminile. 144 154 usata anche altrove nelle Memorie, ma di probabile conio gozziano: «egli non si vergognava ad affidare delle libellatrici esagerazioni arrabbiate contro a’ possenti ch’egli aveva necessità di coltivare». E se non particolarmente ingegnosa è la formazione di aggettivi come farfalleschi III.23 150 e semiplatonico III.163 151, una deformazione espressiva dello stesso prefisso impiegato in quest’ultimo aggettivo dà luogo all’aggettivo scemitragiche I.279, riferito alle «opere ... piene d’assurdi, d’improprietà, di mal esempio del costume orientale, delle Spose persiane, delle bestiali Ircane, de’ sozzi Enunchi delle Curcume nefande» (formazione ben più ingegnosa del «seriofaceto» impiegato nella Tartana 152); parimenti originale è la formazione del composto ragazzofilosofico I.41, sorta di “parola-valigia” (come l’avrebbe chiamata Lewis Carrol 153) coniata in un passo ancora una volta autoironico: l’espressione «parvemi ragazzescamente filosofando» usata in I.40 è riecheggiata nella pagina successiva dal commento: «Mi riconfermai nel riflesso ragazzofilosofico che aveva fatto» I.41. Simili scelte lessicali allontanano indubbiamente il conte Carlo dal gusto di buona parte dei suoi avversari contemporanei (ma un certo compiacimento per la coloritura verbale espressionistica non manca, qua e là, nello stesso Goldoni autobiografo) e lo avvicinano a un altro conservatore sui generis, pur così diverso da lui – ma a lui legato da sincera amicizia e da comuni trascorsi biografici –, come Giuseppe Baretti. Riguardando il thesaurus lessicale della tradizione letteraria nazionale come un campo per estrosi recuperi e per dissimulate citazioni o allusioni, Baretti e Gozzi rappresentano due aspetti distinti ma altrettanto efficaci della reazione ai rischi che la tradizione stessa correva per effetto del trionfo dei modernes sugli anciens. Dopo la fase primosettecentesca, nella quale la contrapposizione aveva riguardato soprattutto l’italiano e il latino, nel secondo Settecento il fronte dei «novatori» rischiava di tramutare la sprovincializzazione e l’apertura dell’italiano all’orizzonte della cultura europea in un drastico impoverimento della sua dotazione più antica. Di fronte ad esso, il purismo gozziano si manifesta, nella prassi linguistica delle Memorie inutili, come una risposta complessivamente equilibrata e per nulla anacronistica. Novecentesco (da Arturo Loria) l’unico esempio riportato dal GDLI. Hapax gozziano stando al GDLI; ma si tratta ovviamente di un composto non privo di attestazioni latine. 152 Cfr. Gozzi 1962, p. 1155. 153 La nozione carrolliana di «portmanteau-word» coincide almeno in parte con quella, introdotta nella linguistica italiana da Bruno Migliorini, di «parola-macedonia»: cfr. in proposito Altieri Biagi 2004. 150 151 155 DUE VENEZIANI IN EUROPA 1. Tappe di avvicinamento L’avvicinamento di Goldoni al grande progetto autobiografico dei Mémoires avviene per gradi, a partire da spunti e motivi contenuti in testi teatrali come l’Avventuriere onorato, l’Avvocato veneziano o le Baruffe, ma il primo scritto non teatrale dedicato alla sua vita è la prefazione all’edizione Bettinelli delle Commedie, del 1750: il quarantatreenne promotore della riforma del teatro comico vi traccia, nello spazio di poche pagine, un primo bilancio della propria vocazione teatrale. La trama propriamente autobiografica – si intende: diegetica – della prefazione alla Bettinelli è quasi dissimulata nel disegno complessivo di un manifesto letterario: ma la cronistoria delle vicende personali appare già (come, ancor più ampiamente, nelle opere successive) totalmente funzionale al rapporto fra «mondo» e «teatro», e la narrazione è giustificata «colla sola mira di far rilevare il vero e solo stimolo, ch’ebbi per darmi intieramente a questo genere di studio» (p. 761) 1. La prefazione alla Bettinelli si presenta come un’esplicita e a tratti polemica alternativa al modello della «prefazione erudita, e completa» e sostituisce dichiaratamente al rituale atto d’ossequio per le norme ricevute dalla tradizione teatrale il resoconto «di ciò che mi ha impegnato in questa sorta di applicazione, e de’ mezzi che ho tenuti, e che tengo per abilitarmi e servire il meglio» (p. 760). Si tratta, a ben vedere, di un mero artificio argomentativo, visto che schivando la «diffusa apologia» dell’appropriatezza tecnica e compositiva delle commedie, Goldoni punta in realtà a una più generale difesa del proprio operato di poeta comico, e la affida a uno scritto non meno apologetico, e tanto più efficace, di una dissertazione erudita o di una trattazione accademica. Il rapporto fra la prototipica autobiografia intellettuale proposta nella Venezia primosettecentesca da Porcìa e la 1 Di qui in avanti i rimandi per la prefazione Bettinelli e per le «memorie italiane» si riferiscono all’edizione di Goldoni 1993. 157 prefazione bettinelliana è probabile (anche se non dimostrabile), cosicché la narrazione ordinata del metodo seguito nella riforma teatrale sotto forma di breve e selezionato racconto autobiografico fa di quella prefazione una ulteriore e forse irriflessa applicazione del progetto pubblicato da Calogerà. Lo stesso Goldoni provvedrà poi a superare definitivamente quel modello attraverso il ben più complesso disegno dei Mémoires. Dopo un preambolo sulla necessità e sull’opportunità di un simile scritto, la prima parte della prefazione Bettinelli rende conto delle letture e delle esperienze di spettatore che portano il giovane Goldoni a intraprendere la carriera teatrale. Le notizie relative all’infanzia ed ai Lehrjahre sono strettamente funzionali alla narrazione degli «studi teatrali». La lettura delle commedie del seicentista Giacinto Andrea Cicognini è indicata come la fonte d’ispirazione per il primo esperimento di composizione comica, «in età di ott’anni»: una notizia che sia le prefazioni all’edizione Pasquali (di cui si dirà tra poco), sia i Mémoires riprenderanno corredandola di ulteriori dettagli e di considerazioni qui assenti 2. Il seguito si discosta a tratti dal resoconto meramente biografico per toccare questioni teoricoletterarie il cui riflesso sulla carriera teatrale goldoniana non è mai totalmente obliterato. A imparentare di fatto il preambolo bettinelliano con l’anti-modello dichiarato della «prefazione erudita» sono, comunque, vari elementi, fra i quali l’allegazione di autori canonici nel dibattito sulla teoria teatrale: due dei richiami bibliografici presenti nella prefazione alla 2 In realtà nelle prefazioni Pasquali (ossia nelle «memorie italiane») la lettura del Cicognini è riferita esplicitamente solo nel vol. VIII: «Rilessi tutto il mio Cicognini – scrive il Goldoni, che evidentemente ritiene di aver già riferito della lettura dell’autore toscano – e cominciai a conoscere le bellezze e i difetti di quell’autore, che se nato fosse nel nostro secolo, avrebbe avuto il talento di far delle cose buone» (p. 804). Tuttavia, nel rame premesso al frontespizio del volume I della Pasquali si trova la raffigurazione del giovane Carlo che, «in età di sett’anni» compone la sua prima commedia: alle sue spalle si trova una libreria nella quale alcuni volumi riportano sul dorso il nome di un autore: uno di essi è appunto di «Cicognini», ed è seguito sullo stesso scaffale da «to II», «to III», «to IV»). Quanto ai Mémoires (per i quali, di qui in avanti, si citerà l’edizione di Goldoni 1935), vi si legge nel capitolo 1 della prima parte: «Parmi les Auteurs comiques que je lisais et que je relisais très souvent, Cicognini étoit celui que je préférois. Cet Auteur Florentin, très-peu connu dans la République des Lettres, avoit fait plusieurs Comédies d’intrigue, mêlées de pathétique larmoyant et de comique trivial; on y trouvoit cependant beaucoup d’intérêt, et il avoit l’art de ménager la suspension, et de plaire par le dénouement. Je m’y attachai infiniment: je l’étudiai beaucoup; et à l’âge de huit ans j’eus la témérité de crayonner une Comédie» (p. 13). Più oltre, ecco l’accenno alla rilettura del commediografo (la stessa a cui si allude nelle «memorie italiane»): «Chiozza me parut maussade plus que jamais. J’avois autrefois une petite Bibliothèque: je cherchai mon ancien Cicognini, et je n’en ai trouvé qu’une partie; mon frere avoit employé le reste à faire des papillotes» (pp. 43-44). 158 Bettinelli provengono da un’opera francese, le Réflexions sur la poétique de ce temps pubblicate nel 1691 da René Rapin, riportate in traduzione italiana. Diversamente si regolerà il Goldoni nella prima delle prefazioni Pasquali, in cui uno stralcio di una lettera del «celebre monsieur Voltaire» è trascritta direttamente in francese nel testo, cioè in una lingua divenutagli così familiare da interferire con la sua stessa prosa italiana. Le citazioni rapiniane della Bettinelli si accompagnano dunque a vari richiami ad autori latini della classicità (Lucrezio, Orazio) e della tarda antichità (Tertulliano e Giovanni Grisostomo, ricordati per le loro considerazioni sulle spettacoli teatrali), e ad una dal De remediis petrarchesco. Una menzione indiretta, e la qualifica di «dotto commentatore di Orazio» spetta poi all’umanista cipriota Giason de Nores (professore allo studio di Padova nel tardo Cinquecento, e trattatista fra i più frequentati nel dibattito teorico-letterario settecentesco). Si tratta, ancora, del genere di auctoritates che sarebbe stato naturale richiamare in una «prefazione erudita» 3. Rare, ma significativamente presenti già in questo incunabolo, le annotazioni che potremmo chiamare metalinguistiche. In esplicita polemica con «quelli, che due o tre anni fa sofferivano sul teatro improprietà, inezie, arlecchinate da mover nausea ai stomachi più grossolani», e che son pronti a riprovare «ogni picciolo neo, ogni frase, o parola men toscana» (cioè con i suoi rivali di orientamento purista e conservatore: si osservi come tale spunto polemico sia notevolmente attenuato, a partire dall’edizione Paperini del 1753, dall’omissione di questo accenno 4), Goldoni dà una sintetica formulazione del proprio programma di realismo linguistico e di naturalezza stilistica, anch’esso destinato a ulteriore svolgimento nelle opere dei decenni successivi: Quanto alla lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi, e voci lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa, che vi concorre principalmente nelle lombarde città dovevano rappresentarsi le mie commedie. Ad alcuni vernacoli veneziani, ed in quelle di esse che ho scritte apposta per Venezia mia 3 Sulle citazioni della prefazione bettinelliana si è soffermato Vescovo 2002, p. 172: «Cinque citazioni su sette [escluse, cioè, quelle di Rapin] sono esornative, quand’anche, eventualmente, scelte con accuratezza (...). Esse rappresentano la competenza culturale di un autore che con esse autorizza, dunque, una sapienza dalla quale afferma di voler prendere le distanze, per aperta disistima della collezione di fonti e per l’osservazione dei precetti». 4 Per l’osservazione dei mutamenti intervenuti nel testo della prefazione a partire dalla prima stampa bettinelliana (1750), e poi nella successiva uscita presso lo stesso editore (1751), nella Paperini del 1753 e nella Pasquali del 1761, mi fondo sull’apparato allestito da Bosisio in Goldoni 1993 (qui in particolare p. 1159). 159 patria, sarò in necessità di appor qualche notarella, per far sentire le grazie di quel vezzoso dialetto a chi non ne ha tutta la pratica. Il Dottore che recitando parla il bolognese, parlerà qui volgar italiano. Lo stile poi l’ho voluto qual conviene alla commedia, vale a dir semplice, naturale, non accademico, od elevato. Questa è la grand’arte del comico poeta di attaccarsi in tutto alla natura, e non iscostarsene giammai. (p. 773) L’uso di «voci lombarde», cioè di parole genericamente ‘settentrionali’ (in questo senso andrà ovviamente inteso il termine) è dunque giustificato con l’esigenza di rendere i testi comprensibili anche al pubblico popolare delle città del Nord d’Italia, mentre il ricorso ai «vernacoli veneziani» (nell’edizione Paperini la locuzione sarà sostituita con «idiotismi veneziani» 5) è segnalato anche nelle commedie scritte in italiano (come dimostra l’aggiunta «ed in quelle. . mia patria»). La concessione al dialetto è compensata da «qualche notarella»: il cenno si riferisce probabilmente ai dialettalismi particolarmente frequenti, ad esempio, nelle “autotraduzioni” di testi passati dal veneziano all’italiano 6. L’aggiunta relativa al linguaggio del Dottore allude, poi, verosimilmente, ad alcuni casi nei quali Goldoni aveva riportato in italiano le parti originariamente scritte in bolognese di alcune commedie 7: mutatis mutandis, la situazione che ne deriva è simile a quella descritta nei prologhi della Vedova scaltra - cioè nei testi-chiave della polemica insorta nel 1749 fra il Goldoni e il Chiari – dove l’autore giustifica l’uso nel teatro di lingue diverse da quelle realmente parlate dai personaggi 8. Quanto all’annotazione sullo stile, l’aspirazione a un dettato «semplice, naturale, non accademico» ripete, a quest’altezza cronologica, un motivo tipico del dibattito linguistico mediosettecentesco: termini come naturale e naturalezza, centrali già nella riflessione arcadica e muratoriana sulla lingua, sono cruciali ancora nell’Algarotti e negli altri autori del Caffè, oltre che nelle pagine di Baretti sul celliniano «stile più schietto e più chiaro, perché più secondo l’ordine naturale delle idee» 9 (cioè appunto l’«ordre 5 Nel passaggio dalla Bettinelli alla Paperini, Pietro Spezzani ha documentato un’intensa revisione formale, volta soprattutto alla «conquista di una dignità formale della veste linguistica dei suoi testi teatrali»: l’esame di Spezzani 1993 riguarda però esclusivamente il testo delle commedie. 6 Cfr. in proposito Spezzani 1977, che fornisce un esauriente inventario dei dialettalismi goldoniani nelle commedie tradotte o riadattate dal veneziano all’italiano. 7 Di tali autotraduzioni si è occupato lo stesso Spezzani 1977. 8 Cfr. Goldoni 2004, pp. 126-27. 9 Cfr. il brano riportato da Puppo 1966, p. 218. 160 naturel» di bouhoursiana memoria). Conforme allo stesso spirito è il richiamo a uno stile «non accademico, od elevato». Per la prima delle due qualifiche, soccorrono le varie ironiche allusioni che, nelle sue commedie, Goldoni riserva al linguaggio degli «accademici», e in particolare ai cruscanti (a partire dalla macchietta del Cavalier del Fiocco nel Torquato Tasso, sul quale torneremo), la cui rappresentazione caricaturale è un topos della letteratura teatrale – e in ispecie comica – di tutto il secolo 10. Ancora nella lettera agli associati dell’edizione Paperini, Goldoni dichiarerà fieramente la propria avversione alla rigidità normativa dei cruscanti e si protesterà «poeta comico che ha scritto per essere inteso in Toscana, in Lombardia, in Venezia principalmente» 11, persuaso – si aggiunga – dall’eccellenza del toscano parlato contemporaneo, in opposizione a quello ereditato dalla grande tradizione letteraria del passato, ma al tempo stesso dalla subalternità di quest’ultimo a un ideale linguistico ben diverso dal mito del toscano «vivo». Si tratta di un tema su cui le prefazioni Pasquali torneranno ancor più esplicitamente 12, e al quale ben presto reagiranno sia il Gozzi, sia – da un diverso punto di vista – un implacabile critico come il Baretti, apparentemente affine a Goldoni per l’esplicita ricerca di una «naturalezza» aliena da eccessi dogmatici e normativi, se non fosse che in Aristarco Scannabue il concetto di «stile naturale» si associa a un risoluto rigetto dell’affettazione di modi toscani “vivi”, ossia di quella «linguerella più tenue, più gretta, più pidocchiosa» tipica della Firenze contemporanea, «paese di Lilliputte, dove i corpi e l’anime di mezzo milione d’abitanti non bastano per empire fino all’orlo uno di que’ nostri canestruzzi ne’ quali ripogniamo le more, le fragole e le ciriege» secondo una celebre lettera Della corrotta lingua che si parla ne’ varj Stati d’Italia 13. Se dunque il Gozzi moveva da una considerazione puramente letteraria e culturale della storia linguistica italiana e il Baretti sottolineava il nesso tra la vitalità civile di un popolo e la sua eccellenza linguistica, Goldoni ricerca una spontaneità alternativa, o meglio aggiuntiva a quella del veneziano: un italiano per le scene, insomma, che egli non può trovare nell’astratta «lingua comune» dell’ideale illuministico (già muratoriano, e in un prossi10 Sulla letteratura anticruscante del secolo XVIII cfr. i densi riferimenti di Vitale 1960, p. 126. 11 La lettera si legge in Goldoni 1956, p. 465. In proposito Goldoni si pronuncia in vari luoghi della sua opera, dalla lettera dedicatoria delle Femmine puntigliose agli stessi Mémoires, secondo i quali «les Florentins et les Siennois ... sont les textes vivants de la bonne langue italienne». 13 Cfr. Baretti 1822, pp. 276-77. 12 161 mo futuro, bettinelliano 14) ma nemmeno nella concretezza storicamente e geograficamente determinata del fiorentino “vivo” contemporaneo, contro i cui tratti più caratteristici polemizza la Corallina portavoce dell’autore nel Poeta fanatico («in Bergamo son nata, e da piccina / Sono stata in Firenze trasportata, / Ove imparai la lingua fiorentina, / senza la gorga [sic] che dal volgo è usata») 15. La rinunzia goldoniana al vocabolario della Crusca non avviene del resto, come nei contemporanei autori lombardi del «Caffè», in nome del rifiuto del dogmatismo e del principio d’autorità linguistica, ma per l’inservibilità di quel modello ai fini della scrittura scenica 16. Coinvolgendo, però, inevitabilmente, anche la prosa non teatrale. La mimesi dell’oralità perseguita, con equilibrio e insieme spregiudicatezza, nelle commedie è cosa diversa dalla fluidità narrativa di un testo autobiografico e dall’andamento argomentativo di una prefazione “militante” come quella della stampa Bettinelli. A un esame ravvicinato, l’affinità di Goldoni con i riformatori della prosa italiana risulta in effetti più apparente che reale, e notevole la distanza fra questa prosa e quella teatrale. A prescindere da altri e più puntuali caratteri morfosintattici – che, come si vedrà, sono più ampiamente documentati nelle cosiddette «memorie italiane» –, la prefazione alla Bettinelli manifesta già vari tratti stilistici tipici del Goldoni “narratore”: ad esempio, il frequente ricorso alla sequenza aggettivo-nome (in formule come «drammatica poesia», p. 761, «teatral personaggio», p. 761, «abbattuto teatro», p. 763, «comico teatro», p. 763, e con reduplicazione a breve distanza: «valentissimi uomini d’ogni colta nazione», p. 759, «dilettevol solletico dell’uman cuore», p. 769). Si tratta di un costrutto di sapore decisamente letterario (in effetti impiegato, pur con moderazione, proprio da scrittori d’orientamento tradizionalista come il Gozzi), ulteriormente impreziosito – in vari casi – dall’interposizione del possessivo in sequenze come: «delle teatrali mie opere» (p. 759), «della medica sua professione» (p. 760), «violenta mia inclinazione» (p. 761), «teatrali mie composizioni» (p. 762). Ancora. L’andamento brachilogico e tendenzialmente paratattico prediletto già dai prosatori del primo illuminismo come il più consono all’ordre naturel cede in genere il passo a strutture sintattiche di media complessità e ad un andamento più spesso oratorio che schiettamente ragionativo. 14 Per le tesi antifiorentineggianti di Bettinelli cfr. i testi riportati in Puppo 1966, pp. 269-79. 15 16 162 Il passo è richiamato da Vescovo 2001, p. 61. Cfr. in proposito Trifone 1994, pp. 135-37. Così, il periodo d’apertura incastona la principale fra due subordinate iniziali (una gerundiale e una relativa da quella dipendente, a sua volta duplicata internamente da un elaborato paragone) e due di chiusura, entrambe relative, tra loro coordinate: Rassegnandomi alle persuasioni, e agli amorevoli desideri de’ miei padroni, e de’ miei amici, di molti de’ quali non è men venerabile il giudizio, che rispettabile l’autorità, do alle stampe le commedie, che ho scritte fin’ora, e che tuttavia vo scrivendo ad uso de’ teatri d’Italia. (p. 759) Similmente, la risposta alle contestazioni di chi non vede applicate rigidamente, nelle sue commedie, le regole del teatro classico, è affidata a un periodo fortemente sbilanciato a sinistra (cioè appesantito nella parte iniziale) e attraversato da campate sintattiche piuttosto ampie, da notevoli asimmetrie nelle reggenze e dalla presenza di un vistoso sintagma a cornice nel finale: Per questo, quando alcuni adoratori d’ogni antichità esigono indiscretamente da me sull’esempio de’ greci, e romani comici o l’unità scrupolosa di luogo, o che più di quattro personaggi non parlino in una medesima scena, o somiglianti stiticità, io loro in cose che così poco rilevano all’essenzial belleza della commedia, altro non oppongo che l’autorità del da tanti secoli approvato uso contrario. (p. 770) Se di lì a un decennio il Baretti loderà il Cellini per le sue frasi caratterizzate dal «nominativo, innanzi al verbo, e di dietro al verbo l’accusativo, o qualunque altro caso», ben lontano da tale linearità appare in generale il testo della prefazione Bettinelli 17. Poco oltre l’inizio, un’ampia interrogativa retorica depreca l’assunzione di un «tuon pedantesco» per la giustificazione teorico-letteraria della scrittura teatrale, ma di fatto ingenera una voluta sintattica artificiosa, procedendo per accumulazione di sintagmi caratterizzati da una martellante aggettivazione e imperniati su una principale (ancora una volta situata nel centro del periodo) con sequenza verbo-soggetto pronominale: Ma di gran lunga s’inganna chi da me attende una così inutil fatica: dopo tanti secoli, che si sono scritti interi volumi su questo proposito da valentissimi uomini d’ogni colta nazione dovrò io per avventura erigermi ancora a maestro ed in tuon pedantesco profferir per nuovi oracoli le cose tante volte dette, e ridette da tanti? (p. 759) 17 Cfr. la «Frusta letteraria» nel 1763, cit. da Puppo 1966, p. 216. 163 Analogamente, in un passo dedicato agli anni successivi al primo rientro a Venezia, si ripresenta un periodo aperto da una locuzione univerbata (dimodocché) e seguito da una lunga concessiva, cui la principale si allaccia con un ulteriore elemento di raccordo (pure) ed è intercalata da due participiali e chiusa da una relativa: Dimodocché sebbene da’ miei principi formar potessi un non infelice presagio dell’avvenire nella profession nobilissima d’avvocato, in quel celebre foro; pure rapito dalla violenta mia inclinazione mi tolsi alla patria, risoluto di abbandonarmi affatto a quella interna forza, che mi voleva tutto alla drammatica poesia. (p. 761) A rendere il periodo particolarmente alieno dal gusto di tanta prosa illuministica è il ricorso a sequenze verbali con anteposizione dell’infinito in perifrasi verbali come «formar potessi» – simile a «riconoscer debbo», poche righe oltre, p. 762 – stilisticamente affini a quelle nominali e aggettivali di cui si è detto. Tali caratteri si accompagnano invero a tratti colloquiali, talvolta rimossi nel passaggio alle successive edizioni, come la sequenza «già diciotto vent’anni in qua» (p. 763, sostituita nella stampa Paperini con «da diciotto, o venti anni in qua»), o in vario modo modernizzanti, e parimenti destinati ad esser sostituiti dall’autore stesso nelle edizioni seguenti. È il caso di alcuni francesismi, come tuttogiorno (p. 769), già nel ’51 mutato in continuamente, o presso poco (p. 771) che diventa a un di presso nella stessa edizione 18. Ed è il caso di crudi latinismi come ridondar (p. 763), nella locuzione «ridondar al pubblico» (di tipo peraltro consueto nella prosa del Settecento), mutata già nell’edizione del 1751 con «derivare al pubblico» 19; o di nessi di sapore burocratico come «a norma di questo pensamento», mutato in «seguendo questo pensamento» (p. 767) 20 nell’edizione del 1751. Un probabile toscanismo è la congiunzione abbenché (p. 768) corretta nella più consueta benché 21. È possibile, poi, che nella sostituzione di espressioni come «senza mettermi in pena» con «senza darmi il pensiero» 18 I tipi pressappoco, appresso a poco e, appunto, presso poco, si affermano in Italia a partire dal tardo Seicento, teste Dardi 1992, pp. 367 s.: «Appresso a poco fu registrato in Crusca IV», e la variante qui documentata (presso poco) è preferito anche da Pietro Verri nel «Caffè». 19 Per le locuzioni ridondare in bene, ridondare in beneficio e simili la LIZ[700] riporta svariati esempi in prosa (Giannone, Vico, lo stesso Goldoni delle commedie, il «Caffè»). 20 Il nesso «a norma di» entra in italiano all’inizio del Settecento: cfr. Dardi 1995, p. 170. 21 La LIZ riporta esempi precedenti il Goldoni nel Castiglione e nel Pona; altre occorrenze settecentesche da Baretti e Alfieri, ma si tratta nel complesso di una forma rara: il suo mantenimento nelle tre redazioni del romanzo manzoniano la qualifica appunto come un probabile toscanismo. 164 agisca il sentore di francesismo che nessi come «valer la pena», «darsi pena» e simili dovevano avere ancora a quest’altezza cronologica 22. In definitiva, nel passaggio dalla princeps alle successive edizioni bettinelliane, e poi alla Paperini e alla Pasquali (all’inizio della quale viene mantenuta la prefazione del 1750), una pur modesta, ma continua revisione anche formale del testo prefatorio smentisce, da un lato, le dichiarazioni goldoniane di sereno disinteresse nei confronti della veste linguistica delle sue opere, e da un altro lato documenta la tendenza all’abbandono di forme non approvate dalla tradizione letteraria in favore di alternative meno connotate, a spese sia dei tratti più marcatamente letterari, sia di quelli più vicini alla colloquialità. Semplicità e naturalità si traducono insomma, all’altezza di questo testo, in una medietà che tuttavia non basta a sottrarre all’astrattezza l’ideale di una prosa spontanea e disinvolta apertamente professato dall’autore. 2. Un progetto incompiuto Considerate la loro struttura e la loro composizione, le diciassette introduzioni preposte ai volumi dell’edizione delle sue Opere stampati dall’editore Pasquali fra il 1761 e il 1778 non appartengono al genere classico dell’autobiografia e ne rappresentano una peculiare – nonché incompiuta – variante. La loro intestazione, «L’autore a chi legge», ripete quella impiegata abitualmente per il prologo delle singole commedie. A chiamarle, nel loro complesso, «memorie italiane» fu, nel 1935, Giuseppe Ortolani, cogliendo l’innegabile legame esistente fra questi “cartoni” e l’affresco compiuto della parte iniziale dei Mémoires (rispetto al quale, va detto, le «memorie italiane» mostrano pure varie discrepanze e contraddizioni) 23: tale denominazione ha avuto una certa fortuna, ed è stata forse favorita dall’invito, reiterato da più parti nei decenni successivi, a riscoprire e valorizzare questa serie di scritti come prodotto fra i più significativi della prosa italiana di Goldoni 24. 22 Cfr. Dardi 1995, p. 359. Già Ziccardi 1931 poneva a confronto le prefazioni Pasquali con la prima parte dei Mémoires rilevando appunto qualche difformità: «Per lo più la differenza consiste in notiziole di scarsa importanza: così, stando alla IX prefazione, egli col padre si trattenne cinque mesi presso il conte Lantieri; stando ai Mém. I, 17, ci si trattennero quattro solamente. Talora la differenza è in una data (...). Qualche volta tutto un episodio dipende da una notizia che ne contradice un’altra» (p. 27). 24 Folena 1983, p. 111, parla di «pagine non debitamente apprezzate delle Memorie italia23 165 L’idea di un’autobiografia pubblicata, per così dire, a puntate è inscindibile dal progetto di un’edizione complessiva delle opere goldoniane, al cui svolgimento si sarebbe dovuto affiancare il parallelo percorso autobiografico. Varando dunque una silloge in quaranta tomi della propria produzione (non solo di quella comica, visto che la serie stampata per i tipi di Gian Battista Pasquali avrebbe dovuto comprendere anche tragedie, tragicommedie, drammi per musica e «poetiche composizioni»), l’autore commissionò la preparazione di una serie d’incisioni nelle quali avrebbero dovuto essere rappresentati i fatti più rilevanti della sua carriera teatrale. Per ogni volume, una raffigurazione; e a commento delle incisioni, ciascun tomo avrebbe dovuto essere aperto da un breve scritto prefatorio, con la spiegazione del contenuto delle figurazioni. Franco Fido ha notato un diverso impianto generale nelle prime quattro prefazioni rispetto alle successive tredici: nei volumi iniziali la dipendenza del testo dall’incisione del frontespizio appare maggiore rispetto ai seguenti, nei quali la narrazione si svincola dal contenuto figurativo e acquisisce un’autonomia ormai prossima a quella di un testo autobiografico tradizionale 25. Ma il cambiamento di strategia avviene gradualmente e fa sì che taluni moduli stilistici tipici delle prime quattro prefazioni e riconducibili alla dipendenza del testo dall’immagine lascino tracce anche nelle successive, venendo progressivamente abbandonati o mutati. La disposizione della materia è assai eterogenea, sia nel senso che i diciassette testi corrispondono ad archi temporali di lunghezza assai variabile (dai singoli aneddoti d’infanzia, come quello su cui s’incentra la prefazione al tomo II, al biennio riminese su cui la prefazione al tomo IV sorvola senza quasi dare alcun dettaglio), sia nel senso che la loro estensione testuale è piuttosto varia, e non sempre proporzionata all’intervallo di tempo corrispondente. Così, a partire dalla prefazione al volume VIII, dedicata al periodo trascorso al collegio Ghislieri, la lunghezza media dei brani introduttivi è all’incirca doppia rispetto a quella dei precedenti, non mancando casi di prefazioni ancora più lunghe, come quella del tomo XI. ne»: ma si riferisce in particolare alle parti dialogate, cioè a quelle più “teatrali”; lo stesso Folena, del resto, propone una valutazione complessivamente limitativa delle «memorie italiane» rispetto ai Mémoires, ibid., p. 388. 25 Cfr. Fido 1984, p. 120: «è facile osservare che mentre le prime quattro prefazioni, composte a Venezia, si limitano a commentare l’episodio raffigurato nell’incisione, dalla quinta in poi (scritte a Parigi) la narrazione si fa continua e tende a fornire non più solo la chiave (...), bensì lo sfondo e il contesto dell’illustrazione». 166 Tale disomogeneità è compensata dalla presenza di raccordi testuali fra le parti e di strategie ricorrenti all’inizio e alla fine delle prefazioni. La diretta dipendenza del testo dall’incisione dell’antiporta nelle prime prefazioni spiega il fatto che la terza e la quarta siano aperte da un richiamo – peraltro rapido – al contenuto del «rame», che tuttavia compare, in posizione lievemente ritardata rispetto all’esordio, anche in vari volumi successivi: L’antiporta, o sia frontispizio istoriato, che precede il presente tomo, rappresenta un teatro coll’orchestra fornita de’ suonatori, ed una figura di giovanetto in abito femminile, in atto di recitare il prologo della commedia (p. 786). L’azione rappresentata nel primo rame di questo tomo, ed il verso d’Ovidio sottoposto al disegno vuol dire, ch’io era costretto a studiare, e a difendere la scolastica filosofia (p. 789) Il rame, ch’io presento al pubblico per frontespizio, o sia antiporta di questo quinto volume è un pezzo comico da lavorarvi sopra una buona commedia (p. 792). Miratemi al tavolino, sotto la dettutura di un procuratore, che chiamasi in Venezia interveniente o sollecitatore (p. 797). Vedetemi ora nel frontispizio di questo tomo, in età di anni sedeci; vedetemi, dico, a Milano in casa del mio protettore e benefattore, il signor marchese senatore Goldoni, di cui vi ho parlato nel tomo quinto; e udite quai progetti avvantaggiosi mi ha offerti la sua generosa bontà; e aspettate poi di sentire nell’ottavo tomo seguente in qual maniera una gioventù sconsigliata, un estro comico mal diretto, troncato ha il filo delle mie più belle speranze (p. 799). Nella commedia della mia vita si cambia scena. Deposto il collarino, riprendo l’abito secolare, colla spada al fianco, e la parrucca a tre nodi. In quell’età un parruccone a tre nodi non lasciava di fare una deliziosa caricatura (p. 817). Ma non sempre l’ekphrasis relativa all’incisione si trova nella parte iniziale del testo. In un caso, anzi, la dettagliata descrizione del ritratto di Goldoni in veste di avvocato veneziano si accampa al centro di una prefazione, la decima, e si estende ben oltre i limiti concessi altrove al commento dei «rami»: a conferma, si direbbe, del compiacimento con cui l’autore esibiva la propria qualifica di avvocato veneto e sottolineava i propri trascorsi professionali nel foro – un tratto al quale non rinuncerà nemmeno quando, nei Mémoires, si rivolgerà ad un pubblico francese («Mais en me tournant d’un autre côté, je voyais qu’il n’y avait pas d’état plus lucratif et plus estimé que celui d’avocat», p. 106). Nei tomi dal XIII in poi il contenuto del «rame» è appena accennato 167 nel corpo della narrazione, con una rapidità che quasi tradisce la natura ormai pretestuosa della forma-prefazione (e del riferimento all’incisione dell’antiporta) rispetto ad un piano autobiografico divenuto ormai esplicito. In questi tomi la menzione e l’esegesi delle figure allegoriche che decorano le scene rappresentate nei «rami» diventano abituali: Ciò non ostante ho posto nel frontispizio di questo tomo il Bellisario in trionfo, perché sendo la prima opera ch’io ho dato al pubblico, la sua buona riuscita ha prodotto in me il Contento ed il buon Augurio, spiegati nelle due figure che sostengono il cartello del frontispizio medesimo (p. 888). Ebbe la mia accademia perciò tutto l’applauso che poteva desiderare, e l’onore, ch’ella mi ha fatto, mi ha indotto a prenderla per soggetto del frontispizio di questo tomo, esprimendo nelle due figure al di sopra la Verità e la Gratitudine, che m’hanno indotto a farla (p. 899). Questo bene, questa felicità me l’ha portata in casa e me l’ha conservata la mia virtuosa consorte. Ne ho fatto giustamente il soggetto nel frontispizio figurato di questo tomo. La stampa rappresenta il mio matrimonio, e le due figure al dissopra sono la Concordia e la Pace (p. 906). onde fra il lucro cessante e il danno emergente, e coll’aggiunta di quelle avventure che si combinarono in mio danno, come vedremo, ebbi occasion di dire a me stesso col principe de’ poeti latini: Quo diversus abis? E mi son servito del motto medesimo sotto il frontispizio di questo tomo, che rappresenta quest’epoca per me sfortunata (pp. 916-17). Il bravo signor colonnello colle sue lettere, colle sue patenti, e co’ suoi sigilli occupa il frontispizio di questo Tomo. La Fraude e l’ Ingratitudine, che sostengono il cartello, lo accompagnano degnamente; ed il motto latino: Cum relego, scripsisse pudet etc. spiega la vergogna ch’io provo anche al giorno d’oggi rileggendo la confession della mia stolidezza (pp. 929-30). La serie delle prefazioni è concepita fin dall’inizio secondo un disegno unitario e composta alla stregua di un unico macrotesto idealmente ricomponibile, come dimostra il fatto che fin dalla seconda prefazione emergono – soprattutto nei finali – accenni anticipatorî del seguito della narrazione autobiografica. Ma essi si fanno sempre più precisi, e passano dal generico rimando a «le mie prefazioni e le mie lettere dedicatorie» al raccordo narrativo vero e proprio, che può essere funzionale (come accade nel tomo XIV, e in parte anche nel tomo XI) ad un’effetto di sospensione dell’attesa del lettore, oppure combinarsi (come nei tomi X e XVII) al modulo dell’appello al lettore: 168 Se avrai la sofferenza, lettor carissimo, di leggere le mie prefazioni e le mie lettere dedicatorie, vi troverai degli anecdoti e delle notizie, che non ti aspetti, e qualche volta una lettera o una prefazione valerà a compensarti la noia che avrai nel leggere una commedia, o cattiva per se medesima, o mal confacente al tuo genio. (p. 785) Vedrai ben presto, lettor carissimo, quali accidenti, quali avventure mi hanno fatto abbracciare il miglior partito (p. 847). Sentirete nel tomo seguente chi era questo zio, chi era questa nipote. Vedrete il mio Bellisario finito, e mi vedrete fra le armi, e fra le disgrazie giungere al desiderato impiego di compositor di commedie (p. 865). Dirò nel tomo seguente, qual buona fortuna colà mi attendeva (p. 903). Sentirete, lettori miei amatissimi, quali, e quante avventure ora triste, e ora buone, mi sono arrivate all’armate; come abbandonate avea le mie commedie, e come le ho poi con più fervore novellamente intraprese ecc. (p. 932) Il richiamo al pubblico si osserva con regolarità nelle «memorie italiane»: espediente tipico in generale della narrativa dell’epoca e in particolare di quella memorialistica e autobiografica, e tanto più naturale in uno scrittore di teatro, che a espressioni molto simili ricorreva nel presentare «a chi legge» le proprie commedie 26. Appellativi come «lettor carissimo» (che compare anche nel tomo VI e nel X) si alternano dunque con altre usuali varianti, come «amici lettori» (p. 799), o «lettori umanissimi» (p. 848), «lettor mio gentilissimo» (p. 790): formule tutte facilmente rintracciabili anche nei prologhi di tanti testi teatrali. Altrettanto consueta, e altrettanto opportunamente variata, è la richiesta di scuse («scusatemi, leggitori carissimi», p. 861), l’appello al compatimento («compatitemi, se vi do piacere», p. 798) o altri analoghi («soffrite. .. ch’io vi faccia passare per le varie situazioni», p. 799, e poco oltre: «soffrite, vi supplico, i tempi della mia vita meno interessanti», «piacciavi. .. di accompagnarmi ancora pazientemente per questa via, che mi ha condotto al teatro», p. 848) miranti ad accorciare la distanza dal pubblico, conferendo al testo un tono di familiare complicità 27. 26 Traggo alcuni esempi dai volumi dell’edizione nazionale in corso di allestimento: «Lettor carissimo» si legge nell’Autore a chi legge della Sposa persiana, dell’Ircana in Ispaan (Goldoni 1996, p. 144), del Cavaliere di spirito (Goldoni 1998, p. 137), della Castalda (Goldoni 1994, p. 120), dell’Amor paterno (Goldoni 2000, p. 112), «Lettore umanissimo» nell’Apatista (Goldoni 1998, p. 257), «Lettor gentilissimo» nell’Osteria della posta e nella Villeggiatura (Goldoni 1998, p. 507, e Goldoni 2006, p. 98). 27 Si tratta di un espediente raro nei prologhi delle commedie, come è ovvio visto che in 169 Un effetto di discontinuità narrativa e di avvicinamento al presente producono poi i cenni alla ratio della narrazione autobiografica. Sia nella prefazione del tomo secondo («La storia della mia vita non è quella di un uomo, che vaglia ad interessare il pubblico per risaperla», p. 783), sia in quella del tomo XII («il preliminare è sì lungo, e la mia vita sì poco interessante, ch’io mi vergogno d’aver impiegato le prefazioni di dieci tomi per raccontarne gli aneddoti», p. 866) è esplicitato il motivo dello scarso interesse delle vicende narrate, che riecheggerà, del resto, ancora nella prefazione dei Mémoires (dove per giustificarsi Goldoni rinnoverà il vecchio auspicio illuminista di giovare agli eruditi); e il timore di ennuyer il lettore, nonché la giustificazione in nome di tale scrupolo, di digressioni o al contrario di ellissi narrative, diverrà topico nell’autobiografia “conclusiva” 28. Nella prefazione al tomo XIV l’autore si compiace di essere finalmente «arrivato a que’ tempi, ne’ quali le mie prefazioni non saranno inutili, trattandosi ora di quell’ordine, di quei progressi, con cui si è formato a poco a poco il mio teatro» 893, dove si noterà lo stesso aggettivo usato anche da Carlo Gozzi per il titolo definitivo della sua autobiografia, inizialmente modellato (come si vedrà) in forma simile a quella scelta anche da Goldoni per i Mémoires. Ma se l’inutilità cui farà riferimento il conte Gozzi è quella di una lotta ideologica e culturale di cui l’autore lamenta la sconfitta, quella protestata da Goldoni consiste, appunto, nella vanità di una narrazione meramente aneddotica. Molte delle caratteristiche narrative delle «memorie italiane» concorrono alla loro complessiva coesione: è possibile, in effetti, che già all’altezza di questi testi Goldoni meditasse la composizione di un vero e proprio testo autobiografico come quello che egli comporrà, a Parigi, attingendo largamente ai materiali di quel primo e incompiuto esperimento. Quanto quei testi meno si giustificherebbe il richiamo alla pazienza degli spettatori e dei lettori. Tuttavia, qualcosa di simile si legge ad esempio nell’Autore a chi legge dell’Ircana in Julfa (Goldoni 1996, p. 245), e in quello dell’Ircana in Ispaan, nel quale l’autore punta alla partecipazione simpatetica da parte del lettore. Un tono affettuoso e suasorio ha anche il prologo dell’Amore paterno, scritto dalla Francia e malinconicamente rivolto al pubblico italiano (Goldoni 2000, p. 99). Di tipo metatestuale, poi, l’appello alla pazienza del pubblico che chiude il prologo della Villeggiatura: «Dirà qualcuno: “Questo discorso al Lettore si potea risparmiare”. È vero, ma costa tanto poco, che ciascuno lo può soffrire pazientemente» (Goldoni 2006, p. 98). 28 Ad esempio: «Ne vous ennuyez pas, mon cher Lecteur, à cette digression; vous verrez combien elle aura été nécessaire à l’enchaînement de mon histoire» (p. 133); «Jé n’ai point parlé de mon épouse depuis ce nouvel accident, pour ne pas ennuyer mon Lecteur» (p. 209); «Ne commenceriez-vous pas, mon cher Lecteur, à vous ennuyer de cette collection immense d’extraits, d’abrégés, de Sujets de Comédies?» (p. 394). 170 alla consapevolezza linguistica e stilistica dell’autore, la serie presenta già in forma esplicita – pur se, talvolta, ancora allo stato di abbozzo – vari spunti destinati a ritornare ancora nei Mémoires e a caratterizzarne la riflessione metalinguistica. Già nella prima prefazione, dunque, Goldoni accenna in forma apparentemente neutra e non polemica a un tema – quello dell’esemplarità del suo italiano agli occhi dei lettori stranieri, in particolare francesi – che contrasta con la dichiarata nonchalance nei confronti della tradizione e dei modelli da essa consacrati (o in altre parole con la «mancanza di ogni complesso di inferiorità nei riguardi di quella tradizione letteraria, che per lui si condensa genericamente negli arcaismi e dei riboboli di Crusca», di cui parla Folena 29). Nel riportare la citazione di una lettera in cui Voltaire gli comunica che la nipote del «grand Corneille» va imparando l’italiano sul testo delle sue commedie, il commediografo non scrive solo una pagina cruciale circa quella vitalità settecentesca dell’«italiano in Europa» su cui si è appuntato lo stesso Folena. Egli agita anche una questione, insieme linguistica, stilistica e culturale, che alla vigilia della sua definitiva partenza da Venezia è ancora ben viva: la disputa che vedeva schierati i difensori della tradizione linguistica e letteraria contro i novatori, cioè il fronte (unitario, agli occhi dei puristi) Goldoni-Chiari, caratterizzato dall’insofferenza verso i modelli illustri – e libreschi – cari al purismo granellesco. Il tono di modestia («a mia confusione») con cui il commediografo riferisce le lodi degli «oltramontani» dissimula dunque tale polemica, rivelando già a questa altezza la tendenza a glissare sui motivi di scontro con gli avversari culturali e letterari, soffermandosi abilmente sulle lodi di alleati ed estimatori, soprattutto stranieri. La riluttanza all’attacco polemico e la preferenza per toni pacatamente difensivi non sono, dunque, caratteri esclusivi dell’anziano autore dei Mémoires 30: Da altri moltissimi oltramontani ho inteso dire, a mia confusione, che si valevano de’ miei tomi per imparar la lingua italiana. So bene, che le opere mie non vengono in 29 Cfr. Folena 1983, p. 92. Rispondente allo stesso principio mi pare la tecnica impiegata nel prologo della Pamela maritata – pubblicato per la prima volta proprio nel volume iniziale dell’edizione Pasquali, 1761 – per scendere nell’agone della polemica linguistica: in quella commedia, il compito di difendere Goldoni dalle accuse dei puristi è affidato alla riproduzione di un carteggio tra Voltaire e Francesco Albergati Capacelli, in cui quest’ultimo difende il commediografo dai «Parolaj, juges et connaisseurs de mots, qui prétendent que tout est gâte, dès-qu’une phrase n’est pas toutà-fait cruscante, dès-qu’une parole est tant soit peu déplacée, ou l’expression n’est pas assez noble et sublime»: cfr. Goldoni 1995, p. 194. 30 171 ciò preferite pe’l merito del loro stile, ma in grazia della materia, piacevole per se stessa, e conosciuta per tutto. Pure io sono in debito di purgarle, per quanto posso, dai difetti di lingua per non ingannare i stranieri, che di me si fidano, e per non fare un torto alla nostra Italia medesima. Procurerò di farlo colla maggior esattezza possibile, e là dove sarò forzato di usare le parole, o le frasi veneziane, o lombarde, darò in piè di pagina la traduzione. In termini simili il commediografo si era espresso, come si è visto, nella prefazione Bettinelli (e già nel prologo delle Massere, anzi, egli aveva preannunciato di voler approntare un vocabolario «colla spiegazione dei termini, delle frasi e dei proverbi della nostra lingua per uso delle mie Commedie»: un progetto che, come è noto, non si realizzerà mai 31). Ma nelle prefazioni Pasquali alla giustificazione della presenza di «parole, o. .. frasi veneziane, o lombarde» si accosta un’esplicita affermazione della propria modernità: Goldoni s’impegna a non scrivere in «quel toscano che usavasi a’ tempi del Boccaccio, del Berni, e d’altri simili di quella classe» (p. 781, dove la citazione del secondo autore accanto alla “corona” della prosa toscana antica allude manifestamente a uno dei modelli del purismo contemporaneo, in particolare di quello granellesco) e ad adeguarsi piuttosto a «come scrivono i toscani de’ giorni nostri, quali si vergognerebbono di usare que’ riboboli, che sono rancidi, e della plebe, e abbisognano di commento, e di spiegazione per gli stranieri non solo, ma ancora per la maggior parte degl’italiani». Forse non casuale, in quest’ultimo passaggio, l’uso dell’aggettivo rancido per indicare i «riboboli. .. della plebe»: di «rancidumi» e di «parole rancide» discorrevano rispettivamente il Muratori nel trattato Della perfetta poesia italiana e il Salvini nelle Annotazioni a quell’opera, l’uno riprendendo l’accusa rivolta a Dante dal Nisieli di aver impiegato forme arcaiche e desuete, l’altro difendendo il sommo poeta per l’uso di forme qualificate appunto in quei termini – termini che verranno ripresi anche dal Cesari nel suo attacco all’anti-purismo primosettecentesco 32 (rancidumi, del resto, continueranno ad esser chiamati i peregrini toscanismi trecenteschi ancora dal Galeani Napione 33). 31 Il proposito goldoniano è illustrato da Stussi 2005, p. 181. Cfr. Muratori 1821, p. 375 (si tratta dell’annotazione numero 110 del Salvini): «il dire che in Dante vi abbia rancidumi, è uno anacronismo di critica. Poiché i rancidumi sono rispetto a noi, non rispetto a lui che viveva in secolo, che molte di quelle voci usavano [sic] siccome ne fan fede gli scrittori contemporanei»; per la ripresa dell’Abate Cesari, il capitolo VII della Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (Cesari 2002, pp. 34-35). 33 Cfr. Galeani Napione 1830, p. 68. 32 172 Gianfranco Folena ha cautamente indicato in simili pronunciamenti, e in particolare nello «sguardo fisso alla lingua viva» un «generico presentimento manzoniano», quasi che il Goldoni individui nel toscano contemporaneo l’unico possibile alleato nella ricerca di un parlato al tempo stesso «spontaneo» e «italiano», cioè comprensibile ad un pubblico potenzialmente indistinto. Il suggestivo parallelo non va, ovviamente, interpretato come una perfetta corrispondenza: modello generico di “parlato vivente”, il toscano non è per Goldoni un punto di riferimento esclusivo, e si contamina anzi sistematicamente, come si è visto, con l’adozione di «voci lombarde» e di «vernacoli veneziani». Da questo punto di vista, nulla appare più lontano dall’ideale manzioniano e dal suo strenuo analogismo a base toscana: le stesse «memorie italiane» si pronunciano contro l’eccessivo toscanismo di un autore come il Fagiuoli, i cui riboboli «incomodavano infinitamente», e la cui «lingua fiorentina» fece sì che i suoi lavori «non passassero i confini della Toscana». E nulla appare più lontano dalla «soverchia preoccupazione della forma» (come la chiamava l’Ascoli, riferendosi ai seguaci del Manzoni) rispetto all’atteggiamento di un Goldoni capace di scrivere, in una lettera a Giovanni Lami del 1758: «che dirà ella di un uomo che scrive tanto? Mi dirà: scrivi meno, e scrivi meglio. Ma in Italia chi scrive poco, mangia poco» 34. In definitiva: un monolinguismo antitradizionale e vernacolare non è, per Goldoni, meno rischioso dell’eccessiva osservanza letteraria, e un’eccessiva cura nello schivare modi e forme proprie della tradizione apparirebbe non meno innaturale del rovello purista. Quello della lingua «quasi morta, perché dagl’italiani medesimi inusitata» della tradizione è, come si è già accennato nel capitolo I e come si vedrà ancora nei prossimi, un tema fra i più tipici dei dibattiti linguistici italiani del Settecento. Lingua «per così dire, né viva, né morta» era l’italiano per l’Algarotti dei Dialoghi sopra l’ottica neutoniana, pubblicati nel 1752, cioè in anni molto vicini a quelli delle «memorie italiane». Ma anche in questo caso, l’almeno parziale consonanza della riflessione goldoniana con quella di figure ben più rilevanti nel dibattito linguistico contemporaneo è solo apparente e superficiale, perché fondata su ben diverse esigenze. Nel contrapporre l’italiano reçu della tradizione letteraria a una lingua viva dai caratteri ibridi ed evanescenti, in quanto ispirati solo alla generica aspirazione alla naturalezza, le «memorie italiane» richiamano la natura obbligata di una simile scelta per una scrittura teatrale rivolta ad un pubblico mol34 Goldoni 1956, p. 201. 173 to ampio («dovrei pensare a tutt’altro, che a scrivere pe’l teatro, e a dar piacere all’universale»). In tal modo l’autore giustifica da un lato l’insuccesso sulla scena della Scuola di ballo («ho riscosso poco meno che le fischiate»), in cui il recupero della lingua letteraria è perseguito «seriosamente», e da un altro il successo di un Tasso, in cui esso avviene «in caricatura», cioè attraverso il personaggio del ridicolo cruscante, il Cavalier del Fiocco 35. Ma l’accostamento delle due opere appare quasi forzato, e cercato solo come rincalzo argomentativo. In realtà, l’opzione anti-tradizionale del linguaggio teatrale goldoniano e la sua efficacia per il rilancio del prestigio culturale dell’italiano nell’Europa settecentesca non verranno lodati solo dai lettori «oltramontani»: attribuendolo al giudizio del pubblico straniero, il commediografo contribuisce a diffondere e a valorizzare tale apprezzamento in quella parte dei suoi lettori italiani su cui meglio poteva agire il condizionamento di giudizi come quello di Voltaire (autore che, per parte sua, Goldoni elogerà addirittura per la conoscenza del dialetto veneziano 36). Il più noto fra essi è Melchiorre Cesarotti, che nel lodare – già nel Saggio sulla lingua italiana, e poi nel definitivo Saggio sopra la filosofia delle lingue - la lingua del Goldoni, riconosce all’autore veneziano il merito di non «essere ricercatore delle squisitezze del toscanesimo». Se dunque Goldoni, secondo Cesarotti, rese «la nostra lingua alquanto più nota e cara all’Europa di quel che facessero i Villani e i Passavanti» 37, in un simile giudizio riecheggia l’affermazione – per così dire autopromozionale – della prima prefazione Pasquali circa i giudizi degli «oltramontani». Non è un caso, del resto, che quell’affermazione fondasse la propria efficacia sulla chiamata in causa di un autore, Voltaire, di cui Gianfranco Folena ha sottolineato appunto la spregiudicatezza («Voltaire è stato uno dei primi scrittori a conoscere perfettamente il valore della “propaganda”» 38) e la capacità diplomatica anche nella gestione di una tastiera linguistica cosmopolita. A uno scrittore «oltramontano», insomma, Goldoni affida non solo il compito di consacrarlo come autore francese (non ostan35 «Je plaçai assez adroitement dans ce même Ouvrage un personnage Florentin, sous le nom de Cavaliere del fiocco (Chevalier de la Houpe): ce n’étoit pas un Académicien de la Crusca; j’avois trop de respect pour cette société illustre et savante, pour exposer un de ses membres à la risée du Public. Le Chevalier de la Houpe est un de ces rebuts de l’Académie, qui affectent le rigorisme de la Langue Toscane, et tombent dans l’absurdité. Telle étoit la plus grande partie de ceux qui en vouloient à mon style». 36 Cfr. Goldoni 1956, p. 290 (lettera del 9 luglio 1763). 37 Cfr. Puppo 1966, p. 364. 38 Cfr. Folena 1983, p. 398. 174 te il tono di umile esitazione con cui il commediografo allude, nelle lettere al philosophe, alla propria conoscenza di quella lingua 39), ma anche quello di avallare la sua autorevolezza e la sua esemplarità linguistica in un quadro culturale in cui i criteri di giudizio “nazionali”, ossia basati sulla tradizione letteraria italiana, sono sostituiti dai parametri della République des Lettres. Sotto questa luce ben si comprendono sia l’entusiasmo cesarottiano (addirittura una citazione dissimulata del testo della prima Pasquali), sia il commento sarcastico di Carlo Gozzi nella Chiacchiera: «Oh Europa, se t’è nota e cara la lingua litterale dell’Italia per i scritti del Goldoni, so dire ch’ella t’è nota e cara per un bel verso!» 40. Già nel 1764, invero, recensendo la Pamela maritata, il Baretti aveva ironizzato sull’investitura linguistica conferita a Goldoni da Voltaire («perché quello ch’egli sa d’italiano non è che una infarinatura leggiera leggiera»), prendendo spunto dal plauso del philosophe per un celebre affondo antigoldoniano, in cui il parlato composito e al tempo stesso naturale delle commedie è caratterizzato in tono malevolo, ma in fin dei conti felice: Questa letteruzza è paruta una gran meraviglia al Goldoni che non ha criterio alcuno in fatto di lingua, e che scrive un italianaccio così tra il veneziano, il lombardo e il romagnuolo, nulla punto dissimile da quello dell’autore del Caffè suo panegirista che ha fatta rinunzia davanti nodaro alla pretesa purità della lingua toscana. Io però, che ho procurato sempre di scrivere nella mia lingua con tutta forbitezza, come fa il signor di Voltaire quando scrive nella sua, dico che questa sua letteruzza italiana contiene tanti spropositi quanti ne poteva contenere 41. Il complesso delle osservazioni delle «memorie italiane» dedicate a lingua e stile teatrali anticipa dunque spunti e motivi che verranno sviluppati o ulteriorimente variati nei Mémoires. Ma il minore svolgimento che nelle prefazioni Pasquali hanno alcuni accenni metalinguistici si spiega con la diversità del pubblico presupposto nelle due circostanze. È il caso degli accenni sul dialetto veneziano: mentre i lettori francesi abbisognavano di una completa iniziazione al linguaggio della città lagunare, quelli italiani 39 In una lettera del 16 marzo 1771, Goldoni scrive ad esempio al parigino: «J’ai consulté quelques uns de mes amis, et on me flatte que mon françois peut passer» (Goldoni 1956, p. 365). 40 Cfr. Chiacchiera, § 70 (si cita dall’edizione di Marta Vanore di cui si è detto nel capitolo precedente). 41 Cfr. Baretti 1932, p. 186. 175 cui si rivolge il «sommario della mia vita» potevano essere rimandati semplicemente alle note linguistiche a piè di pagina nei testi delle commedie. Così, il termine mezà, p. 838 (il ‘piano ammezzato’ in cui si trova lo studio legale del giovane avvocato Goldoni) può comparire senz’alcuna glossa esplicativa. E i cenni all’indole del dialetto cittadino, che si ritroveranno sviluppati nei Mémoires, sono ridotti qui a note fugaci («l’allegria naturale portata dal mio paese, la lingua piacevole veneziana», p. 803), che paiono riecheggiare l’elogio, al tempo stesso elativo e fugace, delle «diciture in gergo, che piacevolissime sono a chi le intende» nel prologo della Putta onorata, del 1748; mentre per l’illustrazione (così accurata, lo si vedrà, nel testo francese) dei vocaboli caratteristici impiegati in alcune commedie, Goldoni si limita qui a chiosare il caso della Pelarina («che significa in veneziano una donna, che pela, cioè, che pilucca gli amanti», p. 825) e del Paroncin, nome di una maschera del teatro veneziano accostato, peraltro, a un termine francese: «il paroncin veneziano è quasi lo stesso che il petitmaître francese: il nome almeno significa la stessa cosa; ma il paroncin imita il petit-maître imbecille, ed evvi il cortesan veneziano, che imita il petitmaître di spirito», p. 910 (esempio che qualifica implicitamente il lessico veneziano come più ricco di quello francese). Se vi è un settore nel quale il pubblico italiano ha bisogno di esposizioni linguistiche più accurate, è il linguaggio giuridico veneziano, che il commediografo impiega non solo nel riferire le proprie esperienze come avvocato, ma anche per il caratteristico compiacimento che egli mostra nel trattare di argomenti forensi (quasi un tic, che lascia qualche involontaria traccia in talune movenze avvocatesche della sua prosa, tanto invise al Gozzi). Così, nell’illustrare il contenuto del «rame» del tomo VI, Goldoni specifica che il procuratore «chiamasi in Venezia Interveniente, o Sollecitatore», e poco oltre egli costruisce un calembour su un termine tecnico della giurisprudenza veneziana («oh quante volte mi hanno trovato sul fatto a formare il sommario di una commedia, in luogo di sommariare un processo!» 42). Nel tomo X, la già richiamata descrizione di sé stesso nelle vesti di avvocato veneto indugia sul nesso «essere in ormesini» 43 («tratta la parola dall’ormesino, ch’è il drappo di seta, con cui si forma la sottoveste, ed il gonnellino, e con cui si fodera la lunga, e vasta toga, che in detto tempo si porta aperta», p. 836), e ricorre ampiamente al linguaggio di cancelleria («vi era 42 Cfr. Boerio 1856 s.v. sumariar: «Compendiare. Fare il sunto, il compendio. Ridurre in breve». 43 176 Cfr. Boerio 1856 s.v. ormesin: «Ermellino o Armellino». l’articolo legale, la dimostrazione di fatto, ed in virtù di Lettere avogaresche la causa era devoluta all’Avogaria dinanzi a Sua Eccellenza il Signor Avogador Tiepolo», p. 840), quasi a giustificare il titolo di «avvocato veneto» che anche l’edizione Pasquali, come già abitualmente le precedenti edizioni delle sue opere, si accompagna fin nel frontespizio al nome dell’autore. 3. La lingua delle «memorie italiane» Nella prefazione al volume III della Pasquali, Goldoni varia su un tema fra i più tipici della cultura linguistica settecentesca: la contrapposizione fra la «semplicità dello stile, e la naturalezza del dire» tipiche del secolo presente e l’inadeguatezza stilistica di quello precedente. Il merito del passaggio dall’una all’altra maniera è attribuito «ai primi scrittori del nostro secolo», cioè ai primi Arcadi, «i quali hanno liberata l’Italia dalle iperboli, dalle metafore, dal sorprendente» (p. 787), come a dire dall’armamentario stilistico e retorico barocco. La dichiarata ricerca di spontaneità e naturalezza approda, nel Goldoni commediografo, a esiti fra i più notevoli nella prosa teatrale italiana, ma di fatto non raggiunge gli stessi risultati nella scrittura narrativa delle «memorie italiane», per le quali si potrebbe ripetere il giudizio sostanzialmente limitativo riferito da Fido ai Mémoires («non c’è dubbio... che la sua grandezza va cercata soprattutto nelle commedie, e che “scegliere” fra queste e i Mémoires è assai più facile, mettiamo, che fra le tragedie e la Vita di Alfieri» 44). Il concorso di forme letterarie o addirittura – a quest’altezza cronologica – libresche e di tratti meno marcati, di movenze sintattiche preziosamente arcaizzanti e di accusati, né sempre sapientemente dosati, colloquialismi e francesismi lessicali compone una miscela linguistica nella quale da un lato si ritrovano caratteri affini a quelli della scrittura teatrale (delle tre lingue goldoniane, l’italiano è indicato da Folena come «il più composito nella sua tessitura grammaticale» 45), da un altro si constata la diversa abilità con cui il commediografo trattava la scrittura scenica e quella narrativa autobiografica. All’indifferenza di Goldoni per una cura formale che non si colleghi all’efficacia comunicativa si accompagna coerentemente un’analoga noncuranza nei confronti della revisione finale dei suoi testi a stampa. Se, 44 45 Cfr. Fido 1984, p. 134. Cfr. Folena 1983, p. 360. 177 come si è visto per la prefazione Bettinelli, è documentabile una revisione – da attribuire certamente all’autore – attraverso le varie edizioni autorizzate delle opere goldoniane, è altrettanto certo che il commediografo delegava alle tipografie la minuta correzione dei suoi testi (nei Mémoires non manca una nota di biasimo per l’operato degl’inaffidabili proti dell’edizione torinese del Cavaliere giocondo 46). Sulla veste grafica, fonetica e morfosintattica delle «memorie italiane» grava dunque, non diversamente dal resto della produzione goldoniana, l’incognita derivante dalla totale assenza non solo di manoscritti, ma anche di stampe di cui sia sicuro il puntuale controllo da parte dell’autore. L’incertezza è tanto più pesante se si considera che la maggior parte dei volumi della Pasquali (tutti, a parte i primi due) fu pubblicata dopo la partenza per Parigi dell’autore: per questi testi, la mancanza di una revisione d’autore è addirittura certa, e molto probabile l’intervento del personale di tipografia. Pur con queste riserve, la testimonianza complessiva delle prefazioni Pasquali fornisce un quadro coerente e attendibile della prosa italiana di Goldoni e ne rivela qualche peculiarità rispetto alla lingua delle commedie; permette, inoltre, di accertare la coerenza fra le dichiarazioni linguistiche dell’autore e la sua prassi di scrittura. Le disomogeneità e le incoerenze – peraltro lievi – che si riscontrano in talune grafie e in talune forme non andranno necessariamente attribuite all’impossibilità per Goldoni di seguire da vicino la stampa, visto che simili anomalie sono state documentate anche nel francese dei Mémoires, cioè in un’opera che pur essendo stata composta in una lingua straniera, poté contare non solo sul controllo diretto da parte dell’autore, bensì sulla sorveglianza (forse determinante per la veste linguistica di quell’opera) di un revisore scelto da Goldoni. All’interferenza del veneziano – a parte la ricorrenza di forme con consonante scempia in luogo della doppia toscana, che è banale in un autore settentrionale dell’epoca 47 – si deve la curiosa retroformazione marchia (p. 46 «Je crois que celui qui étoit chargé de la correction des épreuves de l’Edition de Turin avoit pris en déplaisance cette Comédie comme moi; car la quantité de fautes que j’y ai trouvées est inconcevable» (p. 360). 47 Ad esempio in susistere (p. 777), esenziali (p. 784), sopraluogo (p. 867), brecia (p. 867), scritoio (p. 892), perdeti (p. 930); o al contrario: giubbilo (pp. 784, 800, 851, 868, 912), giubbilante (p. 794), seccentista (p. 786), ripettere (p. 788), rifflettere (p. 796), zottico (p. 809), faccendomi (p. 853), stomaccato (p. 861), pulizzia (p. 876), direzzione (p. 877), raggionamento (p. 918). Autorizzate dall’etimologia o alternativamente da un uso almeno discontinuo nella tradizione letteraria sono poi varie altre doppie, per le quali non sarà comunque da escludere una matrice ipercorrettiva: è il caso di consummata (p. 798), communicarla (p. 812), esseguirlo (p. 812), avvanzarono (p. 820), rubbò (p. 828), addattarli (p. 889), abbate (p. 890), addattata (p. 917). 178 870) ‘marcia’, evidentemente condizionata dai casi in cui il toscano presenta la velare (ad esempio chiodo, macchia e simili) in corrispondenza dell’affricata palatale del dialetto (ciodo ‘chiodo’, macia ‘macchia’). E quasi certamente influenzate dalla pronuncia dialettale sono anche forme come pransi (p. 826) e pransato (p. 825, 841, che pure s’accompagnano a pranzo, p. 877), per le quali pure non manca una certa diffusione in testi di autori settentrionali anche moderni 48. Fra i rari tratti fonetici toscaneggianti andrà invece segnalato l’occasionale uso del tipo cangiare (non raro anche nelle commedie, e diffuso anche in prosatori coevi di ogni provenienza) accanto al ben più frequente cambiare 49, nonché del tipo giugnere accanto a giungere, secondo un’alternanza consueta 50. Del resto, nella morfologia verbale più spesso si osservano soluzioni toscaneggianti o iperletterarie (cioè poetiche): del primo tipo sono le voci vo’ (p. 792) e vuo’ (p. 839) ‘voglio’, o l’uso costante del perfetto andiedi (analogico su diedi) 51, toscano popolare e apertamente riprovato dal cruscante Domenico Maria Manni nelle sue Lezioni di lingua toscana 52; anche il condizionale vergognerebbono (p. 781) presenta una terminazione di tipo toscano popolare, pur – come si è già visto – sporadicamente diffusa negli scrittori anche non toscani dell’epoca 53. Altrettanto isolato è il condizionale sarieno (p. 850), arcaico e letterario (sebbene accolto senza particolari avvertenze dal Corticelli 54), che si accompagna a quattro esempi della più consueta sarebbero 55; analogamente connotate anche le forme ponno ‘possono’ (p. 779, che consente di aggiungere ulteriore documentazione a quella già adunata da Luca Serianni circa la diffusione di questa voce nell’italiano sei-settecentesco 56), fur (pp. 833, 906) e deggio (p. 48 La LIZ dà esempio da Antonio Brignole Sale, da commedie dello stesso Goldoni e dal manzoniano Fermo e Lucia (pranso). In una satira del bresciano Bartolomeo Dotti, pubblicata nel 1797, trovo un pranso in rima con tanso (‘tasso’, voce del verbo tansare): Dotti 1797, p. 52. 49 Esempi: cangiata (p. 778), cangiai (pp. 870, 895), cangiati (p. 889), cangiar (p. 920), a cui si aggiunga cangiamento (pp. 829, 924). 50 Esempi: raggiugnerci (p. 790), giugnemmo (p. 862) di contro a giungere (pp. 794, 865), giungesse (p. 795), raggiungere (p. 893), ecc. 51 Occ.: pp. 820, 822, 828, 829, 845, 856, 857, 863, 868 869 bis, 874, 876, 878. 52 Cfr. Manni 1737, p. 174: «Astengasi sul bel primo ciascun di noi da quelle maniere di solecismi: Io andiedi, Io stiedi, Ei puole, Colui vegghi, Noi ebbamo». 53 Per simili forme cfr. ad esempio Poggi Salani 1992, p. 425. 54 La LIZ [prosa700] ne dà solo un esempio nelle Memorie di Da Ponte, effettivamente caratterizzate – come si mostrerà nell’ultimo capitolo – da un notevole tasso di letterarietà. 55 Occ.: pp. 876, 886, 911. 56 Cfr. Serianni 1995, p. 52. 179 931) 57; meno significativa sendo (p. 891), che ha discreto corso nella prosa settecentesca e che lo stesso Goldoni usa comunemente anche nelle commedie. È probabile che l’influsso del linguaggio burocratico e giuridico – convergente con quello letterario più peregrino – favorisca la frequenza di locuzioni pronominali come il di lui («la di lui memoria», p. 780, anche se si tratta di un costrutto non ascrivibile, in origine, ai burocratismi, e diffuso nella prosa italiana a partire dal Seicento) 58, col di cui («col di cui mezzo», p. 925) 59, esso lui («con esso lui», p. 807) 60, seco lui («trattar secolui», p. 929) 61. Come già nella prefazione Bettinelli, la sintassi è il settore nel quale l’italiano di Goldoni inclina più vistosamente verso i modi e le forme della tradizione (di quella letteraria, e fors’anche di quella cancelleresca e burocratica), mostrandosi nei fatti piuttosto diverso dalla prosa più innovativa di quel secolo e dalla sua tendenza all’agilità e alla linearità. La ricerca di soluzioni lontane da un andamento piano e colloquiale si nota ad esempio nelle numerose sequenze aggettivo-nome (laddove il tipo nome-numerale, «anni otto», sarà probabilmente influenzato da un antico uso cancelleresco e burocratico) 62, nelle frequenti anteposizioni del participio all’ausilia57 Quest’ultima forma è registrata senz’avvertenze da Corticelli 1775, p. 82 tra le forme di dovere; ma per la sua prevalenza in poesia cfr. Serianni 2009, p. 195. 58 Altri esempi: «un certo di lei compare» (p. 778), «la di lui sorpresa» (p. 794), «alle di lui insinuazioni» (p. 795), «fu di lui sposa» (p. 797), «nel di lui studio» (p. 802), «al di lei consiglio» (p. 808), «alla di cui nobilissima, e gentilissima dama» (p. 822), «alla di lui campagna» (p. 826), «della di lei felice riuscita» (p. 899). Palermo 1998, ha documentato l’uso di questo modulo sintattico a partire dal Cinquecento, rilevandone da un lato la quasi unanime condanna da parte della tradizione grammaticale perlomeno dal Bartoli in poi, da un altro la buona diffusione nella prosa dei secoli seguenti: «nella lingua settecentesca il modulo, oltre ad aumentare considerevolmente la propria diffusione, conquista piena cittadinanza nel panorama letterario» (p. 27); si noti che nella tabella delle occorrenze settecentesche ricavata dalla LIZ e riportata da Palermo, Goldoni è l’autore che ne fa l’uso di gran lunga maggiore (697 occorrenze contro le 119 del secondo in ordine di frequenza, Alessandro Verri). 59 Si ha dunque: «alla di cui» (p. 822), «le di cui» (p. 831), «il di cui» (p. 886), «col di cui» (p. 925). 60 Altri esempi: «con esso lui» (pp. 807, 841, 851, 859, 861, 865), «con esso loro» (pp. 807, 855). 61 Esempi: secolui (p. 929), seco lui (pp. 795 bis, 796, 849, 853); per questa figura cfr. Tomasin 2001b. 62 Esempi: «poetiche composizioni» (p. 777), «rinnovato miglior sistema» (p. 787), «scolastiche tesi» (p. 790), «deliziosa filosofia» (p. 791), «troppo sospetta visita» (p. 796), «insigne pulpito del duomo di detta città» (p. 817), «comica rappresentazione» (p. 885); e per l’altro tipo, «anni otto» (p. 778). 180 re in forme composte dei verbi («composta avendo», p. 778) 63, o dell’infinito al verbo che lo regge («passar doveva», p. 795) 64, o ancora del verbo al soggetto («Sono dette mie opere in varie classi divise», p. 777) 65. Analogo valore hanno i casi di separazione dei componenti di perifrasi verbali con iperbati di tipo preziosamente letterario («diffidi di essere delle mie attenzioni ricompensato» 66), o l’interposizione di avverbi tra le preposizioni e i verbi ad essi legate («di colà trattenermi», p. 807) 67: esempi per i quali più ancora che la tradizione letteraria boccacciana, di cui i novatori illuministi non si stancavano di riprovare le caratteristiche inversioni sintattiche («trasponimenti», nella terminologia muratoriana 68), potrà essere richiamata di nuovo la consuetudine con il linguaggio forense e burocratico. Venendo ad altri minori caratteri sintattici, si è già visto nei capitoli precedenti che l’uso di avere come ausiliare dei verbi riflessivi e intransitivi pronominali conosceva ancora, nel Settecento, discreta fortuna in autori di varia provenienza; in Goldoni, esso si accordava con quello comune nel dialetto, dando luogo a sequenze come «non si aveva pensato» (p. 801), o «mi ho soddisfatto» (p. 900). Il simile vale per l’uso dello stesso ausiliare con verbi intransitivi come toccare nel senso di ‘capitare’ («mi aveano toccato in sorte», p. 833, «mi ha toccato difender la giovane», p. 838), piacere («avea piacciuto» 894, «con cui ha piaciuto», p. 924), costare («ha costato», p. 816): ancora una volta si tratta di tipi documentati nella lingua antica e discretamente diffusi ancora all’epoca, ma soprattutto normali nel dialetto (se ne incontrano, come si è detto, anche nel Gozzi). Sebbene la cronologia del fenomeno non sia stata ancora perfettamente ricostruita per quanto riguarda il veneziano, è probabile che al suo influsso si debba l’uso frequente del passato prossimo in contesti nei quali ci si aspetterebbe piuttosto il passato remoto (quest’ultimo, si badi, era pur 63 Altri esempi: «onorate furono» (p. 780), «troncato ha il filo» (p. 800), «se continuato avessi» (p. 838), «ch’io fatta avea» (p. 850), «supplito avevano» (p. 894), «vissuto aveva» (p. 895). 64 Altri esempi: «sbarcare doveva» (p. 795), «comparire potesse» (p. 913). 65 Altri esempi: «poiché trattandosi di operazioni di spirito, dipende l’esito il più delle volte dalla disposizione accidentale dell’animo » (p. 779), «Sogliono i predicatori» (p. 818), «Mi ricevette egli» (p. 891), «restò egli nella compagnia» (p. 902). 66 Altri esempi: «Proposi di mai più abbandonarla» (p. 823), «non mi è riuscito ancora di qui ottenervelo» (p. 856), «che hanno loro i poeti accordati» (p. 920). 67 Altri esempi: «di colà trattenermi» (p. 807), «di colà arrestarmi» (p. 808), «di colà trattenermi» (p. 819), «per di là passare a Venezia» (p. 871). 68 Cfr. Puppo 1966, p. 146. 181 sempre vivo nel veneziano dell’epoca, ma verosimilmente cominciava già il suo declino) 69. Il lessico delle «memorie italiane» documenta chiaramente la miscela di antico e di moderno, di «provincia» e di «Europa» (per usare una formula di Andrea Dardi) che si manifesta anche in altri àmbiti della lingua goldoniana. Non vi manca infatti qualche rara ma vistosa “macchia” tradizionale e letteraria tutt’altro che scontata in un autore additato dai rinnovatori alla Cesarotti come esempio di affrancamento dalle pastoie del passato: a un italiano decisamente classico appartengono ad esempio una forma verbale come gir (p. 790), un aggettivo come discare (p. 799) e fors’anche taluni alterati nominali e aggettivali di gusto letterario come libricciuolo 818 (pur largamente impiegato, nel Settecento, da autori di varia estrazione) o pocolino 843 70. Ben più numerosi, del resto, sono gli elementi innovativi, a partire dai francesismi, la cui varietà spazia da quelli già da tempo acclimati in italiano, ma ancora riconoscibili perché perfettamente corrispondenti a voci del francese moderno, come sortire (p. 803) e sortir (p. 815) ‘uscire’, e i derivati di avvantaggio come avvantaggioso (pp. 894, 905) 71 e davantaggio (p. 854) 72, o ancora bentosto (p. 862), che al pari delle precedenti è voce già cinquecentesca 73, ma affine a quel tantosto sul cui corrispondente francese lo stesso 69 Esempi: «non contento il mio Residente delle notizie, che riceveva da’ suoi corrispondenti, mi ha spedito due volte a Milano» (p. 867); «Non era sicuro di trovare il pubblico rappresentante, avea del rossore a presentarmi e a chiedere, e qui mi offerivano e mi pregavano, ho deliberato di accettare e di restare» (p. 873); «Soggiunse, che mi dava tutto il tempo ch’io voleva a restituirgli il danaro, che non volea ricevuta, e cent’ altre cose obbliganti. Al fine, per abbreviarla, ho accettato, ho preso sei zecchini in imprestito, son partito, sono andato a Verona, e di là dopo qualche giorno, glieli ho rimandati» (p. 874); «Siccome una gran parte di quella commedia era a soggetto, ha fatto credere agli amici suoi, che anche la parte sua era opera del suo talento, e che tutto quel che diceva, lo dicea all’improvviso» (p. 914). Verosimilmente influenzato dal dialetto è poi un caso di accordo tra un soggetto plurale e un verbo coniugato alla terza persona singolare (che nei dialetti settentrionali non si distingue, appunto, dalla forma plurale), sempre che non si tratti di un banale refuso: «nell’anno seguente non seguì cambiamenti» (p. 915). 70 Per libricciuolo la LIZ[700] dà esempi da Vico, Bettinelli e Alfieri. Pocolino è forma già trecentesca, e occorre anche nel Decameron, II.10.14. 71 Sebbene la forma sia già antica – pur mancando tra i derivati di avvantaggio censiti da Cella 2003, pp. 330 s. – nel significato ‘abile nel curare i propri interessi’ (il lemma è registrato nella Crusca IV), per il significato ‘vantaggioso’ il GDLI riporta esempi solo a partire dal Sarpi. 72 Il GDLI s.v. davvantaggio riporta esempi già dal Berni, e poi dal Caro, dal Galilei, dal Guicciardini. Ma anche in questo caso varie occorrenze provengono da autori settecenteschi come il Baretti e il Goldoni. 73 Per questa forma, indicata come «piuttosto letter.», il GDLI riporta già un esempio del 182 Goldoni riferirà, nei Mémoires, un singolare fraintendimento occorsogli in un dialogo con una delle sue allieve della corte parigina – episodio su cui Gianfranco Folena si soffermò per esemplificare gli «impacci» dell’apprendistato goldoniano nel campo del francese e dei suoi faux amis 74, e che rappresenta la versione casta e goldonianamente arguta dei simili, ma assai lubrichi fraintendimenti riferiti, come si vedrà, da Casanova nella Histoire de ma vie 75. Un francesismo e un tecnicismo teatrale insieme è il nesso «giocar le maschere» (p. 881), che l’autore stesso accompagna con una glossa metalinguistica («come dicono i commedianti»). Di importazione sei-settecentesca sono poi vari altri termini d’origine oltramontana per i quali è altrettanto probabile che Goldoni potesse leggerli in testi di connazionali o trarli direttamente dalla lingua d’origine. Se ormai ben ambientato nell’italiano settecentesco è il termine calesso 76, lo stesso non si può dire per gli aggettivi azzardoso (p. 821) 77, disavvantaggiosa (p. 883) 78, Tasso: ma ad esso segue una serie di occorrenze settecentesche di autori in varia misura “novatori”, da Goldoni a Bettinelli, da Casti a Parini a Foscolo. 74 Cfr. Folena 1983, p. 363. 75 «Malgré les plaisirs qui faisoient le but principal de cette agréable partie de campagne, j’avois tous les jours mes heures réglées pour travailler avec Mesdames; je me trouvai un jour sur le passage d’une de mes augustes Ecolieres qui alloit se mettre à table, elle me regarde, et me dit: à tantôt. Tantosto, en Italien, veut dire immédiatement. Je crois que la Princesse veut prendre sa leçon à la sortie de son diner; je reste et j’attends aussi patiemment que l’appétit me le permettoit, et enfin à quatre heures du soir la premiere femme-de-chambre me fait entrer. La Princesse, en ouvrant son livre, me fait la question qu’elle avoit l’habitude de me faire presque tous les jours; elle me demande où j’avois dîné ce jour-là. Aucune part, Madame, lui dis-je. – Comment, dit-elle, vous n’avez pas dîné? – Non, Madame. – Etes-vous malade? – Non, Madame. – Pourquoi donc n’avez-vous pas diné? Parce que Madame m’avoit fait l’honneur de me dire, a tantôt. – Ce mot prononcé à deux heures ne veut-il pas dire au moins à quatre heures de l’après-midi? – Cela se peut, Madame, mais ce même terme signifie, en Italien, tout-à-l’heure, immédiatement. Voilà la Princesse qui rit, qui ferme son livre, et m’envoie diner. Il y a des termes François et des termes Italiens qui se ressemblent, et dont l’acception est tout-à-fait différente; je donnois encore dans des qui pro quo, et je puis dire que le peu de françois que je sais, je l’ai acquis pendant trois années de mon emploi au service de Mesdames; elles lisoient les Poëtes et les Prosateurs Italiens: je bégayois une mauvaise traduction en François; elles la répétoient avec grace, avec élégance, et le Maître apprenoit plus qu’il ne pouvoit enseigner» (pp. 469-70). 76 Le forme calesse e calesso si alternano, negli esempi riportati dal GDLI, fin dal Settecento; cfr. poi Dardi 1992, pp. 145 s. 77 Il GDLI s.v. azzardoso riporta esempi a partire dal secentista Filippo Corsini. Dallo stesso dizionario si ricava un giudizio del Dizionario dei sinonimi di Tommaseo-Rigutini («dicesi anche, ma familarmente, azzardoso») e una citazione del termine nel Dizionario dell’infima e corrotta italianità dell’Arlìa. 78 Il GDLI riporta un esempio già in Filippo Sassetti e uno nel Paruta, ai quali ne seguono da Sarpi, Pallavicino e da Goldoni (L’amante militare). 183 oltrepassato (p. 787, nel nesso «secolo oltrepassato») 79 o per il sostantivo appuntamenti (p. 928) ‘compenso convenuto’ 80 o ancora per il nesso non mi saprete malgrado (p. 799) 81. Più rari i francesismi non adattati o solo parzialmente adattati, come il termine militare mitraille 870 («cannoni, caricati a m.») 82 e l’espressione «mise il paroli», corrispondente al francese faire le paroli ‘raddoppiare la posta di una puntata dopo una vincita’, che a sua volta è un italianismo attestato a partire dalla metà del secolo XVII 83. Complessivamente limitato il contingente dei dialettalismi: più che in singoli termini (come ad esempio schiranzia ‘angina del cavo orale’, p. 898, forma meno consueta e probabilmente dialettale di scaranzìa 84), la coloritura veneziana delle «memorie italiane» si coglie in alcuni proverbi, talvolta comuni ad altre aree, ma puntualmente registrati anche nelle commedie dialettali («Porre, come dir si suole, il carro innanzi a’ buoi», p. 784 85), talaltra più caratteristicamente locali, pur se puntualmente reversibili persino in francese: «Quando un uomo pensa, e medita, e non ha faccende, dicesi, ch’ei fa de’ lunari», p. 839 86, espressione di cui nei Mémoires verrà riL’esempio più antico riportato dal GDLI è appunto goldoniano. Per quest’accezione, alla quale va senz’altro ricondotto il nostro esempio («Ma io sono aggravato di troppe spese; non potrò darvi quegli appuntamenti... »), il GDLI riporta occorrenze solo a partire dal Leopardi. Ma Dardi 1992 aduna vari esempi già seicenteschi (Nani, Magalotti) e osserva che «la nuova accezione risulta ben attestata lungo tutto il corso del XVIII secolo e verrà ufficializzzata nel linguaggio burocratico dell’età napoleonica». 81 Il primo esempio riportato dal GDLI per questa locuzione è nel secentista fiorentino Antonio Malatesti. 82 Le più antiche attestazioni della forma italianizzata mitraglia sono contemporanee (1747, Scipione Maffei) e riguardano il medesimo nesso «caricato a m.»; si tratta di un termine che non manca di continuatori anche dialettali nel veneziano: cfr. Zolli 1971, pp. 192-93. 83 L’espressione compare anche nei Mémoires: «l’honnête homme double sa mise, il gagne, il fait paroli; ce paroli décidoit de la banque, je ne pouvois pas refuser de le tenir» (pp. 97-98), cfr. TLFi s.v. 84 Si tratta a sua volta di una variante popolare di squinanzia, dal latino tardo cynanche (gr. kynanche). Il GDLI s.v. scaranzìa riporta esempi a partire dal Quattrocento (Tommaso di Silvestro). Carlo Gozzi impiega la forma scheranzìa; il dizionario veneziano del Boerio 1821 riporta s.v. scaranzìa le varianti scharanzia, schinanzia, squinanzia (sulla quale cfr. anche Serianni 2005, p. 160), scremenzia, sprimanzia. 85 Folena 1993, p. 103, registra l’espressione in veneziano («metter el caro avanti i bò») nella commedia Le donne de casa soa (I.6.7) 86 Gli esempi più antichi riportati dal GDLI s.v. lunario, 4, sono prevalentemente veneti: Carlo de’ Dottori, Apostolo Zeno e il Goldoni (La bottega del caffè); non manca, tuttavia, un’occorrenza nell’aretino Federigo Nomi (1633-1705). Il Boerio riporta l’espressione s.v. lunario e, teste Folena 1993, p. 323, lo stesso Goldoni impiega la locuzione in commedie veneziane come le Donne curiose (I.3.10) e le Donne de casa soa (II.7.23). 79 80 184 chiamato il corrispondente straniero: «faire des Almanachs, soit en Italien, soit en François, c’est s’occuper à des imaginations inutiles», p. 111 87; un probabile settentrionalismo è anche la locuzione «diede da colazione» (p. 821: il tipo «dar da pranzo», «dar da cena», sono ben attestati nelle commedie goldoniane 88). Altra cosa è, evidentemente, l’inserzione di battute in veneziano nel dialogo (quasi una scena di commedia) con l’avvocato Vecchia, narrato nella prefazione al tomo X: «La terza parte la metteva da banda per aver un pero da cavarme la sé co son vecchio; e rivoltosi verso l’amico, che dato aveagli un sontuoso pranzo: Compare, gli disse, per Dio, se farè cusì, co sarè vecchio, no gh’ avarè un pero da cavarve la sé». Un dialettalismo notevole perché non veneto ma probabilmente lombardo-emiliano è anche il termine miulsini (p. 863), con cui Goldoni designa una prelibatezza consumata durante un pasto milanese assieme a «polpettine ... gamberi ed il vino bianco». La forma è trasformata in miulfini nell’edizione di Ortolani, con evidente scambio della s lunga presente nella Pasquali con f, errore comunissimo. Si tratta probabilmente del corrispondente dei molesini veneti, sorta di insalata affine alla valeriana: il tipo mulsin dal latino mollicinus (ma in significati diversi da quello proprio appunto dei dialetti veneti) è attestato nelle varietà emiliane, ed è riflesso anche nella forma lombarda (milanese) moresin 89. Probabile che Goldoni avesse in mente una forma udita durante il soggiorno modenese o quello pavese, la cui narrazione nelle «memorie italiane» serba un debole vestigio della varietà locale nella frase «la non si scaldi» (p. 815) pronunciata dallo «spenditore» del Collegio Ghislieri. Concludendo. Più ancora, forse, che con la prosa teatrale, le «memorie italiane» potrebbero offrirsi a un confronto con la scrittura epistolare goldoniana (confronto che l’auspicabile uscita del carteggio nell’edizione nazionale in fieri potrà rendere più sicuro e più sistematico). Le lettere del commediografo furono giudicate dal loro editore novecentesco, Filippo 87 L’espressione è citata a proposito della composizione dell’Esperienza del passato fatta astrologa del futuro; il Goldoni aggiunge infatti: «mais pour cette fois-ci, c’est différent. Je fis vraiment un Almanach qui fut imprimé, qui fut goûté, et qui fut applaudi». 88 Prevalentemente settentrionali sono, nella LIZ, gli esempi delle sequenze «dar(e) da colazione / pranzo / cena»: Straparola, Ramusio, Garzoni, Baretti e, spesso, il Goldoni delle commedie. 89 Cfr. Boerio 1856 s.v. Galinele: «Galinèle, s.f. o Molesini, Gallinelle o Valerianelle»; per l’emiliano molsein cfr. Malerba 1977, p. 58; illuminante l’osservazione di Marri 1978, p.170 nella relativa recensione: «mulséin non è il latino mulsus, ma un mollicinus, donde i milanesi moresìn, morisnà, I radicchi veneti detti “molesini” e chissà quant’altro». 185 Zampieri, «frettolose e disadorne», ma non prive di esempi apprezzabili «per l’immediatezza delle impressioni e dei giudizi, non sempre conservata nei Mémoires, e per una dimessa qualità di confidente colloquio» 90, che caratterizzerebbe in particolare quelle scritte dalla Francia all’amico Gabriele Cornet e all’Albergati Capacelli. Si tratterebbe, insomma, del “rovescio” – privato e simultaneo – della scrittura autobiografica, che tuttavia si presenta molto diverso da quella, soprattutto sul versante italiano. Nelle missive in toscano, la rapidità e la spontaneità dello scrivente si riflettono in un andamento sintattico complessivo più simile a quello adottato (per forza d’impaccio linguistico) nei Mémoires che a quello complesso e a tratti magniloquente delle «memorie italiane». Quasi solo le lettere scritte con intenti encomiastici, o quelle rivolte a dedicatari delle commedie, risentono di una impostazione retoricamente complessa e manifestano una maggiore complessità sintattica. Per il resto, la paratassi domina presso che incontrastata, e l’accostamento «in presa diretta» di immagini, sensazioni e commenti dà luogo, nelle missive dalla Francia, a un trapasso continuo fra italiano e francese che, per la verità, non era inconsueto all’epoca in testi di simile tenore: La sera da Zanuzzi vi fu un gran soupè, ma lo sapete, je ne soupe pas. Insomma fino al giorno presente non ho ancora pranzato a casa, cioè alla casa che ho preso dans la rue Comtesse d’Artois, vis à vis à la rue Mauconseil. L’appartamento è assai buono, al primo piano, consistente in tre buone stanze ed un gabinetto, e pago di pigione 64 franchi al mese 91. Finalmente ho ottenuto a Parigi tutto quel piacere, e tutto quell’onore che io poteva desiderare. Voilà ma seconde année commencée on ne peut pas mieux. Oggi otto ho dato al pubblico una mia commedia intitolata Les amours d’Arlequin et de Camille. Questa ha avuto un incontro sì universale e sì pieno, che ora posso dire che la mia reputazione è stabilita a Parigi 92. A Versaglies ho avuto un bello e comodo appartamento in Corte, c’est à dire dans le château même, attenant à la Galerie des Princes, con bella veduta sopra la grande 90 Così il curatore di Goldoni 1954, p. 197. Lettera del 6 settembre 1762 a Gabriele Cornet, in Goldoni 1956, p. 260. Si avverta che nella sua edizione dello stesso testo, Filippo Zampieri legge «Zanussi» in luogo di «Zanuzzi» (Goldoni 1954, p. 202: si tratta di Francesco Antonio Zanussi, primo amoroso della Comédie Italienne di Parigi): non mi è stato possibile verificare la lezione sull’originale. 92 Lettera del 3 ottobre 1763 al marchese Albergati Capacelli, in Goldoni 1956, p. 297. 91 186 Rue de la Sourintendence, di quattro camere, una cucina, ed un bel gabinetto, e tutto bene mobiliato con letti ottimi 93. Tra simili testi, stesi rapidamente e caratterizzati da una testualità elementare e poco organizzata, e gli scritti autobiografici in italiano vi è dunque una notevole differenza di impianto stilistico. Tanto quello appare semplice e quasi trascurato, quanto questi rivelano un’elaborazione che, pur contraddetta dalle dichiarazioni di «naturalezza» dell’autore, costituisce la peculiarità e insieme il limite delle «memorie italiane». 4. I Mémoires. Carlo Goldoni inizia a stendere i Mémoires alla fine del 1783, cioè all’età di settantasei anni, e li pubblica quattro anni dopo in tre tomi, con dedica al Re. La tripartizione dell’opera corrisponde chiaramente ad altrettante stagioni culturali e artistiche nello sviluppo del teatro goldoniano: periodo anteriore alla riforma (1707-1748: primo tomo, 56 capitoli), periodo della riforma (1748-1762: secondo tomo, 46 capitoli), periodo parigino (1762-1786, 40 capitoli). Come il numero di capitoli di ciascuna parte, la materia testuale complessiva è distribuita nei tre tomi con una leggera disomogeneità: la mole dei volumi diminuisce progressivamente, seppur lievemente, dal primo al terzo. I primi quarantasei capitoli della parte iniziale coincidono, come si è accennato, con il contenuto delle «memorie italiane»: l’esercizio di autotraduzione che porta dall’uno all’altro testo è stato descritto da Gianfranco Folena come un abile «rifacimento», che non limitandosi alla pura e semplice ripresa delle prefazioni Pasquali, ne ravviva almeno a tratti il dettato con una libera rivisitazione, soprattutto stilistica, da cui traggono giovamento alcune ampie descrizioni. Resta immutata, in questa prima parte, la tendenza ad una narrazione fluida e non intermessa da troppi scarti digressivi, né da materiale estraneo al puro racconto biografico: l’inserimento di «estratti» delle commedie, ossia di ampî excursus contenenti il riassunto spesso piuttosto dettagliato delle opere teatrali, affiora dalla fine della prima parte, con la presentazione della Donna di garbo. L’uso proseguirà poi intensivamente nella seconda e nella terza parte, nelle quali la presenza di abrégés è a tal punto fre93 Lettera del 13 maggio 1765 a Gabriele Cornet, in Goldoni 1956, p. 342. 187 quente da essere scandita da formule d’introduzione fisse o appena variate («Voici un abrégé de la fable», p. 425, «Voici un abrégé de l’intérêt principal de cette Comédie» p. 292; «Dans l’abrégé que je viens de donner de cette Piece» p. 253, «L’abrégé que je viens de donner, ne renferme que l’action principale de la Piece», p. 270). Nel caso della Trilogia della Villeggiatura, il sunto (anzi l’«analyse») del contenuto delle commedie giunge ad occupare per intero tre capitoli, l’ultimo dei quali (il XXIX) è costituito quasi per intero dalla traduzione di un lungo dialogo fra i personaggi di Bernardino e Fulgenzio, dal Ritorno dalla villeggiatura («Je vais traduire en entier cette scene qui me faisoit dépiter moi-même pendant que je la composois», p. 368). Così, all’inizio del seguente capitolo XXXV, l’autore sente il bisogno di giustificare lo stillicidio di riassunti con l’impegno di render conto della «totalité des ouvrages» per contrastare la circolazione, nelle varie edizioni delle sue commedie, di testi apocrifi. La tendenza a una certa formularità non si limita, del resto, a questi moduli e coinvolge la totalità del testo dei Mémoires: Franco Fido ha osservato che alcuni stilemi caratteristici già delle «memorie italiane» (ad esempio la formula di passaggio «eccomi...», impiegata per sottolineare la «“teatralità” del libro»), si ripresentano ancora nei Mémoires («me voilà...»). Vi è, certo, un che di stancamente monotono in questo «modo piuttosto meccanico per risolvere il problema espressivo»: eppure, non ostante l’«atteggiamento stilistico coerente e tutt’altro che superficiale» che lo stesso Fido rileva nel confrontare la strategia compositiva di «memorie italiane» e Mémoires, questi ultimi accentuano decisamente gli automatismi e la tendenza alla ripetitività, assieme a una maggior propensione ad un taglio narrativo franto e aneddotico. Se, dunque, l’espediente dell’autotraduzione, ossia dell’adattamento, tipico della prima parte, dissimula questa tendenza, essa emerge pienamente nella parte dei Mémoires non “coperta” dal precedente esperimento autobiografico: in quella, cioè, che si suppone sia stata scritta in francese. Nel capitolo XVI della terza parte, Goldoni riferisce di un dialogo avuto, poco dopo la composizione del Bourru bienfaisant, con JeanJacques Rousseau, cioè con l’autore all’ombra delle cui Confessions nascono di fatto gli stessi Mémoires (senza nemmeno dissimulare del tutto l’implicito legame con quelle), pur incamminandosi lungo un «percorso esemplarmente opposto» (così Fido) dal punto di vista della funzione e dell’orientamento generale dell’opera 94. Il dialogo riguarda la commedia scritta 94 188 «Il parut, il y a trois ans, un livre intitulé les Confessions de J.J. Rousseau, Citoyen de Ge- da Goldoni direttamente in francese, ma è difficile non scorgervi, in filigrana, una riflessione sull’analoga scelta compiuta per l’autobiografia. L’uso di una lingua straniera per le proprie memorie senili non va interpretata come il semplice riflesso di un atteggiamento (psicologico e culturale) analogo a quello di tanti altri e più mediocri intellettuali italiani del tempo. Goldoni non è certo alieno dalla fascinazione della lingua egemone della cultura europea contemporanea, come è facile constatare in tanti passi dell’opera e, più ancora, in varie lettere del periodo parigino, e soprattutto dei mesi iniziali di permanenza, cioè prima della crisi dell’estate 1763 95. Tuttavia, a indurre Goldoni alla scelta del francese (lingua praticata, almeno nella sua varietà orale, fin dagli anni della giovinezza, con un’assiduità consueta per l’epoca) sembra la volontà di rivolgersi in primo luogo al proprio pubblico presente, con un pragmatismo ben illustrato da Gianfranco Folena, e del resto apertamente professato dallo stesso autore già all’altezza della prefazione Bettinelli. In quel testo, egli giustificava il ricorso nelle commedie alle «frasi, e voci lombarde» con l’esigenza di raggiungere direttamente, e senza intralci o mediazioni letterarie, il pubblico settentrionale – né solo quello istruito. È significativo che la stessa espressione («surmonter les difficultés») che in un passo già ricordato dei Ménéve: ce sont des anecdotes de sa vie écrites par lui-même. Il ne se ménage pas dans cet ouvrage; il y avance même des singularités sur son compte, qui pourroient lui faire du tort si sa célébrité ne le mettoit au dessus de la critique. Mais j’en connois une qui lui arriva dans les dernières années de sa vie, qui ne se trouve pas dans ses Confessions; l’Auteur l’a peut-être oubliée, ou n’a pas eu le tems de la placer avec les autres, puisque son livre est posthume. Cette anecdote ne me regarde pas particulièrement, mais j’en fais mention, parce que ce fut la cause qui m’empêcha de communiquer à M. Rousseau mon Bourru Bienfaisant» (p. 511). Cfr. in proposito Fido 1984, p. 122. 95 Cfr. Goldoni 1956, p. 259: «Non parlerò della città di Parigi a Voi che la conoscete, vi dirò solo che ogni dì più mi soprende, e che sorpassa la prevenzione e la immagine che in me mi aveva formata» (a Gabriele Cornet, 6 settembre 1762); ibid., p. 263: «a Parigi non si conosce la guerra. Tutto è allegria, tutto è magnificenza. I commedianti italiani, che sono venti a parte, l’anno passato hanno guadagnato quindicimila franchi per uno» (a Gabriele Cornet, 27 settembre 1762); ibid., p. 269: «Parigi è un bel paese per chi ama il bel mondo. I passeggi son bellissimi e deliziosi. La cortesia è il carattere della nazione» (a Francesco Albergati, 25 ottobre 1762); e a proposito dell’accentramento della cultura francese a Parigi, ibid., p. 279: «Tutto il bello, tutto il buono della Francia è a Parigi. Quivi sono raccolti tutti i talenti del regno, sotto un re che li premia: ecco la bellezza che da noi manca» (ad Agostino Paradisi, 28 marzo 1763). Toni diversi domineranno le lettere parigine a partire già dall’estate del ’63: ibid., p. 287 «Io sono assai malcontento di questa sorta d’applausi, e tanto più mi determino a non prolungare a Parigi la mia dimora» (a Francesco Albergati, 13 giugno 1763); ibid., p. 295: «Alla fine di questo mese termina il mio primo anno a Parigi. Se il secondo non migliora, lo lascierò» (a Francesco Albergati, 15 agosto 1763). 189 moires giustifica il ricorso alla lingua straniera per il Bourru, venga impiegata – con esplicito rimando al «terzo volume delle mie memorie» – nell’autotraduzione Il burbero di buon cuore per illustrare ai lettori italiani lo spirito con cui l’autore si accinge al passaggio dal francese all’italiano: «una circostanza singolare mi ha animato a sormontare tutte le difficoltà» 96. Frase che riassume epigrammaticamente il modus operandi del Goldoni memorialista. Se Goldoni non si sofferma nei Mémoires sulla giustificazione della propria scelta linguistica con la stessa esplicitezza cui ricorreva, in quegli stessi anni, Giacomo Casanova nell’introdurre il lettore alla Histoire de ma vie, è perché per il commediografo non c’è differenza, da questo punto di vista, fra testo teatrale e testo autobiografico, cioè narrativo. L’esigenza comunicativa prevale su qualsiasi altra considerazione, e a fortiori sull’eventuale ossequio alla correttezza e alla cura di una lingua della quale egli pare servirsi, per usare un’immagine di Folena, come di una «comoda veste da camera»: insomma, senza troppe preoccupazioni formali. Sebbene Goldoni non espliciti mai un simile atteggiamento nei confronti del francese, ostentando al contrario deferenza e industre attitudine all’apprendimento della lingua straniera, la sua avversione al duro tirocinio grammaticale si rivela nei suoi stessi metodi didattici per l’italiano: il precettore alla reggia di Versailles non fa «apprendre que les verbes auxiliaires de la Grammaire Italienne» all’allievo principe di Piemonte, preferendo la lettura diretta dei testi e l’inserzione di «remarques» e di «courtes digressions» alla «longue et ennuyeuse kyrielle des règles et des difficultés scholastiques» (p. 543). I giudizi dei critici francesi sulla lingua e sullo stile dei Mémoires oscillano fra l’ammirata condiscendenza di alcuni contemporanei (ai primi dell’Ottocento, Charles Palissot riteneva che l’autobiografia goldoniana in francese fosse scritta «du même style dont la Fontaine eût écrit la sienne» 97) e la risoluta condanna di lettori tardo-ottocenteschi («ils sont écrits d’une plume languissante et pleine de solécismes», secondo Charles Rabany 98), fino all’equanime bilancio di uno degli interpreti più recenti, Hélène Colombani Giaufret, che pur rigettando i giudizi più duri, ha rilevato le 96 Cfr. Goldoni 2003, p. 257. Poche righe sopra, Goldoni aveva scritto: «Dopo tutto quello, ch’io ho detto nel terzo volume delle mie memorie, il Pubblico non doveva aspettarsi da me la traduzione in lingua italiana del mio Bourru bienfaisant». 97 Cfr. Palissot 1803 cit. da Colombani Giaufret 1993, p. 339. 98 Cfr. Rabany 1896 cit. ibid. 190 innegabili incertezze compositive di uno scrittore la cui eterogeneità stilistica («on voit ... cohabiter des formes viellies, voire archaïques, avec des formes populaires») va certo collegata anche con le circostanze della composizione dell’opera. Per la scrittura dei Mémoires, Goldoni si fa aiutare da uno scrivano professionista, un tale monsieur Rinaldi, «maître de Langue Italienne trèsaccredité»: non solo è singolare il fatto che si tratti appunto di un italiano, e di un insegnante di lingua italiana, ma non è chiaro nemmeno se Goldoni si riferisca a una dettatura dell’opera, o – come è più probabile, trattandosi di un personaggio che solo occasionalmente frequentava l’autore 99 – ad una sua trascrizione. Se dunque le vistose anomalie presenti fin nella veste grafica e fonomorfologica del testo possono giovarsi del confronto con l’usus accertabile nelle lettere che si sono conservate autografe, persino nella sintassi e nell’organizzazione del testo si può pensare che la mano di Goldoni possa essere stata guidata da altri, per effetto dell’«olimpica indifferenza» (così Folena) che il commediografo non si peritava di proclamare quando parlava di fatti più minuti («Vi prego circa all’ortografia – scrive in una lettera del 1750 al Bettinelli – fate che il correttore supplisca» 100). Tale affettata indifferenza consuona con l’analogo atteggiamento ostentato dai riformatori lombardi (i quali non mancavano, come capitò a Pietro Verri in uno scritto privato e familiare segnalato da Gabriella Cartago, di corredare tale nonchalance con espliciti richiami a un’educazione linguistica del tutto aliena da scrupoli ortografici 101). Il risultato è comunque, nel Goldoni francese, un testo che ancora Franco Fido ha sinteticamente caratterizzato nei suoi tratti distintivi: «deittici in apertura di periodo, paratassi, asindeto, riescono a un costante effetto di “montaggio secco”» 102. Difficile stabilire se tale effetto sia, come par supporre Fido, il frutto di una strategia stilistica mirante ad essenzialità («lasciare alle immagini tutta la loro carica referenziale») e imparzialità («allontanare dagli spettatori ogni sospetto di soggettività»), o piuttosto l’unico risultato possibile per un autore non disposto ad alcun particolare lavorìo sulla 99 «Madame Rinaldi est aussi une de nos compatriotes qui viennent quelquefois nous voir; et M. Rinaldi a bien voulu, par amitié, être le copiste de mon Ouvrage; c’est un Maître de Langue Italienne très-accrédité: il y en a plusieurs dans cette Ville, je les crois tous excellens, mais celui-ci est mon ami, je l’estime beaucoup, et tous ceux à qui je l’ai proposé m’en ont remercié»: Goldoni 1935, p. 598. 100 Cfr. Goldoni 1956, p. 436. Il passo è richiamato anche da Folena 1983, p. 362. 101 Cfr. Cartago 2000, p. 91. 102 Cfr. Fido 1984, p. 120. 191 forma. Il francese dell’autobiografia goldoniana è pur sempre l’impasto linguistico «cordiale ma approssimativo» di cui ha parlato Folena, che lo giudicava «appena scalfito dall’italianismo nella specie grammaticale e lessicale» e sottolineava il rapporto tra la scrittura dei Mémoires e la «prevalenza della forma orale della lingua su quella scritta» 103. Esso è, insomma, l’inevitabile portato del processo di semplificazione, ibridazione e, al limite, corruzione, a cui va incontro naturalmente qualsiasi lingua sottoposta ad un’intensiva internazionalizzazione. Più che al confronto con l’italiano o il veneziano dello stesso autore, essa si presterebbe a un parallelo con il suo uso da parte dei molti altri intellettuali dell’epoca che se ne servono come lingua comune della repubblica delle lettere. Un passo dei Mémoires in cui non si parla di lingua, ma in genere della cultura e del costume francesi, si presta ad illustrare il rapporto di utenza, passiva ma al tempo stesso deformante, che Goldoni intrattiene con la lingua straniera. Descrivendo l’influsso della moda d’Oltralpe sulla società veneziana, il commediografo accenna al manichino abbigliato («La Poupée de France») che si trovava nella centrale e frequentata «rue de la Mercerie», cioè nelle Mercerie di San Marco: «c’est le Prototype auquel les femmes doivent se conformer, et toute extravagance est belle d’après cet original» (p. 593). Se dunque i Francesi sono il popolo che «on cherche partout à imiter», la lingua inseguita dai Mémoires appare simile a quella Poupée. Se pure dotato di una sensibilità metalinguistica indubbiamente superiore alla maggior parte dei suoi contemporanei, nella sua autobiografia Goldoni adibisce il francese ad un uso disinvolto e a nessuna particolare elaborazione: una lingua prêt-à-porter, si direbbe con un internazionalismo francese di due secoli più recente 104. 5. Italiano e dialetti nei Mémoires. Nel prologo «apologetico» alla Vedova scaltra, scritto in risposta alla composizione della chiariana Scuola delle vedove e ruotante attorno a quella che si potrebbe chiamare questione della lingua teatrale, Goldoni afferma orgogliosamente il prestigio dell’italiano «in tutte le più polite corti di Europa» e la sua diffusione presso «tutte quasi le persone di conto» 105. La 103 104 105 192 Cfr. Folena 1952, p. 364. Il nesso risale, teste il TLFi, al 1951. Cfr. Goldoni 2004, p. 126. rivendicazione si collega, in quel testo, alla disputa sulla scelta delle lingue nella finzione scenica, ma non manca di riflettersi ancora nei Mémoires: l’opera che sancisce l’adeguamento dell’autore al principio enunciato in quello stesso prologo («parlar il linguaggio della nazione, tra la quale un si trova, quando adeguatamente favellar quello si sappia») documenta in varie circostanze la diffusione dell’italiano che lo stesso Goldoni cercò di favorire in seno alla cultura francese. In un paese nel quale, come egli stesso ricorda, «notre littérature Italienne est très-goûtée. .., nos livres y sont bien reçus et bien payés, les Bibliothèques de Paris en sont garnies», e l’italiano «est an vogue. .. plus que jamais», il commediografo sceglie il francese per raccontare la storia del proprio mondo e del proprio teatro, ma non rinuncia a fare dell’autobiografia un vademecum nella frastagliata cultura linguistica del suo paese d’origine. L’insegnante di italiano di varie dame della corte di Versaglia (sulla cui autorevolezza didattico-linguistica Carlo Gozzi ironizzava velenosamente nel suo Ragionamento ingenuo 106) dissemina la sua autobiografia di notizie sull’italiano e sui suoi dialetti, facilitando così la diffusione e la comprensione delle opere del teatro italiano, e del proprio in particolare. In un solo caso tale riflessione assume la forma di un’autodifesa incentrata sul rispetto dell’intransigenza puristica e del tentativo di squalificare culturalmente l’italiano delle sue commedie: nel capitolo XXXII della seconda parte la tragicommedia Torquato Tasso (1755) è presentata come una trasparente metafora della persecuzione ideologica subita dagli «adversaires» in campo linguistico, ossia dai puristi. Accostando tale censura alle critiche subìte dal Tasso da parte dei Cruscanti, Goldoni da un lato punta a rappresentare il suo alter ego letterario come un perseguitato per ragioni di lingua, a torto piegatosi alle ragioni dei suoi avversari («le Tasse eut tort de réformer son Poëme pour plaire aux Académiciens de la Crusca: sa Jérusalem délivrée est lue de tout le monde, et personne ne lit sa Jérusalem conquise»). D’altra parte, egli torna a stemperare, con un atteggiamento tipico dei Mémoires, la polemica con gli avversari veneziani: se tra i suoi oppositori non vanno annoverati i «Granelloni», ossia l’accademia dei 106 Cfr. Gozzi 1962, p. 1079: «Disse [il Goldoni] ch’era pregato ad andare a Parigi, per regolare e riformare il teatro italiano ch’esiste in quella gran metropoli. Si sa che in questa sua intrapresa non ebbe alcuna felicità, e si sa ch’egli ebbe l’onore di essere destinato per maestro di lingua italiana nella corte reale di Parigi per una principessa. Se un tal onore, ch’è desiderabile da ogn’italiano, provi che le commedie, ch’egli scrisse in italiano, sieno perfette, lo lascio giudicare a chi ha senno». 193 Granelleschi, ch’egli esclude esplicitamente dalla schiera dei «rigoristes» schierati contro di lui, la consistenza stessa delle critiche mossegli sfuma in una impersonale genericità, rendendo viepiù apprezzabile la concretezza delle sue contromisure culturali. Prima fra tutte, la “risciacquatura in Arno”, cioè il viaggio in Toscana che egli dichiara di aver intrapreso proprio «pour me rendre cette langue familière» e per intraprendere a Firenze l’edizione a stampa delle sue opere «sous les yeux et sous la censure des savans du pays, pour les purger des défauts de langage» (p. 383). Sforzi inutili agli occhi dei «rigoristes», il cui giudizio non viene in alcun modo mitigato dal tentativo di purgare linguisticamente i testi della Paperini. Come sappiamo grazie soprattutto a Pietro Spezzani, la revisione linguistica di Goldoni su quell’edizione (ma anche su tutte le altre successive stampe delle sue commedie) si rivolge appunto «verso una maggiore correttezza grammaticale, o verso una lingua più precisa, qualche volta marcata in senso decisamente toscaneggiante», evitando però l’oltranza innaturale (anche in questo aspetto si misura la distanza di Goldoni dal manzonismo, al quale è fin troppo facile accostare l’atteggiamento di apertura verso il toscano “vivo” contemporaneo). Con le parole dello stesso Spezzani, «il Goldoni è portato non solo a eliminare la eccessiva crudezza di alcune impronte troppo marcatamente dialettali del testo teatrale, che investono tutte le articolazioni strutturali del veneziano, da quelle fonologiche e morfologiche a quelle sintattiche, lessicali e fraseologiche, ma anche, qualche volta, forme troppo lontane da una sua ideale concezione di lingua media» 107. Tornando al Tasso, l’aperta critica al purismo cruscante sottolineata nei Mémoires attraverso l’evocazione di quell’opera si risolve di fatto, grazie ai caratteri di quello stesso testo, in una esaltazione delle potenzialità dei dialetti sulla scena, cioè delle lingue vive (tra le quali appunto il toscano parlato a Firenze «dalle balie e dalle fantesche») in contrapposizione alla lingua morta parlata, in quell’opera, dal cavaliere del Fiocco: «j’introduisis dans ma Pièce un Vénitien et un Napolitain, qui parlent l’un et l’autre le langage de leurs pays», col risultato che «la douceur du patois Vénitien et la prononciation lourde et véhémente du Napolitain font un contraste singulier et divertissant» (p. 385). Dove la disputa non si gioca, appunto, tra dialetti e italiano, ma tra vivacità di patois (tra i quali, come vedremo tra breve, il toscano gioca al massimo un ruolo di primus inter pares) e l’«absurdité» dell’affettazione cruscante. 107 194 Cfr. Spezzani 1991, p. 358. Ai dialetti sono effettivamente dedicate, nei Mémoires, attenzioni e riflessioni ben più ampie: a suscitarle non è solo la menzione di opere nelle quali essi siano adibiti ad un uso letterario, bensì anche una curiosità culturale apparentemente disinteressata, ma quasi sempre collegabile al rapporto che l’autore intende istaurare con il proprio pubblico. In tal senso va letto, probabilmente, l’excursus, ampio anche se certamente ingenuo nell’impostazione del problema storico-linguistico, riguardante il dialetto friulano, nella parte I. Pur risentendo dell’andamento ancora incerto ed apertamente didascalico che domina la sezione iniziale dell’opera, la digressione trova la sua ragion d’essere nel fantasioso accostamento del friulano al francese, cioè alla lingua del “pubblico” dei Mémoires. Goldoni si sofferma dunque sulla natura «particulier» del «langage fourlan», sulle sue somiglianze morfologiche con il francese («tous les mots féminins, qui en italien finissent par un a, se terminent en Frioul par un e, et tous les pluriels des deux genres sont terminés par un s»), sulle possibili spiegazioni di questo fenomeno («il est vrai que Jules César traversa les montagnes du Frioul: aussi les appelle-t-on les Alpes-Jules; mais les Romains ne terminaient leurs mots féminins ni à la française, ni à la fourlane») e sulle singolarità del suo lessico («Ce qu’il y a de plus singulier dans le patois fourlan, c’est qu’ils appellent la nuit, soir, et le soir, nuit»). Si tratta, per certi versi, di un esperimento simile a quello che Goldoni aveva tentato in una celebre lettera in dialetto veneziano indirizzata nel 1779 al Cousin, e tutta costruita sui punti di contatto tra le due varietà (l’episodio è ricordato negli stessi Mémoires, p. 540) 108. A quel che si potrebbe chiamare turismo linguistico dei Mémoires va ricondotto anche l’accenno al dialetto genovese (cioè alla parlata della moglie di Goldoni, Nicoletta Connio: forse il dialetto italiano più familiare al commediografo dopo quello della sua patria) nel capitolo XXIII della terza parte: ponendolo su un ideale podio dell’amusement assieme a veneziano e toscano («Après le dialecte Toscan et le Vénitien, c’est le Génois qui m’amuse plus que les autres»), egli ne riferisce l’indole ai lettori stranieri servendosi di una sorta di barzelletta familiare: «Dieu (disent les Italiens) avoit assigné à chaque nation son langage; il avoit oublié les Génois; ils en composerent un à leur fantaisie, qui sent encore la confusion des langues de la Tour de Babel» (p. 538). Più frequenti i passi nei quali l’autore dei Mémoires si sofferma sul ve108 Cfr. Goldoni 1956, pp. 381-82: su questo testo si sofferma Folena 1983, p. 384. 195 neziano, proponendone (ciò che non aveva fatto nelle precedenti opere autobiografiche) una sorta di caratterizzazione psicologica, di gusto squisitamente settecentesco. L’ésprit linguistique del veneziano è, secondo il commediografo, coerente con il fondo del carattere della nazione: se quest’ultimo è improntato a gaîté, il dialetto sarà caratterizzato dalla plaisanterie, e i suoi tratti distintivi gli conferiranno anche nell’intonazione, nel lessico e nella stessa struttura sintattica il primato che esso detiene sul piano culturale. Se concetti come gaîté e plaisanterie si legavano già al dialetto veneziano nel comune sentire della cultura europea del tempo (qualcosa di simile aveva già accennato, a metà del secolo, Rousseau nel Dictionnaire de musique, discorrendo della Barcarole veneziana 109, Goldoni punta qui a trasformare il generico topos della piacevolezza in una complessiva promozione estetica e culturale. Nell’accenno alla capacità del suo dialetto di «traiter en grand les matières les plus graves et les plus intéressantes» riecheggia un tema caratteristico della cultura veneziana del Settecento: della completezza e perfetta versatilità del veneziano era convinto, ad esempio, il doge-letterato Marco Foscarini, che nella sua Letteratura veneziana aveva puntato a dimostrare un primato culturale e linguistico al tempo stesso 110. Per Foscarini come per Goldoni tale supremazìa si manifesta nel modo più chiaro nel «veneto stil» dell’avvocatura veneta, cioè in quello «style nerveux et brillant de mes compatriotes» che poco oltre il brano appena citato dei Mémoires viene richiamato a proposito della commedia l’Avvocato veneziano. Pur essendo stata tradotta anche in francese, quella commedia come tutte le altre composte nel dialetto della sua città è, a giudizio dell’autore, perfettamente comprensibile anche all’estero, in virtù di quell’«ottimismo pentecostale» di cui, a proposito del commediografo, parlò Gianfranco Folena: la fiducia, cioè, nella reciproca comprensibilità delle tre lingue da lui conosciute, il veneziano, l’italiano e il francese 111, tale che «pour peu que l’on connoisse la langue Italienne, on n’aura pas beaucoup de peine à lire et à comprendre le Vénitien comme le Toscan» (p. 257), dove si noterà l’accostamento au pair fra il dialetto della città na109 Cfr. Rousseau 1793, p. 96: «Les paroles de ces chansons sont communément plus que naturelles, comme les conversations de ceux qui les chantent; mais ceux à qui les peintures fidelles des moeurs du peuple peuvent plaire, et qui aiment d’ailleurs le dialecte vénitien, s’en passionent facilement, séduits par la beauté des airs». 110 Cfr. Foscarini 1854, p. 568-69. 111 Cfr. Folena 1983, p. 361. 196 tìa e la varietà italiana di riferimento, che in due occasioni, nei Mémoires, è chiamato appunto dialecte (qui e a p. 538). La reversibilità reciproca dei tre codici linguistici (sia pure nella forma lasca della “trasposizione” o della “equivalenza testuale” 112) viene paradossalmente ribadita anche quando il Bourru bienfaisant è presentato come opera «pensata» in francese e non meccanicamente trasposta a partire dall’italiano («Je n’ai pas seulement composé ma Pièce en François, mais je pensois à la manière Françoise quand je l’ai imaginée», p. 508). La stessa perfetta traducibilità, anzi, è esplicitamente messa in dubbio solo in un caso, ma in forma di occupatio delle obiezioni di Antoine-AlexandreHenri Poinsinet, traduttore ed editore delle sue commedie italiane, il quale, rassicurando il commediografo («soyez tranquille: j’ai un domestique qui a parcouru l’Italie, il les connoît tous» [les patois]) finisce per svolgere la funzione di un teste convocato ad arte per confermare la disinvolta facilità con cui anche la moltitudine dei dialetti italiani poteva acclimarsi nelle traduzioni teatrali francesi – a patto, appunto, di non considerare le traduzioni come pure e semplici versioni letterali. «Cette proposition me choqua infiniment» (p. 422), osserva in effetti Goldoni, a cui in questo caso è difficile credere, proprio alla luce della sua lunga esperienza di autotraduttore, anche dal dialetto e in dialetto, né solo da quello veneziano. Negli stessi Mémoires, del resto, non mancano sconsolate considerazioni sull’insidiosa somiglianza tra il lessico italiano e quello francese («il y a des termes François et des termes Italiens qui se ressemblent, et don’t l’acception est tout-à-fait différente», p. 470). Un gran numero di altre sparse annotazioni, in genere legate al riassunto del contenuto di commedie italiane, è dedicato nei Mémoires a singoli termini dialettali veneziani: Goldoni prende spunto in genere dai titoli più caratteristici delle sue opere per brevi digressioni insieme linguistiche e culturali, come accade per l’illustrazione del Momolo Cortesano [sic], già anticipata nelle «memorie italiane» («Momolo en Vénitien est le diminutif de Girolamo (Jérôme). Mais il n’est pas possible de rendre l’adjectif Cortesan par un adjectif françois. Ce terme Cortesan n’est pas une corruption du mot courtisan; mais il dérive plutôt de courtoisie et courtois»); o per il termine paroncin, che già nelle «memorie italiane», come si è detto, veniva accostato al petit maître francese (quel passo trova in effetti perfetta corri112 Così Colombani Giaufret 1993, p. 346: «Contre la traduction littérale, Goldoni plaide en faveur de la transposition, de la recherche de ce que nos traductologues appellent équivalences textuelles». 197 spondenza nei Mémoires 113); o per i Morbinosi e il morbin, termini di cui Goldoni fornisce una spiegazione perfettamente adeguata al pubblico francese («On pourroit dire i morbinosi, en François, gens de bonne humeur, partisans de la joie», e aggiunge, per morbin: «le mot morbin, en langage Vénitien, signifie gaieté, amusement, partie de plaisir». p. 395 114); o ancora per il titolo delle Donne de casa soa, per cui la traduzione è duplice: in «bon toscan» (Le donne casalinghe) e in francese (Les bonnes Ménageres). Pur non trattandosi di un termine dialettale, anche il titolo della Locandiera è oggetto di una digressione incentrata sulla ricerca di adeguati corrispondenti francesi ai termini italiani 115. E sempre in tema di titoli, nel caso della Sposa sagace si tratta al tempo stesso di tradurre un termine italiano («en Italien, ne veut pas toujours dire une femme mariée») e di illustrare il suo significato nell’uso locale di Venezia («une fille promise en mariage, que l’on dit, en France, la prétendue ou la future, s’appelle l’épouse à Venise», p. 412). In un caso, poi, la menzione di un termine italiano del «jargon de Comédien», il sostantivo arrostita, dà luogo ad una traduzione pluridialettale e plurilingue («Cela veut dire, dit-il, en bon Toscan, una corbellatura, en langue Lombarde, una minchionada, et en François, une attrappe», pp. 134-35), in cui torna l’opposizione lombardotoscano già osservata nei testi italiani. Anche se generalmente scevri di polemiche e di attacchi diretti a critici ed avversari (esemplare, come si è visto, il caso dei «Granelloni»), i Mémoires tracciano, di fatto, un consuntivo delle polemiche e dei dibattiti attraversati durante le fasi della Riforma, soffermandosi anche sui temi del rinnovamento linguistico teatrale e del complesso rapporto, nella produzione scenica goldoniana, tra veneziano, italiano e francese e scontrandosi «Ce mot Paroncin, soit pour la traduction littérale, soit pour le caractere du sujet, revient parfaitement au mot François, Petit-Maître; car Paron en dialecte Vénitien dit la même chose que Patrone en Toscan, et Maître en François; et Paroncin est le diminutif de Paron et de Patrone, comme Petit-Maître est le diminutif de Maître» (p. 231). In una lettera a Francesco Albergati del 25 ottobre 1762, Goldoni scrive: «Più non si conoscono i Petit maîtres. Chi ha denari, è signore, e chi non ne ha, par contento» (Goldoni 1956, p. 269). 114 Non si può escludere che avesse presente questi passi il Luigi Meneghello di Pomo pero (Milano, Mondadori, 2000, p. 13): «si potrebbe sostenere che il morbino (“allegria smodata, stato di eccitazione capricciosa”) non è una malattia vera e propria, ma un’alterazione dell’animo, quasi una spissa della personalità (spissa = “varietà paesana di prurito”). Si avrebbe torto». 115 «Ce mot vient de Locanda, qui signifie, en Italien, la même chose qu’hôtel garni en François. Il n’y a pas de mot propre, dans la langue Françoise, pour indiquer l’homme ou la femme qui tiennent un hôtel garni» (p. 312). 113 198 in vari casi con l’opposizione di «critiques» e di «adversaires». Così, il progetto annunciato nel prologo delle Massere e ancora nelle «memorie italiane», di un dizionario del dialetto veneziano, ritorna qui sotto una luce ormai diversa. Trattandosi di un disegno definitivamente obliterato (già nel ’77 Goldoni ne parlava in questi termini in una lettera al Cousin 116) esso non è che l’ilare spunto per un aneddoto autoironico, forse la testimonianza più suggestiva del candore e insieme dello sforzo di Goldoni nell’apprendimento del francese: J’avois projetté depuis long-temps de donner un vocabulaire du dialecte Vénitien, et j’en avois même fait part au Public qui l’attend encore; en travaillant à cet Ouvrage ennuyeux, dégoûtant, le vis que je m’endormois; je le plantai-là, et je profitai de sa faculté narcotique. Toutes les fois que je sens mon esprit agité par quelque cause morale, je prends au hasard un mot de ma langue maternelle, je le traduis en Toscan et en François; je passe en revue de la même maniere les mots qui suivent par ordre alphabétique, je suis sûr d’être endormi à la troisieme ou à la quatrieme version; mon somnifère n’a jamais manqué son coup. (p. 599) Anche la polemica sull’uso delle lingue straniere in scena e l’affermazione del principio «la lingua non fa la commedia», a suo tempo accampate nel prologo «apologetico» della Vedova scaltra, riecheggiano nella pagina dei Mémoires dedicata alla composizione di quella commedia ed alle dispute che ne seguirono. Il punto di maggiore vicinanza con il battagliero testo pubblicato nel pieno dello scontro con Chiari è forse quello riguardante l’uso di un termine insieme dialettale e gergale, panimbruo (letteralmente ‘pane-in-brodo’, appellativo che si dava a Venezia ai protestanti o in generale agli eretici 117) che ancora una volta si presta a una specifica illustrazione per il pubblico straniero e ad un parallelo con un termine fran116 Cfr. Goldoni 1956, p. 378: «Rispetto al Vocabolario veneziano ch’Ella, a ragione, vorrebbe avere, spiacemi doverle dire che malgrado la buona volontà con cui l’ho promesso, non sono stato in grado di mantenere la mia parola. Il mio viaggio in Francia mi ha troppo distratto, ed ha fatto un torto grandissimo alla mia edizione». 117 Il termine si ritrova con accezione simile – e probabile riferimento agli inglesi – nel contemporaneo Giorgio Baffo (cfr. Baffo 1991, p. 312); e ancora nell’Ottocento Giuseppe Boerio registrava per panimbruo il significato di «Bigio, Miscredente, Scredente, cioè non fedele alla Religione cristiana» (Boerio 1856 s.v. panimbrùo). L’origine e l’esatta spiegazione di quest’uso non sono facilmente ricostruibili: atteso che l’espressione «pan in bruo» si ritrova in testi veneziani cinquecenteschi alla bulesca come generica offesa (‘rammollito’, ‘mollaccione’: cfr. Da Rif 1984, p. 164, che pure dà una traduzione meno pregnante), è possibile che dall’insulto generico si sia passati (ma quando?) a un riferimento più specifico alla miscredenza o all’eresia (ma il percorso potrebbe anche essere stato l’inverso). 199 cese, Huguenot, che non era stato invece richiamato nel prologo, rivolto a un uditorio esclusivamente italiano. Per il resto, richiamando solo obliquamente polemiche e avversari (né il nome di Pietro Chiari, né quello di Carlo Gozzi – se non come uno dei frêres – occorrono mai nei Mémoires), Goldoni ricorre di preferenza ad appellativi vaghi e a riferimenti desultori. Così, nel corso di tutta l’autobiografia i detrattori del teatro goldoniano sono indicati con il termine «rigoristes»: tali sono, ad esempio, i critici della Putta onorata (i quali «trouvoient que j’avois mal choisi le Protagoniste»), o quelli che potrebbero obiettare sull’unità d’azione della Bottega del Caffè, o ancora quelli per prevenire i cui «plaintes» la Giacinta delle Avventure della villeggiatura si produce in una dichiarazione meta-teatrale nel finale (e sul finale) della commedia. Del resto, con lo stesso appellativo Goldoni si riferisce anche al generico moralismo anti-teatrale, ossia al conservatorismo, di un abate Gennari («ce bon ecclésiastique étoit un peu rigoriste», con doppia attenuazione prodotta dall’aggettivo e dalla locuzione avverbiale), e di personaggi fors’anche più autorevoli, come il Daniele Concina autore di un trattato De’ teatri antichi e moderni contrari alla professione cristiana (1755) dedicato alla – peraltro impossibile – moralizzazione delle scene 118. E «rigoristes» sono, infine, anche coloro che, non paghi della goldoniana “risciacquatura in Arno”, continuano a rimproverare al commediografo il «péché originel du Vénétianisme»: peccato di cui, a ben vedere, Goldoni non sembra davvero vergognarsi. 6. Giacomo Casanova dal Duello alla Histoire de ma vie Nella presentazione distaccata e ironica dei suoi dissidî con l’intransigenza anche linguistica degli avversari, l’autore dei Mémoires appare lontanissimo da chi, come Giacomo Casanova, trasformerà il proprio vénétianisme in un tratto stilistico orgogliosamente rivendicato. Identica la provenienza degli autori, identica la scelta della lingua straniera (o meglio, della lingua internazionale), simile per molti aspetti la condizione di esilio in cui entrambi si accingono a narrare le loro memorie. E analogo, per certi versi, anche il processo che li conduce alla redazione del grande impianto autobiografico dopo una serie di prove intermedie. La prima tappa di avvicinamento alla casanoviana Histoire de ma vie è 118 200 Vi si sofferma Vescovo 2001b, p. 93. rappresentata dal Duello, pubblicato a Venezia nel 1780 e della Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise q’on appelle les Plombs, scritta nel 1787 e uscita l’anno successivo a Praga (con falsa indicazione: Lipsia). Nonostante il sottotitolo (Saggio della vita di G. C. veneziano), che lo fa apparire come una sorta di anticipazione o primizia della successiva impresa autobiografica, il Duello – resoconto “romanzato” di una vicenda realmente occorsa al Casanova a Varsavia, nel 1766 – fa parte dell’insieme di opere composte dal libertino per guadagnare la fiducia e la benevolenza della Signoria veneziana (non ancora del tutto persuasa della sua affidabilità, sebbene già dal 1775 egli lavori in incognito come confidente della polizia della Serenissima) e per esaltare i pregi e le virtù della Repubblica di cui egli continua a professarsi orgogliosamente cittadino. L’operetta, pubblicata appunto a Venezia, occupa il numero di giugno 1780 degli «Opuscoli miscellanei», periodico mensile che, inaugurato dallo stesso Casanova nel gennaio di quell’anno, proseguirà la sua serie fino al mese successivo. Nel rievocare – parlando di sé in terza persona – la sfida che lo aveva opposto, durante la sua visita a Varsavia, ad un alto dignitario (gran Postòli) della corona polacca, l’autore enfatizza la volontà di vendicare l’epiteto di «poltron vénitien» ricevuto dal nobiluomo: «Se al termine, benché grossolano, di poltron, egli non avesse accoppiato l’epiteto di veneziano, avrebbe forse l’altro sofferto l’affronto, ma una parola, che vilipende la nazione, non v’è, a mio credere, uomo, che possa soffrirla». Similmente venati di patriottismo sono, del resto, i cenni con cui, all’inizio dell’opera, egli descrive la condotta della Signoria veneziana in occasione della sua celebre fuga: «se quel governo, dalla disciplina del quale egli fuggia, avesse voluto, l’avrebbe sicuramente fatto arestare in viaggio, ma non se ne curò, e lasciò in tal guisa che il mal avveduto giovine, andasse ad esperimentare, che per vaghezza di libertà, l’uomo si espone spesso a vicende assai più crudeli di una passeggera schiavitù». E riconducibili alla stessa volontà di esaltazione della civiltà veneziana sono pure le parole rivolte all’avversario durante il consulto in cui si decidono le modalità dello scontro: «La mia nazione ha insegnato la bravura, e la civile politezza alla vostra» (p. 121). L’acceso scambio di battute che dà origine al duello tra i due contendenti è riferito riportandone le parole nella lingua in cui furono pronunciate, «perché in francese parlavano, e perché mal si possono tradurre» (p. 111). In francese, del resto, sono scritti anche vari altri dialoghi, nonché il testo dei due biglietti scambiati prima del duello dai due sfidanti: ma le une 201 e gli altri vengono sempre seguiti dalla traduzione in italiano. Proprio nell’alternanza tra parti narrative e dialoghi “teatrali” (nei quali le battute degl’interlocutori non sono saldate da alcun raccordo testuale, come in un copione) o tra brani riportati e inserti alloglotti, risiede la complessiva disomogeneità testuale dell’operetta casanoviana, che tuttavia è riscattata dall’agilità di un racconto di fatto scevro delle lungaggini e delle digressioni di cui lo stesso autore si accusa nel finale, dove proprio la presunta goffaggine di prosatore è invocata per giustificare l’impossibilità di qualsiasi più distesa narrazione autobiografica: «Questo pezzo della storia del veneziano serva a disingannare quelli, che bramano, ch’egli la scriva tutta». In realtà, la prosa del Duello è fluida, vivace, bilanciata nell’alternanza fra lunghe campate “narrative” e improvvise considerazioni gnomiche: «Fortunato è quel reo, che può in pace soffrire la pena, che meritò aspettandone il termine con rassegnata pazienza» (p. 103); «Tale è il nostro secolo. Tocca alla filosofia a lagnarsene, e quelli che vogliono seguire le di lei massime, debbono abitare da per tutto fuori che nelle corti» (p. 115); «Il vero amico non sa far nulla che ad intera soddisfazione dell’amico, e crede mal fatto tutto ciò, che a qualcun altro sembrerebbe meglio fatto in diversa guisa» (p. 124). Specie nella narrazione degli antefatti del duello, il ritmo narrativo è sostenuto, brillante, intermesso da argute allusioni sui caratteri dei paesi, delle corti e delle persone incontrate durante il viaggio in Polonia. Nonché sul paese d’origine: «in que’ paesi chi ha l’aria di non averne bisogno trova facimente denaro, e non è difficile là l’aver quest’aria, com’è difficilissimo l’averla in Italia, dove non v’è alcuno, che supponga una borsa piena d’oro, se prima non l’ha veduta aperta. Italiam! Italiam!» (p. 105). Quanto ai caratteri fonomorfologici e microsintattici della prosa del Duello (pur tenendo presente la solita riserva sull’eventuale intervento “normalizzante” dello stampatore), Casanova si dimostra qui lontano da eccessi d’iperletterarietà e di ipertoscanismo, scevro di rilevanti macchie dialettali e al tempo stesso alieno da scorie di latinismo o di cultismo. Bastino pochi selettivi esempi a documentare tale medietà. La scelta degli allotropi fonetici concorrenti è in genere conforme a quella consueta nei prosatori contemporanei (esempio: core preferito al corrispondente dittongato, imaginare al corrispondente con doppia), e solo sporadico l’accoglimento di grafie e di forme che, pur non essendo approvate dalla tradizione lessicografica, avevano largo corso nella prosa anche più controllata (ad esempio la consonante doppia di scruttinar, le scempie di slita e police ‘pollice’, di tipo consueto per uno scrivente settentrionale anche colto). Altrettanto misurato è l’impiego di cultismi fonetici (umbilico, superchieria per la conservazione di u 202 protonica) del resto comuni nella prosa contemporanea 119, come pure il ricorso a forme connotate in senso letterario o poetico, come il toscanismo dimanda, il poetismo sciabla per ‘sciabola’ o il consueto pensiere ‘pensiero’, o ancora alcune forme con i prostetica come isfidarlo, istesso e simili, talvolta usate anche dopo parola uscente per vocale. E quanto alla morfologia, appena venato di letterarietà è l’impiego del pronome il per l’oggetto diretto (il costrinse, il prese, il minacciò). La prosa casanoviana del Duello parrebbe, insomma, smentire le dichiarazioni dell’autore circa la sua malcerta conoscenza dell’italiano, che per la verità egli aveva riferito soprattutto alla lingua poetica: nell’Aviso al lettore premesso alla traduzione in dialetto veneziano dell’Iliade di Omero, rimasta manoscritta tra le carte di Dux, Casanova allude all’«idioma Toscano, che se so, so a stento, perché non l’ebbi dalla natura, ma procurai di acquistarlo con lo studio» 120. Se dunque egli sa passare dall’italiano approssimativo e saturo di interferenze dialettali documentato da certi manoscritti (a partire da quello stesso Aviso al lettore 121) alla lingua armoniosamente polita dell’edizione del Duello, ciò si dovrà all’azione – forse non solo autonoma – di un energico lavorìo correttorio. Ma tanto basta a garantire che non per necessità, ma per scelta egli ricorse al francese per la stesura della Histoire. Sul rapporto tra l’italiano e il francese nel suo orizzonte culturale e letterario Casanova si sofferma anche prima della pagina esordiale dell’autobiografia in cui la scelta della lingua straniera è compiutamente giustificata in un’opera più laterale e apparentemente scevra di preoccupazioni linguistiche, su cui ha richiamato l’attenzione Piermario Vescovo: il Messager de Thalie, l’opuscoletto settimanale scritto in francese «con cui il Casanova impresario accompagna, tra l’autunno del 1780 e l’inverno del 1781 (dunque negli anni stessi della stesura del Duello), le recite presso il Teatro Sant’Angelo di una compagnia francese appositamente condotta da Firenze a Venezia» 122. Giusto in uno dei fascicoli del periodico propagandisti119 Per umbilico, la LIZ[700] dà anche un esempio nel «Caffè» e uno (in poesia) nel Casti, per superchieria rispondono le commedie di Goldoni (6 occ.) e l’Amore delle tre melarance di Gozzi. 120 Cfr. Casanova 2005, p. 19. 121 Nell’Aviso al lettore riprodotto in Casanova 2005, pp. 19-21 si osservano numerosi casi di raddoppiamento consonantico incongruo (es. tradduzzione, appettito p. 19) o al contrario di scempiamento settentrionale (ocasion p. 21), accanto a costrutti caratterizzati da un ordo faticosamente aulico («Publico cui dò questa traduzione stampata, perdonami se abuso della facilità de’ torchi offrendoti un libro che non può esser a nessuno de membri tuoi di utile alcuno», p. 19). 122 Cfr. Vescovo 2001a, p. 286. 203 co, Casanova «affronta – così ancora Vescovo – la questione del suo francese oltre i limiti meramente pratici in cui essa, a questa altezza, dovrebbe porsi, non in quanto cioè scelta relativa per reclamizzare le recite ‘in lingua originale’ di una compagnia francese, ma in rapporto a una scelta espressiva, come, appunto, il prodotto di una commistione». In un passo del Messager, Casanova dichiara apertamente di voler «enfanter des phrases tournées à l’italienne» alla ricerca di originali effetti espressivi («ou pour voir quelle figure elles font»), o per «en faire naître la mode», o ancora «pour attirer dans la piège quelque puriste, docte critique qui, ne connaisant pas de quel humeur je suis, bien loin de me fâcher, m’amuserait» 123: parole che si trasferiranno quasi identiche nella prefazione della Histoire. Con un’originalità superiore persino al Goldoni dei Mémoires, Casanova rovescia l’atteggiamento antipuristico che moveva i suoi contemporanei “novatori” ad arricchire l’italiano con elementi tratti dal francese descrivendosi come un deliberato e provocatorio profanatore della lingua d’Oltralpe. Il ribaltamento di prospettiva diviene esplicito nella sovversione del luogo comune della “brillantezza” dell’abbigliamento alla francese, e del suo corrispettivo linguistico: Si les écrivains modernes de ce pays sont persuadés qu’une pensée habillée à la française devient plus brillante, et embellit une dissertation italienne, pour quoi, à mon tour, ne pourrais-je croire qu’un peu de construction italienne pourrait donner un beau vernis à un discours français? 124 Delle considerazioni proposte nel Messager discorrendo dell’uso del francese e dell’italiano a teatro, Casanova si ricorda, come s’è detto, nel Préface della Histoire de ma vie, dove due corposi paragrafi sono dedicati alla giustificazione della scelta linguistica operata nell’autobiografia, a partire da una considerazione puramente pragmatica: «J’ai écrit en françois parceque dans le païs où je me trouve cette langue est plus connue que l’italienne» (I, p. 10) 125. Qualche cosa di simile al principio che Goldoni aveva enunciato nel prologo alla Vedova scaltra, e che si potrebbe sintetizzare: cuius regio, eius lingua. Ma nella Histoire casanoviana, come già nell’opuscoletto teatrale dell’80, la diffusione del francese nella repubblica delle lettere ne autorizza un uso disinvolto e una spregiudicata commistione, che fa di essa una lingua «a-nazionale» piuttosto che semplicemente «in123 124 125 204 Casanova 1925, p. 60, cit. da Vescovo 2001a, p. 288. Ibid., p. 289. Qui e nel seguito le citazioni della Histoire de ma vie si riferiscono a Casanova 1993. ternazionale» 126. Se – osserva Casanova – tutte le lingue dell’Europa contemporanea attingono copiosamente al francese, è ingiusto che la cultura accademica francese abbia chiuso la propria lingua agl’influssi stranieri. La critica ai «puristes» ritorna in termini quasi identici a quella già formulata nel Messager. E il paragone con l’abbigliamento riprende manifestamente il motivo che già risonava in quell’opuscolo, nel quale varî altri elementi (come il richiamo a Rameau di cui si dirà sotto, per il quale ancora una volta la ripresa è pressoché letterale 127) stabiliscono un legame puntuale fra i due passi: La langue française est la soeur bien-aimée de la mienne: je l’habille souvent à l’italienne; je la regarde, elle me semble plus jolie, elle me plait d’avantage, et je me trouve content. Sûr en grammaire et certain qu’aucun lecteur ne me trouvera obscur, j’ai defendu à mon editeur d’adopter des corrections que quelque puriste constipé s’aviseroit d’introduire dans mon manuscrit. (I, p. 10) Le osservazioni del Préface sono frutto della rielaborazione di un abbozzo, conservatosi tra le carte di Dux e pubblicato nel secolo scorso, nel quale il confronto tra le due lingue era ancor più approfondito 128. In quella prima versione del testo prefatorio, Casanova si difendeva dall’accusa di aver preferito il francese all’italiano richiamando in primo luogo la natura non scientifica della propria opera, che lo avrebbe esentato da una puntuale precisione espositiva («mon ouvrage n’étant pas scientifique, je préfère les liseurs français aux italiens»), e secondariamente la superiorità “bouhoursiana” del francese «dans la connaisance du coeur humain, et... dans les vicissitudes de la vie». Interrogandosi retoricamente sulla propria reale conoscenza del francese («mais sais-je la langue que j’ai choisie?»), Casanova concludeva quell’abbozzo con un attacco preventivo ai critici non troppo diverso, nella sostanza, da quello consegnato alla versione definiti126 Cfr. Craig 1992, p. 209: «His choice of a literary language has never been understood as the authentic expressive medium of an exile who stands outside both cultures, who writes in French as the international language of his time but who also distorts and deforms it into a truly a-national language, using the mainstream language to subvert mainstream concepts of nationality and literature, and to establish his difference». 127 Si ha nel Messager de Thalie: «Rameau, fameux maître de chapelle, fit pleurer de désespoir le Lullistes, lorsqu’il mêla des morceaux italiens à la mélodie française. Il triompha» (Casanova 1925, p. 60); nella Histoire de ma vie: «Toute la nation, du temps de Lulli, portait le même jugement sur sa musique, jusqu’à ce que Rameau vînt pour la désabuser» (I, p. 10). 128 Il testo è pubblicato («un projet de Préface des Mémoires») in appendice a Casanova 1925. 205 va del Préface: «Ceux qui diront que ma diction est tudesque me feront rire, comme les rhéteurs firent rire Tite-Live lorsqu’ils dirent que sa latinité sentiebat patavinitatem». In un passo (di molto successivo) della Histoire la critica al purismo francese diverrà ancora più esplicita, e precisamente rivolta contro l’Académie, che con la sua ostinata chiusura nei confronti della terminologia straniera ha impedito alla lingua d’Oltralpe un arricchimento descritto in termini quasi cesarottiani: Celui qui n’a que ce qui lui est nécessaire est pauvre; et l’obstination de l’Académie Française à ne point vouloir adopter des mots étrangers ne démontre autre chose, sinon que l’orgueil va avec la pauvreté. Nous poursuivons è prendre des langues étrangères tous les mots que nous plaisent; nous aimons à devenir toujour plus riches; nous trouvons même du plaisir à voler le pauvre: c’est le caractère du riche. (III, pp. 763-64) Quanto alla professione di modestia di Casanova a proposito della «grammaire» del suo francese, essa è fors’anche eccessiva. Ma come si è visto, un’analoga deminutio egli operava anche a proposito dell’italiano: oltre alla testimonianza sopra ricordata della traduzione dell’Iliade, anche nello stesso abbozzo del Préface Casanova aveva dedicato alla sua conoscenza della lingua nazionale un inciso sarcastico: «quand même je la saurais comme Théophraste savait la grecque» 129; e ancor più esplicito egli era stato nel Messager de Thalie, dove aveva difeso il toscano scritto dei non toscani, nei quali questi ultimi possono raggiungere un’accuratezza impossibile nel parlato («Les Gascons peuvent écrire très bien leur langue, aussi bien que les Vénitiens l’italienne; mais ils la parlent comme il plaît au Seigneur» 130). Qualcosa di simile vale, evidentemente, per il francese di un non-francofono. Gli argomenti che egli usa nel Préface dell’autobiografia sono gli stessi cui gli anti-puristi italiani ricorrevano per giustificare la loro lingua galicisée. Accostando a nobili exempla classici (i tratti dialettali di Teofrasto, addirittura la patavinitas di Tito Livio) il richiamo all’Algarotti e al suo stile universalmente apprezzato ancorché «pétri de gallicismes», Casanova afferma di fatto la pari dignità dell’italiano francesizzante dei suoi connazionali e del francese abbellito di italianismi che egli si propone di impiegare. È impro129 130 206 Cfr. Casanova 1925, p. 126. Ibid., p. 61. babile che – come pare sia accaduto per l’Icosaméron – il cavaliere di Seingalt abbia abbozzato in italiano la sua autobiografia (o almeno parte di essa) prima di stenderla in francese. Di fatto, nel francese della Histoire «il arrive à peine, en moyenne, une ou deux fois par page que le lecteur francophone contemporain soit surpris par une tournure qu’il n’a jamais rencontrée chez un écrivain français du temps de Casanova» (così Francis Furlan) 131. Non diversamente, verrebbe da dire, da quanto accade in Goldoni. Se non che, a differenza del suo concittadino, Casanova procura di sottolineare tale diversione dal bon usage contemporaneo dedicando – come vedremo – vari divertiti accenni all’imperfezione del proprio francese. Proprio in quella caratteristica approssimazione (che, come già abbiamo osservato per Goldoni, è tipica di qualsiasi lingua che divenga internazionale), lo stesso Préface individua non un limite, ma un’opportunità di cui il nuovo regime politico e sociale della Francia rivoluzionaria è provocatoriamente invitato a giovarsi: se sotto l’ancien régime l’autarchia culturale investiva ogni aspetto della produzione francese (ad esempio la musica, «jusqu’à ce que Rameau vînt pour la désabuser»), la Repubblica ha già dimostrato, «dans le court espace d’un lustre» la capacità di mutare la tradizionale condotta del francese: «Peut-on par example inventer rien de plus beau en matière de langue qu’ambulance, franciade, monarchien, sansculotisme?» – dove il tono dell’autore pare sospeso tra filoneismo linguistico e ironia, nell’indicare quattro neologismi del francese secondosettecentesco 132. La fonte di questo passo è quasi certamente il Nouveau Dictionnaire francese di Leonard Snetlage, uscito nel 1795 e dedicato alle «éxpressions de nouvelle Créations du peuple Français», cui lo stesso Casanova dedicherà, nel 1797, una singolare recensione, e nel quale questi neologismi sono puntualmente riportati 133. 131 Cfr. Furlan 1976, p. 35. La Furlan rileva nella Histoire de ma vie una quantità complessivamente ridotta di italianismi e venezianismi, omogeneamente distribuiti nel lessico (ad esempio: «purs calques de l’italien, comme destitué de forces», o «porte en conséquence», p. 32), nella morfosintassi (omissione dell’articolo in «avec toute la grâce et politesse», «être d’autre couleur», ibid.), o nella sintassi: «le locatif là, par exemple, est utilisé systématiquement dans bien de cas où cela ne sarait pas possible en français, parce que cette forme monosyllabique y serait insuffisamment appuyée. C’est que Casanova lui prête toutes les propriétés de son homologues italien là, par example dans: elle ne peut pas avoir de force là, puisque ( = à cet endroit)» (p. 33). 132 Teste il Trésor de la Langue française, ambulance è in effetti attestato dal 1752, franciade dal 1793, monarchien dal 1790, sans-culotisme ancora dal 1793. 133 Cfr. Snetlage 1795, pp. 12 (ambulance), 95 (franciade), 149 (monarchien), 208 (sansculotisme). E su ambulance e i suoi derivati italiani cfr. anche Dardi 1995, p. 175. 207 7. Avventure linguistiche nella Histoire de ma vie Le pagine prefatorie della Histoire de ma vie non esauriscono l’interesse di Casanova per le questioni linguistiche, che è anzi destinato a ulteriore svolgimento (nonché, in alcuni casi, a brillante e “romanzesca” variazione) nel seguito dell’autobiografia. L’Histoire de ma vie trabocca di minute e spesso estemporanee osservazioni linguistiche, dedicate sia ai tre codici dominanti nel repertorio casanoviano – come in Goldoni: veneziano, italiano, francese –, sia al latino, sia a varie lingue europee, come l’inglese (sebbene Casanova non l’intendesse 134), lo spagnolo (di cui egli dichiara una limitata conoscenza, ma sul quale non omette giudizi estetici e puntuali riflessioni 135), il tedesco (lingua comune alla corte di Pietroburgo, e a lui sostanzialmente ignota), il «moresque» (a cui in una pagina odeporica è dedicata una digressione sulla presunta frequenza della vocale a 136), e persino il finlandese, di cui viene osservato il completo isolamento rispetto alle varietà dei paesi circostanti 137. Come per certe osservazioni goldoniane dei Mémoires potremmo parlare di un atteggiamento “turistico” quasi sempre privo di particolare originalità e più o meno direttamente riconducibile alla topica dello «spirito delle lingue». Ma simili digressioni, non meno acute di quelle goldoniane, 134 «N’entendant pas l’anglais, je me tenais là tranquille à voir les allants et les venants» (III, p. 202). Un indiretto giudizio sull’inglese si legge in un “cammeo” dedicato a Giuseppe Baretti: «C’est un homme qui écrivait en pure langue italienne, et qui n’intéressait que par les traits mordants dont tout ce qu’il écrivait était farci, dénué de toute érudition et de science de la bonne critique. Possesseur de la langue anglaise, et malgré cela la rendant désagréable quand il voulait l’allier aux beautés de la langue italienne» (III, p. 746). 135 Cfr. rispettivamente III, p. 608: «Moi parce que ne parlant que très peu l’espagnol, je ne savais que lui dire» (III, p. 587); e ancora: «Je lui [ = all’Alcalde Messa] ai dit que je n’entendais que très peu l’espagnol, et que je ne réponderais jamais rien que par écrit à tout homme qui m’interrogera en italien, en français ou en latin»; III, p. 570: «Qu’à cela ne tienne, la langue espagnole est sans contredit une des plus belles de l’univers, sonore, énergique, majestueuse, qu’on prononce ore rotundo, susceptible de l’harmonie de la plus sublime poésie, et qui serait égale à l’italienne par rapport à la musique si elle n’avait les trois lettres égalment gutturales qui en gâtent la douceur, malgré tout ce que les Espagnols, qui comme de raison sont d’un avis contraire, peuvent dire. Il faut les laisser dire: quisquis amat ranam putat esse Dianam. Son ton cependant la fait paraître à des oreilles indifférents plus impérative que toutes les autres langues». E nel capitolo II del volume XI, ad esempio, è riferito un battibecco con Antonio Rafael Mengs, il quale «parlait quatre langues, et toutes mal; mais il ne voulait pas en convenir», e che viene ripreso da Casanova per aver firmato un memoriale rivolto al re con la formula «el más inclito pour se dire les plus humble» (III, p. 625). 136 Cfr. III, p. 569. 137 Ibid., p. 382. 208 insistono su un arco geografico, cronologico e insomma culturale ben più ampio. Tratto costante è l’ostentata leggerezza e la compiaciuta insistenza su temi tipici nella Histoire, come quello della fisicità e materialità, di cui si ha un riflesso linguistico nell’aneddoto sul difetto di pronuncia dell’attrice Vestris, che suggerisce a Casanova uno spericolato gioco linguistico (sostituire, nella sua parte, tutte le parole contenenti la r con sinonimi che ne sono privi); o, ancora, il motivo della seduzione esotica, che vale anche per le lingue: ad esempio per la lingua franca parlata dalla schiava greca «d’une beauté surprenante», oggetto di una famosa descrizione, o la «langue florentine avec les idiotismes et les défauts de la pronunciation trop battue» che tanto conferisce al fascino della giovane inglese Beti (una Betty rimasta non identificata). L’equivoco a sfondo sessuale su cui si reggono numerosi “incidenti linguistici” narrati nel corso dell’opera, e raccolti in un esilarante florilegio nel capitolo IX del terzo volume, dedicato a «mes balourdises dans la langue française», compone una lunga serie di fraintendimenti che culmina in una gaffe fin troppo “casanoviana” 138: la spiegazione offerta a una giovane francese circa la posizione del pronome atono in italiano: «nous le mettons derrière» (anziché après), spiega Casanova a una mademoiselle. Con le ovvie conseguenze: «cet équivoque insolent courut Paris, et me rendit furieux; mais j’ai enfin connu la force de la langue, et pour lors ma fortune diminua» (I, p. 593). Similmente funzionali a quella che si potrebbe chiamare la costruzione del proprio personaggio sono numerose altre osservazioni, la cui apparente estemporaneità è però quasi sempre riconducibile a uno dei molteplici e invisibili fili che reggono la grandiosa trama della Histoire. Così, alle prime considerazioni d’argomento linguistico Casanova è indotto, come accade in tanti altri scritti scritti autobiografici settecenteschi, dai ragguagli sull’educazione ricevuta durante l’infanzia, in cui si rinnova il topos dell’inadeguatezza dei primi maestri: avviato dalla famiglia (Casanova era figlio di attori comici) alla scuola parrocchiale di un giovane prete, Antonio Maria Gozzi, il giovane Giacomo si ritrova in un ambiente inadatto alle sue inclinazioni fino a quando lo stesso Gozzi lo affida alle cure di un abate, Biagio Schiavo, che gl’insegna a scrivere in buon italiano, privilegiando il linguag138 Nota in effetti Francis Lacassin in Casanova 1993, I, p. 593: «Ces maladresses de langage de Casanova pourraient bien ne pas être toutes d’una authenticité absolue. Nous trouvons en effet un équivalent de celle-ci dans “Le maître italien”, un poème des Contes théologiques, etc. (Paris, 1783, p. 126)». 209 gio della poesia per la quale egli aveva una spiccata inclinazione (I, p. 68). Di poesia, del resto, Casanova parla vari anni più tardi con il seminarista quindicenne («qui aujourd’hui, à moins qu’il ne soit mort, est évêque» I, p. 109) con il quale stringe un’affettuosa amicizia rinsaldata dalla comune passione per Orazio, Ariosto (preferito al Tasso) e Petrarca, nonché da un convinto disprezzo per Tassoni e Muratori, rei di aver criticato l’autore del Canzoniere. E proprio Ariosto, Orazio e Petrarca (citati in quest’ordine) sono gli autori dei libri poggiati sul comodino che Messer grande – l’ufficiale della polizia veneziana che esegue l’arresto di Casanova, il 26 luglio del 1755 – sequestrerà assieme al manoscritto del Militare filosofo in seguito pubblicato da Jacques-André Naigeon. La difesa dei grandi classici della letteratura italiana, e in particolare del canone fondato sulla coppia Petrarca-Ariosto, contro le critiche degli intellettuali contemporanei attraversa tutta l’autobiografia casanoviana, culminante nel dialogo con Voltaire in cui questl’ultimo propone una palinodia dei propri pronunciamenti anti-ariosteschi. Ma non è, ovviamente, nell’àmbito della letteratura che si svolgono di norma le riflessioni metalinguistiche della Histoire: nell’autobiografia casanoviana le lingue sono, in effetti, strumenti di un dialogo teatralmente drammatizzato. Di un’attenzione alle varietà parlate superiore a quella per le varietà scritte testimoniano ad esempio, nella Histoire e in altri scritti casanoviani, le osservazioni relative al francese: in una sorta di breve essai rimasto manoscritto tra le carte di Dux – e pubblicato in appendice all’edizione Lacassin dell’autobiografia –, la sua superiorità europea è convenzionalmente ricondotta ai caratteri di clarté e di grâce spesso riconosciutigli dalla cultura settecentesca, ma è anche specificamente riferita alla sua natura di lingua della conversazione internazionale. Secondo Casanova, «la langue française est la seule qui soit parlée de la même façon par tous ceux qui l’ont apprise», contrariamente a tutte le altre, che a causa dei loro «particolarismes» sono parlate in modo diverso dagli stranieri che le imparano. Se dunque il francese deve la sua centralità culturale prima di tutto al ruolo di lingua universalmente parlata, persino il latino – la «lingua morta» per eccellenza nel dibattito illuministico – trova spazio nella Histoire casanoviana come strumento di comunicazione non solo scritta, e fin da uno dei capitoli iniziali della Histoire è rievocato nel contesto di un malizioso e fulmineo scambio di battute. È l’episodio dell’«homme de lettres» inglese incontrato in gioventù da Casanova durante un pranzo con l’abate Baffo: comunicando con i commensali in latino, l’inglese propone al giovanetto 210 un vecchio enigma scolastico sotto forma di distico dedicato al genere grammaticale di cunnus e mentula, e ne suscita l’immediata responsiva sotto specie di un pentametro («Disce quod a domino nomina servus habet»). E in un episodio riferito ad anni ben più tardi, l’oculista-ciarlatano Tadini, cui un vecchio professore tedesco («mais qui parlait bien français») si rivolge in latino, maschera con un escamotage salottiero la sua totale ignoranza della lingua antica, rovesciando il fortunato topos del cerusico latineggiante. Se si eccettuano il convenzionale riconoscimento della superiorità “naturale” dei toscani – e in particolare dei senesi: a differenza del Goldoni, Casanova si rifà al modello del Gigli, così fortunato poi anche nel secolo seguente – quanto all’uso della lingua poetica («Je crois qu’un Toscan peut plus facilement écrire en beau langage poétique qu’un Italien d’une autre province, puisqu’il posséde dès sa naissance la belle langue», III, p. 764) e pochi altri generici cenni a una lingua riguardata come codice puramente letterario, il veneziano è certo la varietà linguistica oggetto di alcune tra le digressioni più attente e partecipate. Esso viene esaltato nella Histoire come in tutte le altre opere in cui Casanova aveva avuto occasione di parlarne in precedenza (ad esempio nella confutazione del pamphlet di Amelot de la Houssaye contro la Serenissima, pubblicata nel 1769). Il dialetto diviene anzi, nell’autobiografia, un contrassegno di identità insieme etnica e culturale di cui Casanova marca l’efficacia non tanto nel contesto di avventure ambientate in Italia ma in occasione di vicende vissute all’estero. L’esempio più significativo è l’incontro con il trevigiano conte Volpati durante una festa danzante a Pietroburgo, nel 1764: dopo aver riconosciuto il vestiario tipicamente «à la vénitienne» del gentiluomo («baüte, manteau noir, masque blanc»: si noti il vistoso venezianismo lessicale), Casanova gli si rivolge parlando in francese, ma proponendo subito di passare al dialetto («parlons donc vénitien»), e riconoscendo immediatamente la provenienza non lagunare dell’interlocutore. «Vous êtes, lui dis-je, Vénitien, mais pas de la capitale, puisque vous auriez dit Sabo» (III, p. 385) anziché sabato, forma usata dall’interlocutore, di per sé non peculiarmente trevigiana (ma è possibile che l’autore confondesse, nel ricordo, un’altra più caratteristica voce dialettale 139). Quel che di tipicamente casanoviano – almeno in rapporto con altri autobiografi coevi – c’è in questa rappresentazione di una tastiera lingui139 Ad esempio il tipo femminile sabada, oggi diffuso esclusivamente nelle varietà ladine (anche venete), ma forse caratterizzata, in passato, da maggiore estensione. 211 stica di per sé convenzionale è, lo ripetiamo, la costante attenzione agli aspetti concreti della comunicazione, e in particolare della conversazione, e conseguentemente il rifiuto di un’idea meramente libresca delle lingue, compreso l’italiano, di cui egli ricusa l’irrigidimento nell’angusta veste di lingua letteraria ferma all’emulazione dei grandi modelli del passato. Due episodi significativi in tal senso sono riferiti a breve distanza tra loro, nelle pagine in cui Casanova descrive il proprio arrivo a Parigi. Incontratosi con gli attori della Comédie italienne, egli ha una vivace discussione con un’attrice italiana sulla pronuncia della parola scevra, non sceura, come l’artista avrebbe preteso sulla base di un apprendimento dell’italiano per via esclusivamente scritta. Poche pagine più avanti, un «docte dans la littérature italienne» gli si rivolge in un italiano libresco e iperletterario suscitando la sua ilarità: «il parlait précisément dans le style de Bocace» (I, p. 564). Naturalmente, è bene non esagerare nell’attribuire a Casanova una sensibilità per il parlato in opposizione allo scritto, che sarebbe un evidente anacronismo culturale. Ma è un fatto che, rappresentando la molteplicità delle lingue risonanti nell’autobiografia come una boîte à surprise capace di generare più spesso incontri e dialoghi de visu che astratte riflessioni teoriche, il discorso sulla lingua che si dipana nella Histoire de ma vie è coerente con i caratteri più macroscopici della concezione casanoviana della vita. 212 PIEMONTESI ALLA RICERCA DELLA LINGUA 1. «Scriver la vita» «Anno 1790. Finite intieramente le stampe, scriver la vita»: nel manoscritto alfieriano 10 della Biblioteca Laurenziana di Firenze – una miscellanea di testi risalenti ad un arco di tempo di molti anni – è compreso anche quello che il primo editore, Emilio Teza, chiamò un «breve quadro della vita futura» 1: due carte (62 e 62bis) il cui «vero titolo, segnato dall’Alfieri sull’alto della c. 62r è: “L’uom propone, e Dio dispone”», come ha rettificato Luigi Fassò nel presentarne l’edizione critica 2. Si tratta di appunti stesi il 23 settembre di quello stesso 1790, e contenenti i propositi dell’autore sia circa la stesura dell’autobiografia (che egli contava, una volta completata, di lasciar da parte per un intero decennio, per riprenderla nel 1800 e «trarla ... sino al presente anno», concluderla nel 1805 e infine stamparla nel 1806), sia sul prosieguo della produzione letteraria. Le cose andarono diversamente, come è naturale e come lo stesso autore mostrava di antivedere con quello gnomico esergo: secondo Fassò, la composizione dell’opera si articolò in fasi solo parzialmente documentate dai manoscritti superstiti. Stando alla sua ricostruzione, «il primo getto della Vita – steso probabilmente per intero su fogli staccati e sparsi – venne distrutto dall’Alfieri» 3; la sua esistenza è tuttavia rivelata indirettamente dallo stato del più antico fra i manoscritti autografi della Vita, la cui finitezza è tale da escludere che si tratti di un primo abbozzo. Nella fase iniziale del lavoro, l’Alfieri dovette attingere largamente a scritti come i Giornali e gli Annali, cioè all’ampia pur se discontinua produzione diaristica e memorialistica ch’egli era andato producendo a partire perlomeno dagli anni Settanta 4. A una prima, dispersa stesura dovette dunque seguire la trascrizione in 1 Alfieri 1861, p. 355. Alfieri 1951a, I, p. lvii. 3 Ibid., p. xiv. 4 Giornali ed Annali sono pubblicati in appendice all’edizione della Vita da Teza (Alfieri 1861, pp. 333-71) e da Fassò (Alfieri 1951a, II, pp. 231-71). 2 213 bella copia nell’attuale Alfieriano 13 della Laurenziana, datato nell’explicit «Sabato santo. 3 aprile 1790. Parigi»: sebbene un lettore autorevole come Mario Fubini fosse persuaso che questo codice rappresenti la prima redazione dell’opera, scritta di getto, seppur con penna «sicura e franca», la sua opinione è rimasta isolata 5. Il manoscritto si presenta piuttosto come una tipica copia “in pulito”, caratterizzata da una grafia ordinata e omogenea, da rare correzioni interlineari e da occasionali aggiunte nell’ampio margine lasciato libero. Alfieri dovette dunque copiare nel ms. 13 la prima parte della Vita, fino al capitolo diciannovesimo dell’epoca IV. Dopodiché, egli sigillò il manoscritto «con strisce di carta e bolli di ceralacca rossa contrassegnati dal suo stemma gentilizio» 6, e lo dissuggellò in anticipo rispetto alla scadenza che si era prefissato, il 4 marzo del 1798: a partire da questa data egli intervenne sulle stesse carte con una serie di ritocchi, e soprattutto con le aggiunte marginali di cui sopra, oltreché con varie indicazioni relative a spostamenti testuali. Entro il 4 maggio 1803, nello stesso ms. 13 vengono stesi il Proemietto che salda la prima parte dell’Epoca Quarta alla sua “continuazione”, e i dodici ultimi capitoli. Successivamente, a varie riprese, tra il 1798 e il 1803 l’Alfieri trascrive un testo in pulito nell’attuale manoscritto alfieriano 24 della Laurenziana. È la redazione definitiva dell’opera, che tuttavia non discende semplicemente dalla copiatura e rassettatura del testo presente nel ms. 13. I mutamenti intervenuti tra la redazione di quest’ultimo (anche tenendo presente le correzioni e le aggiunte successive) e quella del ms. 24 sono infatti di tale portata da postulare necessariamente l’esistenza di una o più redazioni intermedie, forse parziali e disorganiche, non conservatesi. Gli ultimi dodici capitoli del ms. 24, cioè la «continuazione» di cui sopra, furono trascritti nel ms. 24 dall’ultimo segretario dell’Alfieri, il fiorentino Francesco Tassi, che li esemplò direttamente da quel codice. In definitiva, i due manoscritti superstiti offrono testimonianza di diverse fasi compositive (almeno due stratificate nel primo dei due codici), lasciando intravvedere un lavorìo ancor più approfondito. Quanto alle edizioni, la princeps uscì a Firenze con la falsa indicazione «Londra 1804», in due volumi, per le cure del pittore François-Xavier Fabre e della contessa d’Al5 Cfr. l’introduzione di Fubini ad Alfieri 1977, p. xi. Non ne appare convinto nemmeno Mazzotta nella più recente e accurata ricostruzione della tradizione dell’opera (in ArduiniMazzotta-Tellini 2003, pp. lxxiv s.). 6 Ibid., p. lxxvi. 214 bany (con la consulenza dell’abate Tommaso Valperga di Caluso), che per ragioni d’opportunità politica – l’Italia si trovava nella morsa delle devastazioni napoleoniche – furono costretti a consistenti tagli e manomissioni, specie nella seconda parte dell’opera. Un nuovo testo fu poi allestito nel 1853 da Emilio Teza, che attinse direttamente ai manoscritti della Laurenziana; gli oggettivi limiti di quella stampa furono rilevati, quasi un secolo più tardi, da Luigi Fassò, che per l’edizione nazionale della Casa d’Alfieri di Asti procurò un testo fondato sul ms. 24 – riproducendo di seguito la parte che in quel codice spetta alla mano dell’autore e quella vergata dal Tassi 7 – e lo corredò con una trascrizione del ms. 13, il cui apparato riporta tuttavia solo selettivamente (e in forma discorsiva, talora piuttosto disomogenea) le correzioni presenti in quel codice. Ciò non ostante, e pur essendo viziata da numerose sviste, l’edizione Fassò ha di fatto fornito un buon punto di partenza per le successive messe a punto: fino a quella, fedele nella resa e nell’interpretazione di alcune peculiarità grafiche della prosa alfieriana 8, procurata da Arnaldo Di Benedetto nel 1977. Ma in entrambi i casi, il progresso si ebbe nel commento di un testo per il quale il ms. 24 continuava di fatto a costituire l’unico riferimento: in attesa, si direbbe, di una nuova e auspicabile messa a fuoco, per la quale, nell’ultimo decenno, pure non sono mancate proposte e utili premesse 9. 2. La lingua della Vita Anche la puntuale schedatura linguistica della Vita alfieriana è già stata condotta in modo esaustivo con risultati sostanzialmente coerenti 10: ne sono emersi i caratteri di un testo ancora pienamente settecentesco, la cui 7 Su questa scelta in particolare si sono appuntate le riserve dei successivi recensori: cfr. Leporatti-Scannapieco-Mazzotta 2001, p. 1081, Santato 2005, p. 278. 8 Cfr. quanto osserva Pär Larson in Alfieri 1997, p. 49: «A differenza del Fassò, il Di Benedetto mantiene ovunque possibile le iniziali maiuscole reverenziali, espressive, ironiche (...). Un contesto particolare, sfuggito al Fassò – ma non al Di Benedetto –, in cui l’Alfieri adopera pressoché regolarmente l’iniziale maiuscola è in parole citate come “lessemi” (o, se si vuole, in parole viste piuttosto come “significante” che come “significato”), là dove oggi useremmo le virgolette o il corsivo». 9 Cfr. in particolare l’edizione corredata di concordanze e studio linguistico di Alfieri 1997, e per i criteri da seguirsi in una desiderabile nuova edizione, gli argomenti di Santato 2005, p. 278. 10 Sull’edizione di Fassò si basa Patota 1987 per il suo spoglio, su quella di Larson Stefania De Stefanis Ciccone per la nota linguistica premessa ad Alfieri 1997. 215 veste formale riflette la ligia osservanza della norma linguistica contemporanea (la «sacrosanta grammatica»), nei confronti della quale, pur non essendo un purista, Alfieri professa esplicitamente un ossequio devoto – che è parte integrante del suo eroico volontarismo linguistico. Tale atteggiamento non osta, d’altro canto, al perdurare di un vivace polimorfismo: la libera alternanza di grafie e di forme concorrenti è endemica nei prosatori coevi o di poco precedenti, e la sua massiccia presenza in un manoscritto steso da un’unica mano in un lasso relativamente ridotto di tempo costituisce una chiara testimonianza della pervasività di simili oscillazioni. Tuttavia, il fatto che si tratti di un’opera sorvegliatissima, frutto di una laboriosa revisione e, ad abundantiam, redatta da un autore la cui autocoscienza linguistica è assai forte, collega un simile polimorfismo al carattere spesso ondivago degl’interventi correttorî, i quali – come vedremo – sono forse tra le espressioni più evidenti del vivace anomalismo alfieriano. Così, il carattere più notevole della sintassi della Vita riguarda il dosaggio di elementi tradizionali e iperletterari – come le inversioni di cui si dirà nel prossimo capitolo – e di tratti innovativi (perché tipici dell’uso prosastico settecentesco) o addirittura di soluzioni che ormeggiano un tono colloquiale e tutt’altro che magniloquente. Già più di quarant’anni fa, Giulio Herczeg notava come nell’Alfieri si manifestino alcuni fenomeni riconducibili alla tendenziale semplificazione sintattica caratteristica dell’italiano settecentesco: ad esempio l’accumulazione di sostantivi in lunghe serie, con funzione di soggetto 11 o di com11 Riporto gli esempi dello stesso Herczeg 1965, pp. 292 s., integrandoli con ulteriori materiali: «io imparai dunque pochissimo, e di gran lunga peggiorai la salute del corpo, stante la total differenza e quantità dei cibi, ed il molto strapazzo, e il non abbastanza dormire; cose in tutto contrarie al primo metodo tenuto sino ai nove anni nella casa materna» II.2; «Il che aggiunto ad alquanta più dissipazione che mi procacciava quell’uscire ogni giorno di casa per andare all’Università, e nei giorni di vacanza qualche pranzuccio dallo zio, e quel sonnetto periodico di tre quarti d’ora nella scuola; tutto questo contribuì a rimpannucciarmi un pochino» II.5; «ma il local del paese, i semplici costumi, le belle e modeste donne e donzelle, sopra tutto l’equitativo governo, e la vera libertà che n’è figlia; tutto questo me ne faceva affatto scordare la spiacevolezza del clima, la malinconia che sempre vi ti accerchia, e la rovinosa carezza del vivere» III.6; «Le adjacenze poi e i passaggi, e le limpide acque, e la posizione locale della città di Valenza, e il bellissimo azzurro del di lei cielo, e un non so che di elastico ed amoroso nell’atmosfoera, e donne i di cui occhi protervi mi faceano bestemmiare le gaditane; e un tutto, insomma, s’ fatto mi si appresentò in quel favoloso paese» III.12; «Una certa somiglianza nei nostri caratteri, lo stesso pensare e sentire (tanto più raro e pregevole in lui che in me, attese le di lui circostanze tanto diverse dalle mie) ed un reciproco bisogno di sfogare il cuore ridondante delle passioni stesse, ci riunirono ben tosto in vera e calda amicizia» IV.4; «Dopo circa tre settimane di soggiorno in Siena, nel qual tempo non trattai né vidi altri che l’amico, la temenza di rendermi troppo molesto a lui, poiché tanto pur l’era a me stesso; l’impossibilità di occuparmi 216 plemento 12, ma sempre in soluzioni riconducibili allo stile nominale, del quale la Vita esibisce una significativa casistica. Un esempio tipico è la descrizione, a rapide pennellate, della futura moglie Luisa Stolberg, sorta di pendant prosaico al celebre autoritratto in versi (il sonetto «Sublime specchio di veraci detti»), caratterizzato da una sequenza per molti aspetti simile di elementi nominali: Età di anni venticinque; molta propensione alle bell’arti e alle lettere; indole d’oro; e, malgrado gli agi di cui abondava, penose e dispiacevoli circostanze domestiche, che poco la lasciavano essere, come il dovea, avventurata e contenta. (IV.5) Analogo, passando dalle descrizioni fisiche a quelle psicologiche, il caso della fenomenologia d’amore che si legge nel capitolo decimo dell’Epoca II: I sintomi di quella passione, di cui ho provato dappoi per altri oggetti così lungamente tutte le vicende, si manifestarono in me allora nel seguente modo. Una malinconia profonda e ostinata; un ricercar sempre l’oggetto amato, e trovatolo appena, sfuggirlo; un non saper che le dire, se a caso mi ritrovava alcuni pochi momenti (non solo mai, che ciò non mi veniva fatto mai, essendo ella assai strettamente custodita dai suoceri) ma alquanto in disparte con essa; un correre poi dei giorni interi (dopo che si ritornò di villa) in ogni angolo della città, per vederla passare in tale o tal via, nelle passeggiate pubbliche del Valentino e Cittadella; un non poterla neppure udir nominare, non che parlar mai di essa; ed in somma tutti, ed alcuni di più, quegli effetti sì dottamente e affettuosamente scolpiti dal nostro divino maestro di questa divina passione, il Petrarca. in nulla, e la solita impazienza di luogo che mi dominava tosto di bel nuovo al riapparire della noia e dell’ozio: tutte queste ragioni mi fecero risolvere di muovermi viagggiando» (IV.10); «Il piacere di esser fuori di carcere e di ricalcare con la mia donna quelle stesse vie, che più volte avea fatte per gire a trovarla; la soddisfazione di potere liberamente godere la sua santa compagnia, e sotto l’ombra sua di potere ripigliare i miei cari studi, mi tranquillizzarono» IV.22. 12 Esempi (anche in questo caso integro il materiale già offerto da Herczeg): «Avuta l’eredità, e la libertà, ritrovai tosto degli amici, dei compagni ad ogni impresa, e degli adulatori, e tutto quello insomma che vien coi danari, e fedelmente con essi pur se ne va» II.7; «Io mi trovava allora in età di ventitré anni; bastantemente ricco, pel mio paese; libero, quanto vi si può essere; esperto, benché così alla peggio, delle cose morali e politiche, per aver veduti successivamente tanti diversi paesi tanti uomini; pensatore, più assai che non lo comportasse quell’età; e presumente anche più che ignorante» III.13; «E per quanto già mi paresse scabrosissimo questo passo, ben altrienti poi lo conobbi esser tale, quando imparai per esperienza cosa si fossero le letterarie inimicizie e raggiri; e gli asti librarii, e le decisioni giornalistiche, e le chiacchiere gazzettarie, e tutto in somma il tristo corredo che mai si scompagna da chi va sotto i torchi» IV.10. 217 Allo stesso Herczeg si deve la correlazione di simili costrutti con quelli, pure assai frequenti, caratterizzati dalla «relativa autonomia dei sintagmi apposizionali», che giunge fino all’uso «delle cosiddette apposizioni narrative o descrittive» (esempio: «nel Decembre feci una scorsa a Roma per le poste a cavallo; viaggio pazzo e strapazzatissimo, che non mi fruttò altro che d’aver fatto il Sonetto di Roma» IV.5 13), nelle quali talvolta «il sostantivo apposizionale, nome astratto, è volutamente incolore, vuoto di significato» 14. Tali soluzioni – espressione di un gusto per la brevitas e per la nervosa incisività narrativa, che si riflette anche in talune scelte lessicali – si accompagnano a costrutti marginali nella tradizione letteraria e ormeggianti un tono colloquiale, come certe ridondanze pronominali (tipo: «della reminiscenza di quel mio primo dolore nel cuore ne ho poi dedotta la prova che tutti gli amori dell’uomo ... hanno lo stesso motore» I.2 15), oppure a casi 13 Altri esempi sono riportati dallo stesso Herczeg 1965, pp. 300 s.: «Il fanatismo ebdomadario di quel poco tempo ch’io mi vi tratenni, era allora il pallon volante; e vidi due delle prime e più felici esperienze delle due sorti di esso, l’uno di aria rarefatta ripieno; l’altro, d’aria infiammabile; tema più assai poetico che storico, e scoperta, a cui per ottenere il titolo di sublime, altro non manca finora che la posibilità o verosimiglianza di essere adattata ad una qualche utilità» IV.12; «Nel Misogallo, che sempre andava crescendo, e che anche ornai d’altre prose, io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all’Italia, e nuocerà alla Francia non poco. Sogni e ridicolezze d’autore, finché non hanno effetto; profezie di inspirato vate; allorché poi l’ottengono» IV.24; «Sentendomi dunque di giorno in giorno anzi crescere la malinconia che scemare, e pensando che il moto machinale, e la divagazione inseparabile dal mutar luogo continuamente ed oggetti, mi dovrebbero giovare non poco, mi rimisi in viaggio alla volta di Spagna; gita che fin da prima mi era prefisso di fare, essendo quel paese quasi il solo dell’Europa che mi rimanesse da vedere» III.12; «l’entrare in Parigi pel sobborgo miserrimo di San Marcello, e il progredire poi quasi in un fetido fangoso sepolcro nel sobborgo di San Germano, dove andava ad albergo, mi serrò sí fortemente il cuore, ch’io non mi ricordo di aver provato in vita mia per cagione sí piccola una piú dolorosa impressione. Tanto affrettarmi, tanto anelare, tante pazze illusioni di accesa fantasia, per poi inabissarmi in quella fetente cloaca» III.5. 14 Esempi (seguiamo ancora Herczeg 1965): « m’insegnava suonar la chitarra, stromento che mi parea inspirare poesia» IV.1, «ed io, avuta la mia roba, immediatamente partii di Sarzana alla volta di Pisa, accresciuto il mio poetico patrimonio di quella Virginia di piú; soggetto che mi andava veramente a sangue» IV.4; «Ed ecco, che appena mi vi fui collocato cosí alla peggio per provarmici un mese, nacque tale accidente, che mi vi collocò e inchiodò per molti anni; accidente, per cui determinatomi per mia buona sorte ad espatriarmi per sempre, io venni fra quelle nuove spontanee ed auree catene ad acquistare davvero la ultima mia letteraria libertà» IV.5. 15 Altri esempi: «Del Tasso, che al carattere mio si sarebbe adattato assai meglio, io non ne sapeva neppure il nome» II.4, «e da questo ne nacque la compra» II.9, «dei suoi quadri non ne seppi nulla» III.1, «Io da quel rifiuto ne ritrassi ad un tempo» III.7, «dalle quali ne ridonda un certo ben essere» III.8, «dove chi non ha molta gioventù, salute, danari e pazienza, non ci 218 di brusca riprogrammazione sintattica, ben lontani dalla solenne magniloquenza che è stata imputata soprattutto alla seconda redazione: «in quell’anno stesso ’97 lessi e studiai Lucrezio e Plauto, e lessi il Terenzio, il quale per una bizzarra combinazione io mi trovava aver tradotto tutte le sei commedie a minuto, senza però averne mai letta una intera» IV.25. La vertiginosa inventiva lessicale è forse il carattere linguistico più noto della Vita di Alfieri (e, in generale, del suo stile poetico non men che prosaico): basterà qui osservare che lo spregiudicato rapporto con le strutture lessicali induce non solo all’uso intensivo delle risorse morfologiche dell’alterazione, della derivazione 16, o della parasintesi 17, ma anche alla neoformazione sotto specie di fusione di voci già esistenti in composti nuovi e spesso cadùchi (ad esempio scimiotigri IV.22, servipadroni IV.29, schiavi-democratizzata IV.26: tutti termini riferiti alla società francese rivoluzionaria), o di memorabili, e talvolta longeve iuncturae (da «universal caserma» III.8 a «chiacchiere gazzettarie» IV.10, da «vortice grammatichevole» IV.1 a «barbaria di gallicheria» IV.6): espedienti che lo stesso Alfieri giustifica con «l’amore della brevità assai più che con l’amor della novità» 18, cioè con un gusto per l’espressione condensata – e al tempo stesso smisurata – che ben si concilia con le strategie sintattiche di cui si è detto e con la dichiarata ammirazione per l’elegante brevità dei suoi modelli classici. La curiosità lessicale alfieriana, tuttavia, si muove anche in altre direzioni: ad esempio, dando cittadinanza, nella Vita, a un «fresco mazzetto di espressioni popolari di fonte non letteraria che vi fanno la prima apparizione» 19: termini e nessi di cui è talvolta dubbio se siano ricavati dall’uso dialettale piemontese o dalla fonte lessicale in assoluto prediletta, cioè il toscano contemporaneo. Quest’ultimo, del resto, lascia tracce diffuse nel testo dell’autobiografia, pur se almeno in parte diverse da quelle che sono può resistere» III.12; «di Siviglia me ne andò a genio il bel clima» III.12, «che allora me ne ritrovai averne a dovizia» III.13, «non la potei durare quella pepetua incessante tensione» IV.16. 16 Fondandomi sullo spoglio di De Stefanis Ciccone (in Alfieri 1997, p. 39), ricordo i formanti nominali -ata (con i neologismi berlinata e strionata), -essa (con il conio tragediessa), -eria (gallicheria, oltramontaneria e forme affini, su cui si tornerà), e gli aggettivali -esco (burattinesco, giovesco, serventesco, toscanesco ecc.). 17 Ancora a De Stefanis Ciccone, ibid., si deve una compiuta tassonomia di questi derivati: disasinirsi, disceltizzarsi, disfrancesarsi, disvassallarsi, incalessare, incavallarsi, inreticellato, inscheletrito, insperanzire, ecc. 18 Alfieri 1978, p. 164, cit. da Dardi 2003, p. 143. 19 Dardi 2003, p. 142, che così esemplifica: «‘bagnare il naso’, ‘rompersi le corna’, ‘dar di stomaco’, ‘prendere per la gola’, ‘ridere alle spalle’, ‘far cattivo sangue’, ‘sarà quel che sarà’, ‘tirare a campare’, ‘uscire dal guscio’, ‘venire al sodo’, ecc.». 219 state notate nell’epistolario degli anni Settanta e Ottanta, il cui tono tanto più familiare e colloquiale ne favoriva un’adozione ancor più ampia 20. Còlta da Alfieri come un giacimento vivo di felice espressività, la Toscana è per lui soprattutto la fonte di preziosi termini e di giunture, analoghe a quelle «belle parole che non hanno corrispettive né in fr[ancese] né in p[iemontese]» che egli annota in uno dei suoi «appunti di lingua» del manoscritto Alfieri 10: curiosità lessicali buone soprattutto per colmare lacune espressive e come tali ricercate per il loro potenziale letterario (anche se è probabile che, ben più che l’uso toscano “vivo”, sia la Crusca la fonte dei termini qui collezionati dal tragediografo 21). «Maschiezza, Femminezza, Sonno ineccitabile, Sveglievole», scrive in quell’appunto 22 – e quest’ultimo aggettivo richiama altre forme col medesimo suffisso impiegate nella Vita, spesso come apparenti neologismi (ad esempio musichevoli IV.1, grammatichevole IV.1). Taluni usi sintattici scopertamente toscaneggianti rilevabili in alcune lettere (come il pronome proclitico soggetto femminile, tipo «le sono immutabili» 23) sono dunque assenti, nella Vita, ove trovano spazio solo quelli ben accolti anche nella lingua letteraria (ad esempio la perifrasi con si in luogo della quarta persona: «si passava insieme di molte ore del dopo pranzo» IV.7: anche il nesso di molte per ‘molte’ è toscanamente connotato). Per il resto, si notano isolate tessere lessicali: aggettivi come briaco II.7, sostantivi come traveggole IV.25 e spedale IV.19 (col derivato spedalesco I.5) verbi come rimbambire III.1, IV.1 (con il derivato rimbambimento IV.19) e il più raro rimbambinare IV.31 (che si trova nella parte di mano del Tassi e potrebbe dunque esser frutto di una sua magari involontaria modifica), palleggiare II.6 (che l’Alfieri nota tra le voci toscane dei suoi «appunti di lingua» 24, accanto al corrispondente piemontese «balloté a la bala»); o ancora, la serie dei numerali rappresentata da du’ III.1, III.2, III.10 bis, IV.11, se’ II.2, venzei III.15, venzette IV.1, dugento II.2 a cui è dubbio se si debba aggiungere la forma mercordì IV.27 che occorre una volta nella parte di mano di Tassi (accanto a due esempi della meno connotata mercoledì III.11 bis) 25. Assimilabile a un prelievo lessicale è poi 20 Cfr. Franceschini 2003, pp. 71-79. Lo ipotizza da ultimo Marazzini 2008, p. 16. 22 Lo si legge in Alfieri 1983, p. 51. 23 Cfr. Franceschini 2003, p. 72. 24 Cfr. Alfieri 1983, p. 48. 25 Molte di queste forme naturalmente possono anche avere origine letteraria: ma venzei e venzette, in particolare, sono piuttosto rari anche negli scrittori toscani (solo venzei è attestato 21 220 l’impiego di punto con valore avverbiale («io non cresceva punto di statura» II.3) o aggettivale («non trovammo quasi punta neve» III.6) 26. Anche per le altre voci, comunque, si noterà l’addensamento lievemente maggiore nell’Epoca quarta in conseguenza della consuetudine acquisita con l’uso «parlabile» (com’egli lo definiva, memore forse di una definizione barettiana 27) da un Alfieri sempre più decisamente «intoscanito» 28. 3. Come lavorava l’Alfieri Sia l’esame delle correzioni presenti nei due manoscritti della Vita, sia un confronto tra il testo di quest’ultima e quello definitivo del ms. 24 mostrano come la revisione dell’opera abbia comportato un suo generale ampliamento, non solo per la progressiva aggiunta di segmenti narrativi inizialmente assenti, ma anche per un sistematico accrescimento del testo orinella LIZ: Giovanni di Pagolo Morelli e Alessandra Macinghi Strozzi) e non sono riportati nemmeno dalla Crusca I. 26 Altri esempi: «non mi verrebbero a ogni modo punto credute da altri» Intr.1; «io non mi ricordava più quasi punto di lui» I.2; «io non potea punto mangiare» I.3; «io non avea punto gridato» I.5; «non conosceva punto il cuore dell’uomo» II.1; «non incoraggì punto questa mia Musa nascente» II.5; «senza far punto difesa» II.6; «né mi capacitai punto della ragione che mi si dava di questo» II.8; «io, che quasi più punto non li intendeva» III.3; «non mi cagionò punto ribrezzo» III.3; «non mi alleggerì punto la noia» III.3; «pareva non gustar punto né intendere i partiti di mezzo» III.10; «non me n’era punto avvisto» III.10; «ma punto non titubava» III.10; «non mi ricordava più punto della mia ferituccia» III.10; «non s’accorgeva punto» III.15; «non già perché io la sapessi, né punto ci pretendessi» IV.1; «non mi atterriva punto» IV.2; «non rallentai punto lo studio» IV.3; «senza punto badare al come» IV.3; «non può più nuocer punto» IV.4; «cercai di non me ne ricordar punto» IV.5; «l’inverno, che in Siena non è punto piacevole» IV.5; «non mi feci punto introdurre» IV.5; «non dubitai punto» IV.5; «né mi piacevano punto» IV.6; «non sapendo allora quasi punto l’italiano» IV.6; «senza punto fargli perdere la possibile naturalezza» IV.7; «né mi curando più punto» IV.8; «quella di non punto vederla» IV.8; «non lo era punto» IV.0; «senza punto vederci» IV.0; «senza muovermi punto di casa» IV.10; «non mi costò quasi punto fatica» IV.12; «senza punto tergiversare» IV.13; «il re non mi parlò punto di questo» IV.13; «non mi scartai punto dalla strada mia» IV.13; «senza punto scemarmene la memoria» IV.14; «senza aver quasi punto febbre» IV.17; «non avendo punto più saputo» IV.21; «non intendendo allora, come dissi, punto il greco» IV.26; «senza più punto curare per così dire un pericolo» IV.29. Si ha poi, in un caso, per punto: «non mi veniva per punto a noia» III.3, e inoltre la locuzione «né punto né poco» III.10, III.12. 27 Dei dialetti fiorentino e toscano come di varietà «più eleganti e più scrivibili» parla la Diceria di Aristarco Scannabue (Baretti 1932, p. 215). 28 Lo osservava già Finoli 1950, p. 169. 221 ginario. Non che manchino del tutto, nella revisione del ms. 13 e nel passaggio dall’una all’altra redazione, i casi di taglio, o di condensazione: ma si tratta di esempi ben più rari rispetto a quelli di segno opposto, rilevabili sia nel confronto della materia narrativa, sia nell’insieme dei commenti, delle riflessioni e delle annotazioni psicologiche, sia nelle stesse scelte sintattiche e lessicali. In altre parole, a tutti i livelli della struttura testuale l’elaborazione della Vita si presenta tendenzialmente come un’operazione additiva, il che appare interessante soprattutto per due ragioni, l’una interna alla cultura dell’autore, l’altra più generale, relativa alla concezione stessa dell’opera di revisione. Nel già citato frammento L’uom propone, e Dio dispone, Alfieri ricorre più volte alla classica immagine della lima per descrivere il processo di elaborazione delle sue tragedie (di una vera e propria «poetica della lima» ha discorso Guido Santato per le revisioni dei testi poetici alfieriani nel corso degli anni Ottanta 29); e ancora nel Rendimento di conti da darsi al tribunal d’Apollo – altro “annale” risalente al 1802 – egli parla della correzione della Vita iniziata nel 1798 come di una «riduzione al pulito», formula nella quale sembra implicita una semplificazione o un ridimensionamento. Nella stessa Vita, Alfieri dedica un excursus al processo compositivo delle sue tragedie, descrivendo le fasi redazionali che ne scandiscono l’ideazione, la primitiva stesura in prosa e quella successiva in versi. Il passo è motivato dall’intento di spiegare il significato dei termini abitualmente impiegati da Alfieri per rappresentare tale processo (ideare, stendere, verseggiare, IV.1): anche qui, la fase finale del lavoro è delineata come un «limare, levare, mutare», insomma un ridurre all’ordine sottraendo il troppo e il vano. Ma tali osservazioni riguardano il passaggio dalla prosa al verso (cioè dalla primitiva e stesura delle tragedie alla loro «messa in forma» metrica) ed eventualmente l’ulteriore affinamento della materia già messa in poesia (“metrificata”, verrebbe da dire). Se da simili dichiarazioni si passa alla verifica del lavorìo alfieriano sulla prosa, e in particolare sull’autobiografia, si constata appunto una tendenza piuttosto amplificatoria che riduttiva. Nel corso del Novecento, lettori e critici interessati ad una valutazione estetica della Vita hanno spesso colto tale propensione, ma raramente l’hanno riconosciuta come elemento tipico e caratterizzante del modus operandi alfieriano; piuttosto, l’hanno ricondotta a una volontà di approfondimento psicologico e alla ricerca 29 222 Cfr. Santato 1994, p. 47. d’una «maggior ricchezza di tratti e di colore»: con questa formula, il più attento esaminatore delle due redazioni, Giuseppe Guido Ferrero, tentava nel 1959 una conciliazione tra due contrastanti atteggiamenti critici propri del decennio precedente. A un estremo, l’impressione che l’ultima stesura rappresentasse una concessione (o meglio, una capitolazione) al «tono aulico e arcaizzante», cioè la definitiva sconfitta di «quella naturalezza e familiarità che s’era primamente proposta» (così Adolfo Jenni), all’altro la posizione di Fubini, secondo il quale la versione finale segnerebbe un «raggiunto equilibrio» fra spinte contrastanti dello stile alfieriano 30. Pur apparendo meno preoccupato di valutare che di descrivere l’operazione revisoria, anche Ferrero subordinò di fatto la ricostruzione dei criteri seguiti dall’autore a quella della sua mutata sensibilità, ossia della sua maturazione letteraria: «le aggiunte più notevoli sono suggerite da un accresciuto interesse alla rappresentazione dell’uomo ne’ suoi aspetti più umili e più quotidiani; e da una nuova sensibilità del paesaggio libero e aperto e agli aspetti lieti e accoglienti del mondo esterno; mentre i temi che più si avvertono all’inizio – la fanciullesca euforia della prima libertà e il gusto della corsa – sono già sostanzialmente espressi nel testo primitivo» 31. Rimane tuttavia l’impressione che anche in questo caso l’esame dell’operato alfieriano si fondi su una preventiva volontà di giustificazione: del resto, il limite di tante letture stilistiche è, forse, dar l’impressione di ricavare dalla fenomenologia formale di un testo deduzioni che non hanno i caratteri dell’obiettiva necessità, bensì quelli di una comoda reversibilità. Così, nel caso della Vita alfieriana appare oggi forse più interessante osservare la correlazione tra amplificatio testuale e anomalismo linguistico dell’autore che non chiedersi se la revisione dell’opera vada interpretata come un deterioramento del testo originario o, al contrario, come una miglioria. Il carattere di cui discorriamo si manifesta appieno già nelle correzioni del manoscritto 13, nel quale le aggiunte di segmenti testuali di varia lunghezza scritte nella colonna lasciata originariamente in bianco sono di gran lunga più frequenti della pura e semplice cassazione di parti di testo. In alcuni casi, il manoscritto è addirittura interfoliato da cartigli contenenti porzioni di testo di varia estensione. D’altra parte, la cancellazione di parole o di sequenze è generalmente funzionale qui a un loro rimpiazzo con segmenti più estesi. Ad esempio: nell’Introduzione, a c. 134v, l’espressione «non ne rispondo per ora» (riferita a un’ipotetica «quinta parte» dell’ope30 31 Cfr. rispettivamente Jenni 1952 e Fubini 1953. Ferrero 1959, p. 398. 223 ra, cioè a un’Epoca quinta, poi mai scritta), diviene: «sono quasi certo che di soverchio darò nelle chiacchiere», segmento più esteso e più elaborato; poche righe oltre, «non mi propongo d’esser breve» è sostituito con: «non mi lusingo quanto il dovrei, e il vorrei», e procedendo ancora un poco, «non intendo perciò di restringermi a quelle sole particolarità» diviene: «non intendo perciò di allungarmi visibilmente in ogni minuzia; ma di estendermi su quelle sole particolarità». E così via: ampia è la casistica delle riformulazioni amplificatorie 32, o dell’inserzione nel testo originario di nuovi segmenti testuali 33; all’inizio del primo capitolo dell’Epoca prima, una nota marginale fornisce istruzioni per un ulteriore incremento del testo: «E qui, o altrove, s’inseriscano le tre ragioni per cui godo d’esser nato italiano, benché non libero, nobile, benché nulla prezzi la libertà, e agiato, benché si val meno; o pare così». Nota che prelude all’intera riscrittura dell’esordio di quel capitolo, la cui nuova forma viene riportata in uno dei foglietti avventizi di cui si è detto 34. Passando dalle varianti interne del ms. 13 a quelle che intervengono nel passaggio dalla prima alla seconda redazione, la tipologia della revisione additiva si arricchisce ulteriormente. Un confronto puntuale e sistematico tra le due redazioni è, in generale, impossibile, tanto è radicale la ri32 Ad esempio: «credo all’agricoltura e a’ suoi beni» sostituito con «credo nell’attendere all’amministrazion de’ suoi beni» (c. 134v); «i semi di vizi e virtù» sostituito con «i semi dei vizi e delle virtù» (c. 139v); «delle nostre virtù e vizj» sostituito con «delle nostre facoltà intellettuali, e dei nostri vizj, e virtù» (c. 147v); «spendeva Andrea per me» sostituito con «e fin allora avea speso sempre Andrea per me» (c. 144v). In alcuni casi, le varianti “amplificatorie” sono in apparenza rifiutate, perché non sono accompagnate dalla cancellazione della versione precedente; ma sospetto che possa trattarsi solo di una distrazione alfieriana: così è, ad esempio, per la sostituzione di «senza avere idea nessuna della morte» con «senza avere idea nessuna di quel che fosse la morte» (c. 136), che Fassò considera variante cadùca: che tale non sia appare confermato dall’accoglimento nella seconda redazione: «senza avere idea nessuna di quello che fosse la morte» I.2. 33 Ad esempio (si riportano in corsivo le parti aggiunte): «cadetto di una casa dello stesso nome della mia, ma d’altro ramo; il quale poi con tempo per la morte del fratello divenne ricco erede di quella» (c. 135r); «eramo dalla casa paterna passati ad abitare con lei» (c. 135v); «e con rispetto e amore quella di padre» (c. 136r); «io sono per alcuni giorni rinchiuso in camera» (c. 136v); «soluzione intera del dubbio» (c. 136v); «Con questo fratello dunque, ora per metà ruzzando insieme con esso, ora per metà disputando» (c. 138r); «la pelle come carbone mi cadde sfogliandosi più volte per tutta la fronte» (c. 142r); totalmente aggiunto a c. 142r: «fuorché la mia Nonna materna, e un cugino vedovo, il quale avea un sol figlio, da cui andava alcune volte a pranzo; ma essendoci un giorno aspramente presi a parole col ragazzo che era quasi di mia età, e venuti per fino al cacciare le spadine, fummo separati, e non ci tornai più per degli anni». 34 Cfr. l’edizione Fassò (Alfieri 1951a, I, p. 13). 224 formulazione che interviene nel passaggio. Sui criteri di tale riscrittura è lo stesso autore ad informare indirettamente in un passo dell’Epoca quarta dedicato al suo tirocinio linguistico ed al rapporto con gli autori dei primi secoli, cioè con gli exempla della tradizione puristica. La revisione dei proprî testi alla luce di quei modelli viene dunque presentata appunto come un rifacimento, articolato nelle operazioni dello spensare e del ripensare (IV.1). Il processo è simile ad un’auto-traduzione, svolta secondo gli stessi principi seguiti per le versioni dei classici latini del periodo pisano, cioè della Poetica di Orazio, tradotta «in prosa con chiarezza e semplicità per invasarmi di que’ suoi veridici e ingegnosi precetti»; e di Sallustio, riscritto inseguendone «la brevità ed eleganza» 35. Difficilmente, insomma, il materiale interpositus che va postulato fra il testo del ms. 13 e quello del ms. 24 consiste in una semplice trascrizione e correzione. Spesso si ha l’impressione che Alfieri riscriva interi brani conservando solo il senso generale del testo originario, ma mutando completamente la forma. Restano, tuttavia, ampie zone nelle quali anche l’impianto testuale complessivo è mantenuto, ed è riconoscibile la lezione originaria; in questi casi, le due redazioni possono essere confrontate da vicino, come accade nelle pagine relative all’educazione in Accademia: Ms. 13 Io mi tirava dunque innanzi in quella scoluccia, asino fra gli asini, sotto un asino. Vi si spiegava male il Nipote, il divo 36, alcune egloghe di Virgilio: vi si facea certi temi sguajati, e miserissimi; che in altre scuole ben fatte, quella sarebbe stata una pessima quarta: eppure si tirava innanzi così. Non era io l’ultimo fra gli scuolari; l’emulazione mi serviva finché avea superato, o agguagliato quel giovine che passava per primo; ma se perveniva poi primo, subito mi rintiepidiva, e ricadea nel torpore. In fatti nulla era più nojoso che sì fatti studj in tal guisa diretti. Si traducevan le vite di Cornelio Nipote; ma non sapevamo affatto chi fossero quegli uomini di cui si traduceva la vita; nè dove fossero i lor paesi, nè in quali tempi, nè in quali governi vivessero; tutte le idee losche, indigeste e confuse; nessuno scopo in chi insegnava, nessun allettamento in 35 Cfr. in proposito Santato 2002, pp. 742 s. Le traduzioni sallustiane sono state pubblicate da Patrizia Pellizzari (Alfieri 2004). 36 Il termine è di difficile lettura nel ms. Osserva il Fassò: «questa è una delle tre o quattro parole dell’autografo che non m’è riuscito di leggere con sicurezza. Potrebbe anche essere “vivo”, che però non darebbe senso. Il “divo” può alludere alla grande autorità che Cornelio Nepote aveva per i latinucci, o forse a Cesare. Sull’o di “divo” è segnata una misteriosa crocetta, alla quale nulla risponde in margine. Probabilmente essa dice soltanto che quando l’Alfieri riaperse a distanza di anni il suo manoscritto, si trovò anche lui imbarazzato a leggere la parola». Suppongo in effetti che possa trattarsi del Divo Giulio (Cesare). 225 chi imparava; eramo in somma vergognosissimi perdigiorni; e nessun ci vegliava, o chi dovea farlo nulla intendeva; ed ecco come si tradisce la gioventù. Ms. 24 Tirandomi così innanzi in quella scoluccia, asino, fra asini, e sotto un asino, io vi spiegava il Cornelio Nipote, alcune egloghe di Virgilio, e simili; vi si facevano certi temi sguajati e sciocchissimi; talché in ogni altro collegio di scuole ben dirette, quella sarebbe stata al più più una pessima Quarta. Io non era mai l’ultimo fra i compagni; l’emulazione mi spronava finché avessi o superato o agguagliato quel giovine che passava per il primo; ma pervenuto poi io al primato, tosto mi rintiepidiva e cadea nel torpore. Ed era io forse scusabile in quanto nulla poteva agguagliarsi alla noia e insipidità di così fatti studj. Si traducevano le Vite di Conelio Nipote, ma nessuno di noi, e forse neppure il maestro, sapeva chi si fossero stati quegli Uomini di cui si traducevan le vite, nè dove fossero i loro paesi, nè in quali tempi, nè in quali governi vivessero, nè cosa si fosse un governo qualunque. Tutte le idee erano o circoscritte, o false, o confuse; nessuno scopo in chi insegnava; nessunissimo allettamento in chi imparava. Eramo insomma dei vergognosissimi perdigiorni, non c’invigilando nessuno; o chi lo faceva, nulla intendendovi. Ed ecco in qual modo si viene a tradire senza rimedio la gioventù. Non si osserva alcuna aggiunta sostanziale – alcuna, cioè, delle molte osservazioni psicologiche e delle descrizioni che vengono inserite nel ms. 24 e che Ferrero leggeva come segni dell’aumentata sensibilità stilistica dell’autore. Si notano invece, accanto a sporadici interventi di riduzione (ad esempio, l’eliminazione del segmento: «eppure si tirava innanzi così», che ripete la stessa formula – di sapore colloquiale – impiegata all’inizio del brano), varie riformulazioni che ricorrono a giunture più complesse o semplicemente ad espressioni che espandono (non necessariamente chiarendola) la lezione precedente. Si va dall’inserzione di segmenti dal minimo contenuto informativo («e simili») alla sostituzione di connettivi, generici (il polivalente «che») o specifici («talché»); è raro che tali interventi comportino una semplificazione (da «ricadea» a «cadea», per evitare l’accostamento con «rintiepidiva»). Più spesso esse amplificano l’espressione in una forma che, se non è «ampollosa», come pretendeva Adolfo Jenni, è comunque più estesa. Così è per il passaggo da «in fatti nulla era più nojoso che sì fatti studj in tal guisa diretti» a «ed era io forse scusabile in quanto nulla poteva agguagliarsi alla noia e insipidità di così fatti studj». La tendenza all’accumulo non si manifesta solo nell’incremento di particolari, magari minuti (da «non sapevamo affatto chi fossero quegli uomini» a «nessuno di noi, e forse neppure il maestro, sapeva chi si fossero stati quegli Uomini»), ma persino nella introduzione di varianti minime e sostan226 zialmente adiafore («eramo in somma vergognosissimi perdigiorni» a «eramo insomma dei vergognosissimi perdigiorni»), che di fatto incrementano la massa testuale. Lo stesso vale, del resto, per il passaggio dall’una all’altra versione dell’amara sentenza finale del brano citato. Numerosi altri esempi simili documentano una tendenza costante all’aggiunta di segmenti testuali anche minimi 37. Limitandosi a uno spoglio delle prime due Epoche, non è difficile raccogliere un buon numero di casi di sostituzione di locuzioni semplici – pur non necessariamente più chiare e dirette – con locuzioni più complesse 38, o di termini singoli con perifrasi 39. Non sempre tali mutamenti comportano un’accentuazione del- 37 Ad esempio: da «un cassettone» a «un antico cassettone» I.2; da «ne allegherò due o tre che ritrarranno» a «ne allegherò due o tre di cui mi ricordo benissimo e che ritrarranno» I.4; da «per darlo alla mia sorella» a «per darlo poi alla mia sorella» ibid.; da «di vedermi un po’ ladro» a «di vedermi riuscire un po’ ladro» ibid.; da «confessione» a «confessione sprirituale» ibid.; da «nel desiderio di tutte queste cose» a «nel desiderio vivissimo di tutte queste cose» II.1; da «cose da me lasciate» a «cose da me abbandonate il giorno precedente» ibid.; da «primo d’Agosto 1758» a «primo d’Agosto dell’anno 1758) ibid.; da «non conosceva il cuore dell’uomo» a «non conosceva punto il cuore dell’uomo» ibid.; da «fui assunto alla Terza» a «fui assunto alla classe di Terza» II.1; da «quest’anno di rettorica» a «quell’anno di pretesa rettorica» II.4; da «al pallone» a «al pallon grosso» ibid.; da «in quegli spessi intervalli» a «in quegli spessi, e lunghi intervalli» II.4; da «fra queste insipide vicende» a «fra queste puerili insipide vicende» II.4; da «cominciai allora a svilupparmi» a «cominciai allora a svilupparmi ed a crescere» II.5; da «che tanto opera su i più saldi petti» a «che tanto opera anco su i più saldi petti» ibid., da «totale svogliatezza di ogni studio» a «totale svogliatezza e nausea per quei miei soliti studj» ibid., da «burlandosene, me la disseccò da radice» a «burlandosene mi diseccò tosto quella mia poca vena fin da radice» ibid. 38 Ad esempio: da «il pensiero di morire» a «il pensiero di voler morire» I.3; da «sentitomi provocare il vomito» a «sentendomi provocato a dare di stomaco» ibid.; da «e temendo di essere sgridato più di ogni cosa» a «rattenuto più che da nessun’altra cosa dal timore d’essere sgridato» I.4; da «non ricordo il perché» a «(né mi ricordo più del perché)» ibid.; da «ci era» a «si trovavano» ibid.; da «quaranta persone per volta» a «quaranta persone radunate nella sua vastità» ibid.; da «per più mesi» a «per più di tre mesi» ibid.; da «ho cercato» a «sono andato cercando» ibid.; da «ne trovai due» a «due principalmente ne trovai» ibid.; da «doversi portare» a «doversi necessariamente affissare» ibid.; da «di nuovo» a «di bel nuovo» ibid.; da «un Andrea alessandrino» a «un certo Andrea alessandrino» I.5; da «un buon soldato beve così» a «un buon soldato non doveva bere altrimente» ibid.; da «mi crebbe» a «mi si accrebbe» II.2; da «non lo dissi a persona» a «non lo dissi a chi che si fosse» II.4; da «alle donzelle» a «al facile e tenero cuore delle donzelle» II.5; da «per il vero» a «per amor del vero» ibid.; da «me ne invogliai, e la stava aspettando» a «me ne invogliai molto dopo averla veduta; e sempre la stava aspettando, parendomi di ben meritarla» ibid.; da «mi piaceano di più» a «mi facevano maggior forza e diletto» II.6. 39 Ad esempio: da incognito a «ignoto interamente» I.3; da sentii a «mi afflisse» I.4; da credeva a «mi credeva» ibid.; da dipingermi a «andarmi dipingendo» I.5; da «pervenuto poi io 227 la patina retorica o un innalzamento del registro, come pure avviene in molti dei casi notati già da Jenni 40. Ad un’attenuazione, se non ad un’abbassamento di tono, rimandano del resto molte altre varianti; ad esempio: orbità mutato in privazione I.1, tosto mutato in immediatamente I.4, disputando sostituito con bisticciando I.5 41, o ancora la sequenza «mi allargò dunque l’animo» mutata in «mi innalzò dunque molto le corna» II.7. E non mancano casi d’inserzione ex nihilo di tratti colloquiali, come nel caso della frase che chiude, nel ms. 24, il capitolo terzo dell’Epoca seconda: «Ma è tempo, ch’io ritorni a bomba». Né gl’interventi tra la prima e la seconda redazione introducono sempre forme più stilisticamente caratterizzate, come accade per gli alterati nominali e aggettivali caratteristici dello stile alfieriano, di cui pure è stato notato l’incremento nel passaggio al testo definitivo: così, se ad esempio ignorantissimo diviene nel ms. 24 ignorantuccio I.2, avidamente passa ad avidissimamente I.3 42, d’altra parte nello stesso capitolo digressioncella è sostituito con un più neutro digressione, e noviziotti diviene, più banalmente, novizietti; e ancora, «versacci latini» scade a «versi latini» II.4. Ulteriore indizio dell’asistematicità, o se si preferisce della difficile riducibilità della strategia alfieriana ad un preciso e coerente intento stilistico. Non si osserva poi se non discontinuamente un fenomeno che pure Jenni rilevava come caratteristico del passaggio fra le due redazioni, cioè l’aumento di inversioni topologiche di sapore letterario (ad esempio: «Non mai febbre alcuna d’amore mi avea con tanta impetuosità assalito» primo» a «pervenuto poi io al primato» II.2; da come a «in qual modo» ibid., da tradisce a «viene a tradire» ibid.; da afflissero a «andarono travagliando» ibid.; da essendo a «trovandosi essere» II.4; da otteneva a «andava dunque ottenendo» II.5; da andai a «mi toccò di andare» ibid. Di contro si ha «rendevano più leggiero» mutato in alleggerivano I.5, «ebbi licenza» mutato in ottenni II.5, «mi fu data» mutato in ebbi II.6. 40 Ad esempio: da «da un pezzo» a «da gran tempo» I.2; da «affratellato» a «addimesticato» I.4 (si parla peraltro della sorella); da «sempre ho avuto un gran debole» a «sempre sono stato assai propenso» II.2; da «restammo con un piede di naso» a «restammo orbati d’ogni poetica guida» II.3, da «a passo d’asino» a «a passo a passo» II.5; da «asinità nella nota» a «ignoranza invincibile nelle note musicali» II.6. 41 Altri esempi: caduto è mutato in cascato I.5, con evidente riproduzione del termine effettivamente impiegato da don Ivaldi; nomarsi diviene chiamarla II.1. 42 Altri esempi: da vicina a vicinissima I.4; da forziere a forzieretto ibid.; da «alzare il capo» ad «alzare un pocolino il capo» I.5; da inutile a inutilissima ibid.; da libro a libruccio II.2; da belle a belline II.4; da cappe a mantelloni ibid.; da saporitamente a saporitissimamente ibid.; da pranzo a pranzuccio II.5, da immensa a grandissima II.6. Diverso, ovviamente, il caso della sostituzione di un miserissimi presente nel ms. 13 con sciocchissimi II.2. 228 III.15 43). Non mancano, infatti, vari controesempi: «spesso in un dirottissimo pianto prorompea» del ms. 13 diventa ad esempio, con recupero dell’ordo naturalis, «spesso prorompeva in un dirottissimo pianto» nel capitolo secondo dell’Epoca seconda; e poco oltre, nel capitolo successivo, «di ogni altra cosa quasi digiuno» è sostituito con «digiuno quasi d’ogni altra cosa», con analoga semplificazione 44. L’ultima fase dell’attività revisoria è documentata dalle correzioni presenti nel ms. 24, di cui Pär Larson ha fornito un’ampia casistica nella Nota al testo della sua edizione. Si tratta di interventi generalmente minuti, ma distribuiti omogeneamente lungo tutto il testo. Ancora una volta si nota spesso l’inserzione di segmenti testuali nuovi, che tuttavia sono così brevi da poter essere riportati in interrigo: mancano, insomma, le aggiunte più cospicue del tipo di quelle documentate sui margini e nei foglietti inseriti del cod. 13. Compaiono, invece, ripensamenti di diversa natura, e persino qualche variante riportata senza la cassazione del tratto corrispondente, come accade in un testo ancora fluido: macerie III.12 viene «sottolineata ma non cancellata», con aggiunta nell’interlinea del termine toscano e mediano muriccie. Se si restringe il campo alle varianti che modificano la veste fonomorfologica del testo, si osserva che molte di esse adeguano gli allotropi isolati con le forme usate normalmente dall’autore (ad esempio: femina del ms. 13 è mutato nel ms. 24 in femmina I.1, I.5, allineandolo alle altre tre occorrenze del termine nel medesimo capitolo iniziale, e lo stesso accade con comento, forma usata in II.2 nel ms. 13 sostituita nel ms. 24 da commento, che è anche in IV.10 e IV.27), ma non sistematicamente: così, a faceva del ms. 13 è preferito facea I.5 nel ms. 24, ma la mutazione opposta si rileva nel capitolo quarto dell’Epoca seconda, e le due forme nella redazione definitiva continuano comunque a convivere con leggera prevalenza di quel43 Altri esempi, indicati già da Jenni 1952: «Ciò fu una mera intolleranza di inflessibil carattere» III.9, «Quell’asiatico accampamento di allineate trabacche» III.9, «Quell’infame mestier militare, infamissima e sola base dell’autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti» III.8. Osserva in proposito Fubini 1952, p. 47: «Tutt’altro che meccanico il suo modo di procedere: diremmo anzi che quelle forme letterarie egli le riprenda per ricrearle e rinnovarle. Si pensi a quei participi preposti al sostantivo, citati dallo Jenni come un caso estremo di un abito linguistico per lui riprovevole (...), e si vedrà come attraverso la disciplina classica l’Alfieri giunga a qualcuna delle sue più caratteristiche invenzioni verbali. Quei modi infatti non restano in lui sterili riecheggiamenti, ma si ravvivano e producono essi stessi o con la loro insistenza o con nuovi sviluppi espressioni inattese e singolarmente vigorose», dove l’atteggiamento teleologicamente giustificatorio appare palese. 44 Altri esempi: da «nulla intendeva» a «non intendeva nulla» II.4. 229 la con -v- (12 a 22); di contro, in tre occasioni avea del ms. 13 diviene aveva nel ms. 24 (I.5, II.1, II.7), ma anche in questo caso l’alternanza permane sostanzialmente invariata. Nello stesso ms. 24, poi, la correzione di picciola con piccola IV.12 non può dirsi uniformante, visto che i due allotropi convivono, seppure con prevalenza di quello qui preferito. E quanto alla morfologia: in un caso la prima persona pensava usata nel ms. 13 diventa pensavo I.3 nel ms. 24, ma in nessun’altra circostanza l’autore interviene sulla libera oscillazione delle due soluzioni; a intera del ms. 13 subentra intiera I.4, ma la stessa sostituzione non avviene nelle decine di altre occorrenze dello stesso aggettivo, che per il resto si presenta sempre non dittongato; in un caso il clitico il con valore di oggetto diretto («il comportasse») è sostituito con lo («lo comportasse», nel capitolo secondo dell’Epoca seconda), ma lo stesso non accade in altri diciotto casi 45. Come si è accennato, può essere utile tentar di instaurare un nesso fra la tendenza correttoria additiva e al tempo stesso disordinata di cui si è detto e il carattere anomalistico, fin nei più minuti caratteri linguistici, della prosa alfieriana. La tendenza correttoria «in crescere» e la scarsa o nulla preoccupazione per l’uniformità stilistica e linguistica del testo sono caratteri precisamente opposti a quelli che si ritrovano in altri grandi autori italiani precedenti (il caso di Ariosto è stato reso paradigmatico da una memorabile istruttoria continiana 46) e successivi (l’esempio di Manzoni riesce pressoché ovvio). Autori contemporaneamente selettivi nel processo di revisione (cioè tendenzialmente portati a ridurre la massa testuale “limandola” e semplificandola) e rigidamente analogisti sul piano linguistico (cioè ossequenti ad un criterio di uniformazione, che riduce al massimo lo spazio di libera variazione allotropica e condiziona la stessa revisione stilistica). Si tratta di un carattere che giusto nella prosa alfieriana trova una delle sue manifestazioni più compiute: anche precisamente nella Vita, le cui disomogeneità formali potrebbero ricondursi al fatto che l’opera è rimasta manoscritta, ma che trovano altresì riscontro anche nei lavori pubblicati in vita dall’Alfieri. Il metodo di lavoro alfieriano nella revisione del testo della Vita è analogo a quello che Guido Santato ha documentato per l’elaborazione stilistica dei trattati maggiori, come la Tirannide, Del Principe e delle Lettere, la Virtù sconosciuta. Anche in quegli scritti l’autore procede sistematicamente a «vistosi ampliamenti» della materia, facendosi condurre da una 45 46 230 Si vedano le concordanze di Larson (Alfieri 1997, p. 323). Cfr. Contini 1937. «linea guida ... rappresentata dal rafforzamento del tono e della vis polemica» 47. Il procedere dell’«amplificatio alfieriana» risponde anzi ad una vera e propria «estetica dell’intensificazione espressiva» 48 in cui si avverte l’influenza del Sublime di Pseudo-Longino, opera cardinale dell’anomalismo antico, portatrice di un modello opposto a quello di una visione classica fondata sulla selezione e sulla razionale semplificazione delle risorse stilistiche. Se tali sembrano essere i principi informatori dell’elaborazione alfieriana nell’ambito della prosa, la composizione delle opere in versi mostra un aspetto almeno parzialmente diverso, che dipenderà dalla coerente applicazione, in quegli scritti, del labor limae professato nelle dichiarazioni che si citavano all’inizio: nelle tragedie e nelle rime, il lavorìo sul metro prevale sulla tendenza additiva, pur non sopprimendo una continua propensione (o in un certo senso: tentazione) all’amplificatio; in particolare nei componimenti lirici, la «ricerca dello stile» documentata a suo tempo da Vittore Branca si concreta in una tensione verso il movimento epigrammatico che spesso comporta uno sforzo di concentrazione, e che dunque rappresenta una strategia alternativa e complementare nel rapporto dell’autore col suo testo 49. 4. La vicenda linguistica della «Vita» alfieriana La centralità della riflessione linguistica nell’autobiografia alfieriana è così manifesta da costituire un saldo filo conduttore dell’intera Vita, favorendo una lettura del percorso intellettuale dell’autore come un processo di affrancamento da una cultura «anfibia» – quella piemontese del medio Settecento, sospesa tra latenze dialettali, sudditanza culturale al francese e uso marginale e negligente dell’italiano – e di corrispondente conquista di un orgoglioso monolinguismo italiano, nutrito sia delle ovvie suggestioni letterarie, sia di un puntuale ossequio alla Toscana contemporanea, palestra della «italiana e grammaticale esattezza» di cui parla Contini a proposito della «linea piemontese» iniziata giusto dall’Alfieri e da Galeani Na47 Santato 1994, p. 51. Ibid., rispettivamente pp. 49 e 10. Caso tipico è il trattato Del principe e delle lettere, nel quale «l’aspetto più caratterizzante della revisione (...) è costituito, più che dall’elaborazione stilistica, da un’altra componente del rifacimento alfieriano, ben più importante nell’economia complessiva dell’opera: l’ampliamento strutturale» (p. 154). 49 Cfr. Branca 1979, in particolare pp. 69-82. 48 231 pione 50. «Sfrancesizzazione» e «spiemontizzazione» si traducono in una pertinace acquisizione del toscano, che per l’Astese, come ha osservato Gian Luigi Beccaria, «non è la nuova lingua democratica e popolare dei romantici, ma la lingua delle lettere, quella che si parla là dove riposano le ceneri vere o ideali dei Dante e dei Petrarca, degli Ariosto o dei Tasso» 51. Quanto di reale e quanto di aposterioristicamente costruito vi sia nella presentazione autobiografica di questo percorso è difficile stabilire con certezza. Quel che è sicuro, è che vari aggiustamenti intervenuti fra la redazione del ms. 13 e quella del ms. 24 documentano una studiata accentuazione del contrasto tra la fase anteriore e quella successiva alla conversione linguistica, cioè una decisa enfatizzazione dell’ignoranza dell’italiano e della trascuratezza nella lettura di testi della tradizione nazionale, e reciprocamente una intensificazione dell’«ingolfamento» nella lingua e nella cultura francesi durante la giovinezza 52. Pare assodato che la cultura linguistica italiana del giovane Alfieri fosse superiore a quella che egli cerca di accreditare nella Vita, e che la stessa istruzione ricevuta a Torino nell’Accademia dovesse avere qualità e apertura maggiori di quanto appare nell’autobiografia 53. Già in tali deformazioni, tuttavia, si colgono i segni di un’architettura ideologica e letteraria più forte di qualsiasi altra Vita del secolo precedente, carattere che spesso si interseca con l’estremizzazione o la stravolta rivisitazione di una lunga serie di motivi tipici delle autobiografie anteriori. La stessa enfasi posta sullo sradicamento linguistico giovanile viene apertamente denunciata come un argomento a favore dell’eroico merito di chi da quell’abisso di abiezione ha saputo risollevarsi verso le vette sublimi del «bello e del vero» (cioè del toscano): «onde, se io pure sarò potuto riuscire a scrivere correttamente, puramente, e con sapore di toscanità (senza però ricercarla con affettazione e indiscrezione), ne dovrò riportar doppia lode, attesi gli ostacoli; e se riuscito non ci sono, ne meriterò ampia scusa» IV.6. Nessun autobiografo del secolo precedente aveva forse mai esibito con tanta ingenua franchezza la possibile funzione autoesaltatoria di un topos pur così ricorrente. Il tema della conquista della lingua, ossia della «conversione» all’italiano, non è, nell’Alfieri, esclusivo della Vita, essendo cruciale – pur in diver50 51 52 53 255. 232 Cfr. Contini 1947, p. 564. Cfr. la prefazione ad Alfieri 1983, p. 12. Tali contraddizioni sono state rilevate da Porcu 1976, pp. 249-54. Sono persuasive, a tal proposito, alcune delle considerazioni dello stesso Porcu 1976, p. se modulazioni – già negli scritti precedenti. Non solo negli sparsi Appunti di lingua in cui egli, dai tardi anni Settanta, aduna materiale lessicale toscano accostandolo (o spesso contrapponendolo) a quello dialettale e francese a lui familiare; bensì anche nei Giornali che con varie soluzioni di continuità egli elabora a partire almeno dalla metà di quel decennio. Tali giornali, al pari delle «letteruzze» risalenti agli anni compresi fra il ’67 e il ’71, e a tutti gli scritti composti durante il Grand tour, come lo stesso Alfieri noterà stizzito (III.1) sono scritti in francese. Nella primavera del 1777 egli riprende la scrittura dei suoi diarii dopo una delle consuete interruzioni motivando esplicitamente il passaggio all’italiano con una resipiscenza linguistico-stilistica, ma alludendo implicitamente anche a precedenti tentativi di «esprimersi in toscano»: Questo salutare esame di me stesso interrotto da più di due anni, in parte perché la difficoltà d’esprimermi in toscano era somma, e la natural ripugnanza a sparlar di sé non minore, mi si para di bel nuovo innanzi come efficace mezzo di correggermi un cotal poco, e di formarmi ad un tempo istesso lo stile. Ripigliando adunque secondo l’usato modo, dico che: questa mane appena svegliato tosto ricorsi col pensiere alla fama letteraria, oggetto costante d’ogni mio desiderio: e perciò benché non volenteroso di leggere, diedi pur mano a Messer Ariosto e moltissime ottave ne lessi sperando di adeguarlo un giorno per la felicità, chiarezza ed eleganza, e sorpassarlo forse per la brevità, invenzione e forza 54. Nel modo stesso in cui Alfieri descrive il proprio percorso di avvicinamento all’italiano – che è stato paragonato ad un «itinerario esemplare di predestinazione alla letteratura, (...) in cui la Grazia agisce all’insaputa e contro la volontà del peccatore» 55 –, egli ipostatizza dunque, e sublima letterariamente, un tema già ampiamente circolante nella cultura del suo secolo e in particolare in quella della sua regione. Tuttavia, quello che negli altri autori settecenteschi era il portato di particolari condizioni culturali e sociali (un sistema educativo che marginalizzava l’italiano in favore del latino, l’inesistenza o almeno l’evanescenza di solidi istituti culturali che garantissero un’adeguata educazione letteraria, le difficoltà collegate con l’assenza di uno standard linguistico per la prosa) diviene nell’Alfieri il fronte di una battaglia individuale di decisiva importanza per i destini personali dell’autore. Il corpo a corpo da lui in54 55 Cfr. Alfieri 1951a, II, p. 239. L’annotazione è datata «Giovedì, li 17 aprile». Così Dardi 2003, p. 144. 233 gaggiato con la lingua non appare più come una semplice conseguenza della congiuntura storica e si trasforma in una componente essenziale della vocazione letteraria. La «spiemontizzazione» e la «sfrancesizzazione» rappresentano la forma estrema di un processo che in precedenza era stato descritto semplicemente come «sprovincializzazione», ossia uscita dal guscio (anche linguistico) delle proprie origini e proiezione verso un nuovo orizzonte italiano ed europeo. È come se Alfieri – operando anche in quest’ambito una vistosa amplificazione insieme retorica e ideologica – legittimasse a posteriori quello che si andava configurando come un irriflesso cliché, cioè la filigrana dell’«autobiografia linguistica» che, più o meno deliberatamente, vari autori avevano tracciato nel narrare la storia della propria vita. Tale filigrana diviene qui un robusto e vistoso telaio, su cui si regge gran parte dell’efficacia letteraria dell’opera. Se a caratterizzare l’autobiografia alfieriana sono dunque una coerente organizzazione e una importanza strategica del cammino di conversione insieme linguistica e letteraria, prese singolarmente, le tappe di questo percorso sono spesso assai simili a quelle già incontrate in autori precedenti. Così è, ad esempio, per il motivo topico dell’educazione infantile, trattato nelle pagine iniziali dell’Epoca prima e poi in quelle, ancor più severe, relative al periodo trascorso nell’Accademia di Torino: Alfieri ne esce «non sapendo nessuna lingua bene» II.7, e in poco tempo – dopo la fine degli studi – la frequentazione di ambienti nei quali il francese è la lingua unica – o almeno la prevalente – nella comunicazione parlata e scritta opera uno sradicamento della sua cultura linguistica italiana («mi andavano a poco a poco scacciando dal capo quel poco di tristo toscano ch’io avessi potuto intromettervi» II.7), accompagnato da un complessivo deficit nell’apprendimento del latino 56. Già nella prima metà del secolo Antonio Genovesi aveva descritto le proprie letture romanzesche giovanili come un autolesionistico traviamento («io correvo alla ruina»), e il proprio apprendistato linguistico come un 56 L’apprendimento del latino viene presentato in termini sostanzialmente positivi per quanto riguarda i primi rudimenti ricevuti da un certo don Amatis, «prete di molto ingegno e sagacità, e di sufficiente dottrina», sotto il quale Alfieri consegue «assai maggior profitto» II.2; la situazione peggiora ai tempi dell’Accademia, con «quella filosofia pedantesca, insipida per se stessa, ed avviluppata poi nel latino, col quale mi bisognava tuttavia contrastare, e vincerlo alla meglio a forza di vocabolario» II.4; delle lezioni torinesi, egli annota: «alla spiegazione fatta in latino, Dio sa quale, dal catedratico, noi tutti scolari, inviluppati interamente nei rispettivi mantelloni, saporitissimamente dormivamo» II.4, e l’immagine appare come il coronamento di una fortunata topica settecentesca. 234 distruttivo incontro con l’ignoranza sotto la specie dello «scolastichesimo». Ma se nel riformatore napoletano (e poi ancora, come vedremo, nel Da Ponte) la corruzione culturale operata dai romanzi di consumo viene descritta in termini piuttosto generici, nell’Alfieri essa si ricollega coerentemente con l’inquinamento anche linguistico provocato dal francese. Così, il maestro di geografia (che «l’insegnava in francese, essendo egli della Val d’Aosta» II.6) presta al giovane Vittorio «vari libri francesi», e dopo la lettura del Gil Blas, questi cade fatalmente «nei romanzi»; «e ne lessi molti, come Cassandre, Almalchilde ecc.; ed i più tetri e più teneri mi facevano maggior forza e diletto». Il richiamo, poi, di un’opera come i prevostiani Mémoires d’un homme de qualité, «ch’io rilessi almen dieci volte» II.6 appare studiato, perché quel fortunato romanzo autobiografico è, nell’economia del discorso alfieriano, il rovesciamento in negativo di una delle letture classiche con le quali inizierà, qualche anno più tardi, la risalita della china (letteraria, non ancora linguistica): il «libro dei libri», che nell’inverno del 1769 fa trascorrere all’autore «dell’ore di rapimento e beate» III.7, ossia la raccolta delle Vite parallele di Plutarco (lette in francese!), chiave di volta del canone letterario alfieriano. Si dà pure il caso di elementi che, topicamente toccati da precedenti autori di autobiografie, sono ripresi e stravolti in negativo per ragioni legate alla centralità della riflessione metalinguistica nel disegno complessivo della Vita. Così, il rapporto con il dialetto natìo («il nostro gergaccio piemontese ch’io sempre parlava e sentiva tutto il giorno») non ha più alcuna delle implicazioni positive che si manifestavano in autori veneziani come Goldoni o Casanova, né la pervasività tipica di meridionali come il Vico o il Giannone; del piemontese, descritto in termini semplicemente denigratorî, Alfieri pratica una puntuale estirpazione, sottolineando gl’influssi che esso esercitava in quel che oggi chiameremmo il corrispondente italiano regionale, aggravato dalle somiglianze fonetiche con il francese: «io mi era subito ripurgata la pronunzia di quel nostro orribile u lombardo, o francese, che sempre mi era spiaciuto moltissimo per quella sua magra articolazione, e per quella boccuccia che fanno le labbra di chi lo pronunzia, somiglianti in quell’atto moltissimo a quella risibile smorfia che fanno le scimmie, allorché favellano» III.1 57. Il mito della dolce pronunzia toscana 57 Complementare alla descrizione denigratoria della pronuncia piemontese è l’osservazione circa i suoni caratteristici del parlare toscano, che l’Alfieri si sforza di imitare nel dialogo con il diplomatico pisano Catanti, incontrato durante il soggiorno in Danimarca: «Io malamente mi spiegava col prefato conte Catanti, quanto alla proprietà dei termini, e alla brevità ed effi- 235 si nutre anche dell’antimito della sgraziata pronuncia gallo-italica, la cui accurata attenuazione non era, a quanto pare, solo un vanto letterario ma anche una concreta realtà biografica dell’Alfieri «intoscanito» 58. Nello sforzo repressivo con cui Alfieri si accanisce contro le tracce della sua inflessione regionale vi è anzi un riflesso del suo disprezzo per tutte le varietà italiane diverse dal toscano. Così, se ad alcuni dialetti (non comunque al «gergaccio» della patria natìa) egli concede blandi e parziali apprezzamenti, un tema ricorrente in altri autobiografi settecenteschi – la grazia e il senso di piacevole straniamento prodotto da pronunce straniere o regionali dell’italiano, su cui indugiano ad esempio i libertini Casanova e Da Ponte – si rovescia in una prospettiva toscanocentrica, che squalifica senza remissione qualsiasi accento lontano da quel «benedetto parlar» superiore non solo alle altre varietà italiane, ma in assoluto a qualsiasi lingua naturale (termini come benedetto II.3 appunto, ma anche beato III.1, beatissimo IV.7, vibratissimo IV.6 e soavissimo IV.6 riferiti ai toscani o alla loro lingua si aggiungono, nella nomenclatura alfieriana, ai vari puro III.8 e pretto IV.11 ereditati dalla tradizione) 59. Ecco dunque che l’apprendimento dell’italiano da parte di una donna straniera – la compagna Luisa Stolberg – è magnificato non in termini di compiaciuta galanteria (come nel Giannone, allorché alludeva all’italiano della moglie e della figlia), ma proprio per la capacità della consorte di riprodurre alla perfezione la pronuncia di Firenze (IV.6). Se la “risciacquatura” fiorentina del comico Goldoni non aveva di fatto interferito con la sua dichiarata tolleranza per le «voci lombarde», nell’Alfieri il problema del toscano «parlabile» risente casomai della vecchia disputa sulla primazìa del senese, che prolungava ancora nel Settecento le posizioni della “scuola” di Cittadini e del Gigli (a Siena «si parla meglio, e cacia e delle frasi, che è somma nei Toscani; ma quanto alla pronunzia di quelle mie parole barbare italianizzate, ell’era bastantemente pura e toscana; stante che io deridendo sempre tutte le altre pronunzie italiane, che veramente mi offendevano l’udito, mi era avvezzo a pronunziar quanto meglio poteva e la u, e la z, e gi, e ci, ed ogni altra toscanità». 58 Circa la pronuncia dello stesso Alfieri, Dardi 2003, p. 130 riporta la testimonianza raccolta dall’editore Barbèra presso il segretario Francesco Tassi: «Aveva l’Alfieri ottima pronunzia, parlava fiorentino volentieri, e quando non si trovava con i suoi amici intimi letterarî (...) la sua conversazione era insignificante, ed egli per lo più se ne stava taciturno. Quando l’abate Caluso veniva in Firenze, l’Alfieri discorreva con lui talvolta in piemontese, ma più spesso e volentieri in fiorentino, e molto si studiava di parerlo quanto alla parlata». 59 «Mi dilettava molto il parlare e la pronunzia toscana, massimamente paragonandola col piagnisteo nasale e gutturale del dialetto danese che mi toccava di udire per forza, ma senza intenderlo» III.8. 236 vi son meno forestieri» IV.4: ma il confronto è con Pisa, non con Firenze), risolvendosi infine nella scelta incondizionata della città di Dante. Firenze, e non certo Siena, rappresenta agli occhi di Alfieri la moderna incarnazione del mito classico, l’erede di Atene e Roma in una visione esteticoletteraria che naturalmente si estende anche alla lingua parlata in quella città. In tal senso egli si autoconsacra quale benemerito non fiorentino della fiorentinità, capostipite di una tradizione dall’ingente fortuna ottocentesca che fu delineata da Contini 60. Caratterizzato da un’analoga radicalità – anche se in questo caso l’apparenza prevale sulla sostanziale innovazione – è l’atteggiamento di Alfieri nei confronti della tradizione scritta del toscano: la discesa nel «vortice grammatichevole», cioè la lettura coatta di testi di lingua che egli s’impone, suscita da un lato un’avversione per gli autori della tradizione ribobolaia quattro-cinquecentesca e per i loro ideali eredi, cioè la «purità ... grammaticale» dei «presenti toscani», e da un altro il riconoscimento, negli scrittori “del buon secolo” e in quelli del Cinquecento (eccezion fatta per i sommi, come Machiavelli), di un’utilità meramente estrinseca, che prescinde dal loro valore letterario 61. Non si tratta, certo, di una distinzione originale, ricorrendo anzi spesso in tanti intellettuali settecenteschi sospesi tra antipurismo di marca razionalistica e omaggio alla tradizione, e sonando simile a quella che negli stessi anni proponeva, come vedremo, un conterraneo attestato su posizioni ben lontane dall’Alfieri, cioè il Denina. Ancora una volta tipiche di Alfieri risultano le conseguenze ch’egli trae da queste premesse, e la sua costante attitudine all’estremizzazione ideologica e letteraria di motivi già presenti nelle opere anteriori, rispetto alle quali la Vita appare una sintesi originale. Così è ad esempio per un tema centrale nel dibattito linguistico settecentesco: la qualifica di «lingua morta» che, attribuita dapprima polemicamente al latino, viene rovesciata sullo stesso italiano per denunciarne – o per rivendicarne – la natura di codice eminentemente scritto e letterario, cioè quasi artificiale. Alfieri afferma dunque risolutamente di volersi esprimere «in una lingua quasi che morta, 60 Cfr. Contini 1963, p. 629. Parlando dei consigli ricevuti dai «barbassori» dell’Università di Pisa, scrive: «taluno fra essi, e dei più pettoruti, che mi consigliava, e portava egli stesso la Tancia del Buonarroti, non dirò per modello, ma per aiuto al mio tragico verseggiare, dicendomi che gran dovizia di lingua e di modi vi troverei. Il che equivarrebbe a chi proponesse a un pittore di storia di studiare il Callotta» IV.2. 61 237 e per un popolo morto, e di vedermi anche sepolto prima di morire» piuttosto che «scrivere in codeste lingue sorde e mute, francese e inglese, ancorché dai loro cannoni ed eserciti si vadano ponendo in moda» IV.17. Come «lingua morta» l’italiano appare, agli occhi di Alfieri, in un’accezione romantica e implicitamente risorgimentale: lingua di un popolo umiliato, la cui dignità storica e culturale la riscatta dalla presente sudditanza all’imperialismo delle culture dominanti, «in nome – con le parole di Clemente Mazzotta – di due miti remoti: il passato della civiltà classica e il futuro di quell’Italia sognata a cui il vate misogallico lanciava il suo estremo messaggio di riscatto e di vendetta» 62. Nessuno, tra i “barbari”, poteva ambire ad un simile eroismo. Nella «gerarchia delle lingue» (come l’ha chiamata Di Benedetto) 63 che Alfieri costruisce nella Vita si ripropone in forma rinnovata un altro tema caratteristico della scrittura autobiografica: accostata a quella dei tanti predecessori letterari, la peregrinazione linguistica di questo italiano in Europa è infatti simile nella realtà effettuale, ma ben diversa nell’atteggiamento psicologico. Il quale è costantemente caratterizzato da un’attitudine comparativa, o meglio contrastiva, basata su due estremi fissi: da un lato il sublime toscano, termine di confronto necessariamente superiore a qualsiasi altra varietà, da un altro la barbarie francese, che come si vedrà riceve un’originale caratterizzazione. La geografia disegnata tra questi due poli non va, forse, ricondotta al semplicistico «nazionalismo letterario» che continua a suscitare le perplessità di tanti lettori moderni. Così, di fronte alla costante invadenza del tema misogallico, rischiano di passare inosservate le annotazioni che Alfieri dedica ad altre culture e ad altre lingue. L’inglese, ad esempio: è notevole il discrimine fra valutazione estetica di questa lingua – decisamente negativa, come si è visto – e considerazione ideologica della cultura britannica. Appaiata a quella francese in quanto a “barbarie” linguistica («lingue sorde e mute»), quest’ultima costituisce sotto un altro rispetto il contraltare positivo della «gallicheria»: e la distinzione non è priva di importanza visto che il nesso fra giudizio linguistico e giudizio morale e culturale potrebbe apparire inerziale e quasi automatico nel caso del francese. L’Inghilterra – la cui lingua Alfieri studia durante il primo soggiorno a Firenze, anteriore alla conversione toscanista – è dunque opposta alla Francia sia in termini estetici («Quanto mi era spiaciuto 62 63 238 Mazzotta 1992, p. 186. Di Benedetto 2000, p. 84. Parigi al primo aspetto, tanto mi piacque subito e l’Inghilterra, e Londra massimamente» III.6), sia nel riconoscimento del suo primato civile, «troppa essendo la differenza tra l’Inghilterra e tutto il rimanente dell’Europa in queste tante diramazioni della pubblica felicità, provenienti dal miglior governo» III.6. Di più: questa patria di «vera libertà» è, assieme all’Italia, il solo paese d’Europa a lasciare «desiderio di sé» nell’Alfieri: «quella, in quanto l’arte ne ha per cosí dire soggiogata o trasfigurata la natura; questa, in quanto la natura sempre vi è robustamente risorta a fare in mille diversi modi vendetta dei suoi spesso tristi e sempre inoperosi governi» III.6. Coerentemente, già il trattato Del Principe e delle lettere indicava nell’Inghilterra e nella sua filiazione politico-culturale americana gli eredi della libertas classica, suggerendo sul piano sociale e civile un rapporto con l’antico simile a quello che in Italia – e particolarmente in Toscana – l’autore vedeva realizzato sul piano letterario 64. Ancor più densa di riferimenti linguistici è l’idea alfieriana della Spagna che emerge nella Vita. La terra visitata nel 1771 è descritta in termini di estatica ammirazione per la sublimità del paesaggio «semibarbaro» III.12 (dove il prefisso non attenua semplicemente la qualifica, bensì pare rovesciarne in positivo la valenza) e di umana simpatia per l’indole della sua popolazione, che s’intravvede di riflesso persino in certe minuscole «storiette» psicologiche alfieriane come quella celebre della reticella odiata da bambino e poi spavaldamente indossata, «per civetteria ad imitazione» degli «zerbini d’Andalusia» I.5. Ma la penisola iberica è anche patria di una lingua «bellissima» (dalla quale Alfieri non si perita di cogliere anche un forestierismo crudo come posata III.12 ‘locanda’: espressiva nota di color locale nella descrizione di quel viaggio). Tale lo spagnolo gli appare non solo per la somiglianza con l’italiano, ma anche per l’attrattiva della sua letteratura, capace di avvincere il viaggiatore in qualcosa di simile al ben più ampio «vortice grammatichevole» in cui il toscano lo trascinerà dopo la definitiva conversione: forte dell’«averlo già altre volte letto in 64 Cfr. Alfieri 1951b, pp. 183-84: «Passiamo agli storici. Tra la inutile folla di essi, pochi pur sempre ritrovo essere stati gli storici sommi; ed erano Greci, ed eran Romani, e sono Inglesi; cioè sempre, e liberi, e non protetti scrittori. E chi si attenterà di mettere gli storici schiavi e protetti a confronto dei liberi sprotetti? Tucidide, Polibio, Senofonte; Livio, Sallustio, Tacito; Hume, Robertson, Gibbon»; e ancora, p. 245: «Ma, lasciando questo (...) se io in questi due popoli, nel moderno Inglese e Americano, e nell’Antico Romano, osservo le cagioni della lor libertà, e quindi dei loro progressi, felicità, virtù, e grandezza; trovo pur sempre esserne stata principalissima origine la loro piena ottenuta conoscenza dei propri diritti». 239 francese», l’Alfieri si dedica durante il viaggio alla lettura del Don Quixote aiutandosi «col mezzo di una grammatica e vocabolario spagnuolo». La persuasione alfieriana nella superiorità letteraria del toscano – e quindi della tradizione italiana – non fa velo insomma al riconoscimento di diverse eccellenze culturali e di pregiate tradizioni linguistiche e letterarie. Se per un’unica tradizione nazionale – quella francese – la polemica linguistica si lega inestricabilmente con quella letteraria e con quella civile, ciò non sembra dipendere da un ingenuo fanatismo anti-illuministico, ma dall’acquisita consapevolezza che presupposti storici e culturali simili potevano esplicarsi – e si esplicavano, di fatto – in istituti sociali e letterari ben diversi tra loro. Così come la via alla «vera libertà» non passava necessariamente (anzi non passava affatto) per la rivoluzione dei servipadroni, anche la via al rinnovamento linguistico e letterario avrebbe potuto seguire più d’un percorso: la ripercussione di un simile atteggiamento sui dibattiti linguistici italiani – e piemontesi in particolare – non avrebbe mancato di farsi sentire, pur se indirettamente e silenziosamente (giusta un costume tipico del luogo, nota Dionisotti) specie in relazione alla politica nei confronti del francese 65. 5. Misogallismo ed espressivismo La studiata accentuazione dell’ignoranza dell’italiano negli anni anteriori alla conversione alfieriana si accompagna dunque ad un’enfatizzazione del ruolo del francese in quello stesso periodo. Tuttavia, come è stato notato, Alfieri sottolinea nella sua autobiografia anche l’acquisizione disordinata e imperfetta di quella lingua, dichiarando – nella redazione definitiva – di non conoscere il francese «se non a caso» (mentre in precedenza aveva scritto di ignorarlo completamente) e qualificando talune opere giovanili come scritte «in (non dirò lingua), ma in parole francesi» III.13: ostentando, insomma, una sorta di generale alalia la cui gravità conferirebbe alla “conversione” tratti appunto miracolosi 66. La ricognizione delle opere giovanili ha permesso di accertare il livello complessivamente buono del francese alfieriano, suggerendo la ricostruzione di un percorso piutto65 Dionisotti 1976, p. 26: «Non stupisce che la spiemontizzazione alfieriana facesse scandalo nella società letteraria piemontese, e che però, vigendo la norma della locale unanimità, lo scandalo fosse represso nel silenzio, anche quando, all’apparizione delle prime tragedie, in Italia subito si accese su di esse il dibattito». 66 Cfr. Porcu 1976, p. 255. 240 sto diverso da quello esibito nel disegno ben congegnato della Vita: cioè una sorta di iniziale vocazione letteraria francese ripudiata con la passione e il radicalismo tipici dei convertiti. Una simile palinodia avverrebbe sullo sfondo dei dibattiti linguistici interni alla cultura piemontese del suo tempo, e in particolare del prevalere della corrente aristocratica “italianista” espressa dall’Accademia dei Filopatridi e assai influente sulla politica linguistica sabauda di quegli anni. Il nesso tra la costruzione complessiva della Vita e gl’ideali propalati dagl’italianisti piemontesi e dal loro manifesto, il trattato Dell’uso e dei pregi della lingua italiana del Galeani Napione, è stato enfatizzato da alcune letture novecentesche al punto di interpretare l’autobiografia come «una sorta di “libro d’esercizi” del testo-summa» 67 (cioè appunto di quel trattato). Che l’interpretazione sia forzata non è solo denunciato da evidenti discrepanze cronologiche (il testo del Galeani Napione esce nel 1791, cioè dopo che la Vita alfieriana è stata ormai disegnata nelle sue linee generali e in buona parte già redatta), ma anche dal ben diverso respiro delle due opere. La prospettiva andrebbe casomai rovesciata, nel senso che le posizioni espresse dai Napione, dai Caluso e dagli altri Filopatridi poterono forse corroborare, ma non certo innescare o ispirare, il disegno complessivo di un’opera nella quale l’esaltazione del toscano è funzionale ad un progetto letterario di portata ben superiore all’orizzonte regionale, e la passione misogallica si nutre di ragioni nuove e più profonde rispetto al generico antifrancesismo di tanti contemporanei. Di tale innovativo atteggiamento si scorgono i segni in taluni usi lessicali che, forzando la consuetudine dell’uso settecentesco, attribuiscono nuova pregnanza ai termini impiegati per designare la lingua e la cultura francesi. Così, il ricorso al campo semantico della ‘barbarie’ era consueto, tra Sei e Settecento, proprio per indicare l’indebita commistione di lingue straniere (e, più marginalmente, di dialetti e dello stesso latino) all’italiano. Del termine barbarismo Riccardo Tesi ha accuratamente ricostruito la storia, movendo dalla grammaticografia greca (barbarismòs valeva di norma ‘uso di forestierismi’) e latina (dove prevaleva piuttosto il senso di ‘errore prosodico o fonetico’), nelle quali il concetto si associava di solito a quello di solecismo 68. Giunto, dopo un impiego anche più complesso e “tecnico” nella linguistica rinascimentale, a indicare in età moderna l’«abuso di parole straniere», il termine ha ormai quasi del tutto perduto, all’epoca di Al67 68 Ibid., p. 262. Cfr. Tesi 2000, p. 4. 241 fieri, il suo legame con il significato originario e quindi la sua connessione con il concetto di barbarie come ‘estraneità all’alveo del mondo classico’. Se da un lato Alfieri prende atto di questo scadimento semantico, impiegando la famiglia lessicale di barbaro nella forma più estensiva (ad esempio nelle tragedie, in cui il termine compare spesso nel senso più degradato di ‘reo’, ‘feroce’, e nella stessa Vita, in cui abbiamo già notato il conio semibarbare III.12), da un altro egli la riorganizza orientandola con maggiore precisione, e la integra con usi lessicali nuovi, il cui intento è quello di ricollegare direttamente la lingua e la cultura francesi contemporanee alla barbarie intesa nel senso antico, specificamente etnico-culturale del termine. Così, barbarismo è parola usata nella Vita non in relazione all’italiano, ma al greco, cioè al distico che Alfieri fa incidere dietro la collana dell’ordine di Omero – e che l’autore sottopone all’abate di Caluso «per vedere se non v’era barbarismo, solecismo, od errore di Prosodia» (col che appunto egli pare recuperare il senso e l’uso propri della teoria grammaticale antica: e si noti l’accostamento “istituzionale” al solecismo). E barbaro è termine impiegato spesso con riferimento a varie culture straniere (non solo a quella francese, ma anche e sempre con connotazione negativa) e addirittura a quella piemontese, il cui dialetto è definito «barbaro gergo». E se l’autore stesso si autodefinisce «barbaro Allobrogo» alludendo sprezzantemente alle proprie origini, questo campo semantico è sollecitato con una particolare dovizie di riferimenti storici. Naturalmente, la parola gallicismi IV.6 non è un conio alfieriano (le prime attestazioni note risalgono agli anni Sessanta del Settecento 69, e il termine è impiegato spesso anche dal Galeani Napione): ma tale è invece il caratteristico derivato gallicheria IV.6 (tutto sommato meno originale di gallicume, gallume e gallagogo del Misogallo, il cui stesso titolo fa serie con simili neologismi); e se riferirsi ai francesi moderni chiamandoli Galli IV.25 era del tutto consueto, non lo era affatto indicarli come ‘Celti’, ad esempio discorrendo di Torino e del Piemonte celtizzati IV.29, IV.30 e della propria volontà di disceltizzarsi IV.25. Alfieri non si limita in questo caso a forgiare altre due caratteristiche neoformazioni, ma salda decisamente il concetto di barbarie francese con il riferimento, storicamente più circostanziato a popolazioni estranee all’alveo della cultura classica, chiamandole non Galli (termine divenuto ormai sinonimo di ‘francese’ moderno), ma Celti. Lo stesso non avviene 69 Il DELI s.v. gallo registra un’occorrenza del 1764 in Giovanpietro Bergantini (cfr. Morgana 1985, p. 171). 242 per alcun altro dei popoli “barbari” a cui egli accenna. Non per i «boreali, inglesi principalmente, russi, e tedeschi» II.1 incontrati ai tempi degli studi in Accademia, e non in particolare per gl’inglesi, sempre indicati con questo termine e mai con la famiglia lessicale di britanno/britannico – altrettanto allusiva al passato “barbarico” – che Alfieri usa solo in poesia e che l’uso settecentesco avrebbe già tollerato anche in prosa con connotazione neutra 70. La cultura, la società e la lingua francesi appaiono dunque «barbare» in un senso più stringente che qualsiasi altra gente straniera: ciò spiega il motivo per cui tale specifica avversione rappresenta il motore più efficace di tanta parte dell’espressivismo linguistico alfieriano, che nel prosimetro del Misogallo produce i suoi risultati più vistosi 71. Come è facile attendersi, nemmeno un rigetto così radicale può rimuovere del tutto dalla prosa alfieriana le tracce di un’influenza linguistica comunque determinante: se, come ha osservato Arnaldo Di Benedetto, «già qualche contemporaneo notava maliziosamente la presenza di francesismi nella Vita (Ottavio Falletti di Barolo)» 72, gl’interpreti moderni dell’Alfieri hanno proseguito l’istruttoria, nella quale, tuttavia, non sempre sono stati distinti i forestierismi che, ampiamente circolanti nell’italiano tardosettecentesco, ne erano stati ormai assimilati, e d’altro lato quelli più accusati e caratterizzanti – senza contare che l’autore stesso era ben consapevole del peso che i gallicismi avevano già nell’italiano del buon secolo, come mostrano ad esempio gli appunti in cui egli andò riportando i francesismi rilevati nel Boccaccio 73. Non si tratta, del resto, di un tratto esclusivo della Vita. La scrittura privata (cioè epistolare) dell’Alfieri è – lo ha documentato Fabrizio Franceschini – satura di francesismi: prevedibilmente, visto che il corpus delle lettere alfieriane è composto in larga parte da testi scritti interamente in francese, e riflettenti quella quotidiana conversazione che l’autore stesso descrive pervasa dalla lingua oltramontana. E se, come ha mostrato Carmine Jannaco, il francese di Alfieri (né solo quello epistolare) abbonda di ita70 La LIZ offre ad esempio tre occ. da uno scritto di Pietro Verri nel «Caffè» («S. M. Britannica», «corte britannica», «corona britannica») e dodici esempi in prosa nella «Frusta letteraria» del Baretti. 71 Cfr. Abbadessa 1976, pp. 85-115. 72 Di Benedetto 2000, p. 83. 73 Cfr. Alfieri 1983, p. 30: «Francesismi del Boccaccio». Ad esempio, «tutto solo», «tutto pieno», «di buona fede», «le cortine del letto abbattute», «appresso mangiare», «sopra uno cavello si pose a sedere». 243 lianismi lessicali e di «veri e propri errori» negli usi grafici 74, la costanza di talune abitudini scrittorie influenza, in certe fasi della vita alfieriana, persino alcune grafie del suo italiano, ad esempio la «ridondante e sregolata accentazione, così che non è raro trovare nelle prime stesure italiane, come in quella dell’Antigone, vocali e sillabe inavvertitamente accentate per l’attrazione delle corrispondenti parole francesi» 75. Ma si tratta di un carattere ormai superato all’altezza dell’autobiografia (nessuno dei manoscritti della Vita presenta un tratto così vistoso): l’Alfieri che nella stesura dei testi tragici «quasi inavvertitamente» passa «da una lingua all’altra» è evidentemente altra persona da quello che dà «interissimo bando ad ogni qualunque lettura francese», pur conservando, nelle abitudini di scrittura, vari tratti tipici di un piemontese della sua epoca. Complessivamente rari, dunque, sono i caratteri sintattici francesizzanti nella Vita: ad esempio la concordanza di qualche con sostantivi plurali («qualche giorni» III.7, IV.10), l’uso di siccome con valore decisamente causale, «modellato sul francese comme» (cioè equivalente a ‘poiché’: «Siccome io non lo avea mai conosciuto prima..., io veramente non mi sentiva quasi nessun amore per esso» I.5: un tratto rilevabile anche nell’epistolario 76), l’uso assoluto di malgrado («malgrado il sapore ostico ed amarissimo» I.3 77), o la ripetizione dell’articolo nella perifrasi per il superlativo relativo (tipo «il partito il più disinvolto» II.6) – elementi, questi ultimi, che potevano in verità contare su un ampio uso anche nei testi italiani della tradizione letteraria più illustre, ma che l’influsso francese poteva rafforzare. Lo stesso vale del resto per altri possibili calchi, per i quali è probabile che la consuetudine di Alfieri con la lingua d’oltralpe convergesse con gli usi riscontrati in illustri testi letterari. Così è ad esempio per la locuzione «di vivente mio» IV.13, che Di Benedetto ha giustamente accostato al francese «de mon vivant» 78, ma che poteva appoggiarsi anche ad un impiego già boccacciano («al mio vivente», e perifrasi affini) puntualmente registrato dalla Crusca 79. In altri casi, taluni usi marginali nell’italiano del 74 Cfr. Jannaco 1942, pp. 218-19. Ibid., p. 217. 76 Cfr. Franceschini 2003, p. 65, con rimando a Matarrese 1993, p. 71. 77 Cfr. Dardi 1992, pp. 63 s.: «Sul modello del fr. malgré, non si costruisce più a malgrado di (+ animato), ma malgrado + animato o inanimato». 78 Cfr. Di Benedetto 2000, p. 83. 79 Il tipo al mio (suo, loro) vivente è attestato nel Teseida e nell’Amorosa visione, in suo vivente nel Ninfale fiesolano, e si tratta di un uso riportato da Crusca IV, s.v. vivente. Lo notava già Finoli 1950, p.165. 75 244 tempo sono favoriti dalla convergenza del francese e del dialetto, come ad esempio la proclisi (anziché l’enclisi) dei pronomi ai gerundi (tipo «non si accorgendo») e agli infiniti («non lo voler più abitare») soprattutto in presenza di una negazione. Anche per quest’ambito, tuttavia, bisognerà guardare soprattutto al lessico, in cui si osservano alcuni mots témoins connotati anche ideologicamente, cioè immediatamente individuabili come tipici «europeismi» settecenteschi: ad esempio il sostantivo fanatismo IV.10, IV.12 80, o gli aggettivi diplomatico ‘che concerne la diplomazia’ 81 e sedicente IV.22, IV.30 82; o ancora il più raro – e perciò ancor più vistoso – espatriazione ‘espatrio’ 83. Oltre a un buon numero di altri termini e locuzioni apparentemente meno significativi, ma di certo percepiti – all’epoca – come forestierismi da qualsiasi lettore italiano colto: ad esempio la locuzione prendere le misure (già seicentesca ma a lungo combattuta dai puristi 84), o termini come ammobiliare IV.22 e ammobigliata III.13 85, che ancora Da Ponte avrà cura di epurare nella revisione delle sue Memorie (mentre interventi di questo tipo sono raramente documentabili nella Vita alfieriana 86), o infine verbi come caratterizzare IV.2 87 e particolarizzare III.1 88, e così via 89. 80 Cfr. Dardi 1992, p. 533: «europeismo settecentesco fra i più caratteristici, influenzato nella forma dal modello fr. (fanatismo e non fanaticismo), ma semanticamente elaborato nel generale movimento intellettuale del secolo». 81 Per l’aggettivo diplomatico l’accezione ‘relativo alla diplomazia’ giunge in Italia nel corso del Settecento ed è un calco semantico del fr. diplomatique; cfr. DELI s.v. diploma. 82 Termine la cui storia è stata ricostruita da Dardi 1982, pp. 112-13. 83 Il GDLI riporta esempi a partire da Luigi Angiolini (1750-1821). Il francese expatriation è termine già trecentesco. 84 Esempi: «si presero dunque alcune misure» III.10, «avea prese le misure necessarie» IV.3, «si prendessero le misure» IV.17. Cfr. Dardi 1992, pp. 450-60, che attesta il nesso in italiano a partire dalla metà del Seicento. 85 «D’uso comune nel XVIII sec.» secondo Dardi 1992, p. 247, che lo attesta a partire dagli anni Ottanta del Seicento. 86 Ad esempio «si prese giorno», modellato sul fr. prendre jour, mutato in «si fissò il giorno» nel capitolo Quarto dell’Epoca prima. 87 Cfr. Dardi 1992, p. 511: «Diffuso dalla metà del XVII sec., con varie sfumature semantiche riconducibili al significato basilare ‘distinguere persona, azione, cosa per caratteri a lei propri’». 88 Francesismo attestato già nel Seicento: il GDLI riporta esempi a partire dal Sarpi. 89 «Da un confronto con il glossario del Dardi [ = Dardi 1992] rilevo almeno una trentina di voci usate nella Vita: agrodolce, alessandrino (verso -), alleato (sost.), allineare, brillante agg., calesse, caratteristico e caratterizzare, caserma, editore, elettricità, emozione, energico, etisia, giornalista, imparziale, meccanismo, orgasmo, parrucca, passeggero, plagiario, pregiudizio, presentimento, progetto, provvisorio, sorprendere e sorpresa, successo ‘riuscita’, toccante, treno, uniforme, 245 Alfieri è, del resto, autore disinvoltamente disposto all’uso di un lessico aggiornato, al punto da permettere di retrodatare de facto (considerando cioè la Vita come un testo settecentesco, non ostante la data della prima edizione) vari termini e locuzioni che la lessicografia storica data al secolo XIX, come ad esempio essere sul punto di 90 o di prim’ordine 91, e addirittura capace di variare ed innovare materiale lessicale di fresca introduzione. Così, se il nesso libero muratore era ovviamente recente quanto l’avvento della Massoneria in Italia 92, un conio alfieriano è, a quanto pare, l’astratto libera muratoreria III.13: calco sull’inglese, naturalmente, per il quale non è nemmeno indispensabile pensare a un passaggio attraverso il francese francmaçonnerie. Del resto, ancora dall’inglese l’Alfieri importa un aggettivo, sentimentale III.8 (nel nesso amore sentimentale) che di lì a poco il Foscolo provvedrà a consacrare definitivamente in italiano con la sua traduzione dello Yorick. Un termine, verrebbe da dire, ormai pienamente ottocentesco, che suggerisce come il rapporto di Alfieri con l’innovazione – e con l’importazione – linguistica, lungi dall’essere riconducibile a una prevenuta chiusura, riveli un’apertura ampia e plurivoca. 6. Un altro spiemontizzato Che la qualifica di città «anfibia» e linguisticamente ancipite riservata a Torino non sia una delle deformazioni ideologiche strumentali della Vita alfieriana è indirettamente dimostrato dal gran numero di voci che, dal Piemonte tardosettecentesco, testimoniano un intermittente senso di estraneità rispetto alla cultura italiana, non ostanti le iniziative favorevoli all’italiano intraprese dalle istituzioni statali nel corso di quel secolo (e soprattutto nella sua prima metà) 93; a tali fonti “interne” si possono poi aggiungere quelle dei molti viaggiatori e osservatori stranieri, dalle quali emerge il quadro di un bilinguismo non sempre equilibrato 94. Assimilabile vettura. Tra le locuzioni: alla moda, bel mondo, gran mondo, ecc.»: De Stefanis Ciccone 1997, p. 42. 90 Esempi: «fui quasi sul punto d’innamorarmi» III.4, «fui sul punto di dovere» IV.5. Per il nesso essere sul punto il DELI s.v. punto riporta esempi a partire dal 1800 (Stampa periodica milanese). 91 Locuzione attestata dal DELI a partire dal 1830 (Stampa periodica milanese). 92 L’occorrenza più antica del nesso compare a quanto sembra nell’Autobiografia II di Antonio Genovesi. 93 Ne ha dato un quadro esaustivo Marazzini 1984, in particolare pp. 106-18. 94 Cfr. Dardi 2003, pp. 127-29. 246 a questi ultimi è un italiano come Carlo Goldoni, che nei suoi Mémoires, rivolgendosi idealmente a un pubblico francese, sottolinea un carattere tipico della cultura linguistica piemontese del suo tempo, parlando del suo primo viaggio a Torino: «ils en parlent la langue familièrement; et voyant arriver chez eux un Milanois, un Vénitien ou un Génois, ils ont l’habitude de dire, c’est un Italien» 95. In un simile stato di cose maturano non solo i presupposti della «spiemontizzazione» alfieriana, ma anche quelli di esperienze diverse e in larga parte alternative, che Carlo Dionisotti ha ricondotto a una «inevitabilità dell’espatrio», valida non solo per l’Alfieri e il Baretti, ma anche per Denina. Così, nel medesimo 1790 in cui Alfieri attendeva alla redazione iniziale della sua Vita, proprio Carlo Denina pubblicava in francese un autoritratto biografico nel primo volume della collezione da lui redatta della Prusse littéraire sous Frédéric II, raccolta di “medaglioni” dedicati agl’intellettuali nati o operanti a Berlino tra il 1740 e il 1786. Con quell’opera, il fuoriuscito dalla Torino di Vittorio Amedeo III trasferiva nella sua seconda patria il metodo dell’indagine erudita ch’egli aveva applicato, nella terra natìa, in lavori come il Discorso sopra le vicende della letteratura (1760) e le Rivoluzioni d’Italia (1772), ossia con «le prime opere di un autore piemontese, stampate a Torino, di cui si possa dire che ottenessero immediato successo in Italia e fuori», ancora secondo Dionisotti 96. Il testo pubblicato nella Prusse littéraire si presenta dunque come un mémoire indirizzato al segretario perpetuo dell’accademia delle Scienze di Berlino, Jean-Henry Formey, nel maggio del 1789: preceduto da un cappello scritto in terza persona (mentre il séguito passa alla prima), esso giustifica in tal modo la sua natura di testo memorialistico, che lo rende piuttosto diverso dagli altri articoli della stessa collezione. Per il resto, struttura e impostazione dell’opera sono analoghe a quelle tipiche dell’autobiografia erudita primosettecentesca: al centro sta la descrizione del percorso intellettuale e della carriera accademica dell’autore, la ricostruzione dei moventi ideologici e delle circostanze di pubblicazione dei suoi scritti, ma soprattutto delle ingiustizie subìte nell’ambiente universitario torinese ad opera dei settori più retrivi del clero locale. Giusto ad una macchinazione persecutoria il Denina attribuisce il suo allontanamento, collegandolo alla mancata richiesta di autorizzazione per la stampa di alcuni suoi scritti intrapresa da un editore fiorentino. Dopo tutto, anche l’intento apologetico 95 96 Goldoni 1935, p. 295. Dionisotti 1976, p. 15. 247 rappresentava una delle costanti della tradizione autobiografica primosettecentesca che il Denina sviluppa apertamente, quasi incurante della sua condizione di migrante volontario in un esilio dorato come la corte di Federico di Prussia: ben altro ambiente rispetto a quello torinese. Presso che nullo è l’interesse dello scritto deninano per i temi dell’educazione linguistica infantile – per la quale pure non manca di risuonare il solito topos del maestro incompetente, riferito qui a un insegnante di latino 97 –, e complessivamente limitato anche quello per i temi della lettura e dell’apprendistato letterario: il testo sorvola solo sugli esperimenti poetici giovanili (come scrive Dionisotti, «il Denina era giunto d’un balzo alla prosa, subito e per sempre libero da ogni nostalgia, nonché ambizione poetica»), ma anche su opere come la Bibliopea o il Discorso sopra le vicende della letteratura, di valore fondativo per la riflessione linguistica deninana 98, destinate a sfociare, in anni successivi alla pubblicazione dell’articolo per la Prusse littéraire, in un’opera considerata uno degli atti di fondazione del paleocomparativismo, cioè La Clef des Langues, del 1804. Ma nei tardi anni Ottanta del Settecento il pensiero linguistico deniniano andava già prendendo corpo, e non poteva mancare di lasciar qualche traccia in quello scritto autobiografico. Così, nel rievocare il periodo di sospensione dell’insegnamento trascorso dapprima a Vercelli, e poi nella natìa Revello, Denina descrive l’origine quasi accidentale di una ricerca dialettologica che avrebbe dato i suoi frutti più tardi, in una memoria (Observations sur les dialectes, particulièrement sur ceux d’Italie) presentata all’Accademia di Berlino nel 1797 99. Ricordando, dunque, l’ozio forzato cui 97 Cfr. Denina 1790, p. 360: «J’appris le éléments de la langue latine d’un maître niçard, qui étoit beaucoup plus habile jardinier que grammarien». 98 In quell’opera, pubblicata nel 1776, Denina manifestava un atteggiamento convenzionalmente antipurista e anticruscante, introducendo tuttavia qualche spunto interessante, come la distinzione tra lingua e stile basata da un lato sull’osservanza delle regole grammaticali, da un altro sull’efficacia espressiva: «distinguiamo dunque lo stile dalla lingua, come appunto distinguesi la grammatica dalla rettorica, posciaché la grammatica ha l’istesso valore nel regolare il linguaggio, che la rettorica nel formare lo stile. E sebbene non può mai essere bello stile, dove non vi sia una certa proprietà di vocaboli, accade però molto spesso, che con tutta la possibile purità di lingua ne riesca un infelice stile» (cito dall’edizione Denina 1792, p. 56). Nel capitolo Della lingua letteraria degl’Italiani, poi, Denina contestava il primato fiorentino sulla lingua letteraria scritta e ammetteva il «vantaggio» dei Toscani contemporanei solo nell’àmbito della lingua parlata. Un intero capitolo vi era poi dedicato alla Parzialità de’ primi accademici della Crusca e auspicava uno «studio moderato» della grammatica, condotto solo sui massimi autori della tradizione letteraria. 99 Opera sulla quale cfr. Stussi 2006, pp. 30-32. 248 egli era costretto a Revello dalla mancanza di libri che gli consentissero di proseguire le opere già iniziate, l’autore presenta come un «moyen de distraction» le osservazioni sistematiche iniziate sul dialetto piemontese, nelle quali tornavano utili anche le più estemporanee riflessioni svolte in precedenza durante un viaggio in Romagna, «entre Bologna et Ravenne», e in Toscana, «dans les lieux où la langue est fort différente de celle de la Romagne» 100. La schedatura iniziata a Revello avrebbe dunque dovuto fornire la base a un dizionario etimologico del dialetto piemontese «de la même manière que Ducange a fait son fameux Glossaire de la latinité des siècles barbares». Se non che, l’improvviso richiamo a Torino interrompe la raccolta: le schede («petites lambeaux de papier») vengono cedute al medico Maurizio Pipino, che proprio in quegli anni attende alla composizione di un vocabolario e di una grammatica piemontesi (l’uno e l’altra usciranno nel 1783, senza citare il contributo offerto dall’abate di Revello 101). Ma Denina non perde per ciò l’interesse agli studi sull’etimologia: egli stesso riconduce all’esperienza dell’inchiesta dialettologica il movente dei «mémoires que j’ai lus à l’Académie sur ce sujet», e auspica nella Prusse littéraire l’allestimento di una grande opera che ponga a confronto cinque o sei lingue delle più note per favorirne la conoscenza: una sorta di aurorale progetto della Clef des langues. La trattazione di questioni linguistiche nello scritto autobiografico non si esaurisce in questa rievocazione; alla scelta del francese – anziché dell’italiano – per la redazione di quell’opera è anzi dedicata la lunga sezione conclusiva, nella quale Denina sembra voler giustificare, più che la veste linguistica di quello scritto in particolare, la scelta generale che egli aveva compiuto dopo il suo arrivo a Berlino. L’abbandono, cioè, dell’italiano contro il parere dei suoi amici e corrispondenti piemontesi, ossia di alcuni dei membri più influenti di quell’ambiente culturale aristocratico in cui l’“italianismo” dell’accademia dei Filopatridi aveva fortemente influenzato la politica sabauda di marginalizzazione del francese e di promozione – nella scuola e in generale negli usi pubblici – della lingua italiana. Di fronte a un dilemma forse solo simulato («aussi passai-je trois ans dans l’indécision si j’écrirois en françois»), Denina ostenta un atteggiamento fortemente pragmatico. Difficile credergli quando sostiene di non aver abbastanza riflettuto, prima della partenza per Berlino, sul fatto che in Prussia «la langue italienne, dans laquelle j’écrivois depuis trente ans, n’étoit ... 100 101 Denina 1790, p. 448. Cfr. Pipino 1783a e 1783b. 249 d’aucun usage, et que la langue latine étoit passée de mode en Allemagne» 102: la sua condotta appare in realtà frutto di un attento calcolo delle opportunità derivanti da una definitiva conversione al francese. Prendendo atto dell’inservibilità di italiano e latino – e senza nemmeno contemplare la possibile utilità della lingua locale, per la quale viene in mente la famosa osservazione di Rivarol (secondo il quale i tedeschi stessi avevano insegnato all’Europa a disprezzare la loro lingua 103) – Denina si risolve per l’uso della lingua nella quale egli avrebbe comunque dovuto far tradurre tutte le memorie presentate all’Accademia berlinese. Nell’accenno alla sua precedente fedeltà all’italiano (in francese, osserva, «je n’avois écrit que quelques lettres, et qu’ébauché l’histoire de Victoire Amedée II») e nell’esplicita menzione dei piemontesi che s’erano opposti alla sua scelta – tra i quali figurano l’abate di Caluso e il Galeani Napione, i due campioni dell’italianismo torinese – par serpeggiare una polemica che si fa infine esplicita laddove parlando del suo francese Denina osserva: «Si je réussis à l’écrire passablement, cela pourroit une fois servir de preuve que la langue dans laquelle on fait des livres, s’apprend par la lecture plus que de la bouche des mères et de nourrices» 104. Concludendo che bene ha fatto l’accademia di Berlino a riconoscere nel francese «la langue la plus propre à servir de communication entre le nations lettrées», Denina si riallaccia implicitamente all’accenno iniziale sul latino ormai caduto in disuso, e tocca uno dei temi più in voga nella riflessione linguistica europea di quegli anni. In termini simili a quelli usati nel 1790 nella Prusse littéraire Denina si era espresso nell’appendice a una nuova edizione del già citato Discorso sopra le vicende della letteratura, uscita a Berlino (1784-85): una raccolta di Pensieri diversi tratti da ragionamenti inediti nei quali i temi più ideologicamente rilevanti della sua riflessione sulla cultura contemporanea, sull’educazione, sulla censura, sulla letteratura e sul teatro venivano condensati in interventi brevi ed incisivi, o apertamente provocatori. In un Pensiero dedicato alle Lingue, egli esaminava i rapporti di forza culturali tra le lingue d’Europa (ben più ampiamente disteso nello stesso Discorso) constatando la crisi ormai irreversibile del latino e auspicando che una lingua moderna potesse prendere il suo posto nella comunicazione tra i dotti: «Sarebbe un gran comodo veramente se alcuna delle lingue viventi (nè 102 103 104 250 Denina 1790, pp. 468 s. Cfr. Marazzini 1989, p. 142. Denina 1790, p. 469. questa precedenza si disputerebbe oramai alla Francese) prendesse il luogo della latina. Ma le alte montagne, che dividono le nazioni, distinguono ancor più sicuramente i linguaggi». Data per scontata l’irraggiungibilità dell’unificazione linguistica dell’Italia («il nostro paese deve avere una lingua comune almeno con tutta la Lombardia, la Romagna e la Marca d’Ancona. Ma non credo, che ci sia la stessa ragione naturale per averla comune con le nazioni, che sono al di là dell’Apennino»), Denina vede la soluzione più pratica e più vantaggiosa per il «comodo de’ Letterati, e del commercio» nell’adozione del francese, lingua equidistante dal dialetto piemontese rispetto all’italiano. Cioè in una politica opposta a quella promossa da Vittorio Amedeo: «forse era meglio introdur nelle scuole, e ne’ tribunali la lingua Francese, che l’Italiana, come ancor si usava nella valle di Susa fin verso la fine del regno di Carlo Emanuele» (e poco oltre, la polemica con il sovrano si muta in attacco velato, ma diretto, contro il Galeani Napione 105). Sorta di utopia anti-risorgimentale, in singolare controtempo con le tendenze che si andavano definendo sempre più nettamente nel Piemonte di quegli anni, il vagheggiamento di una francesizzazione sistematica della madrepatria aveva radici profonde nel Denina, che durante gli anni dell’occupazione napoleonica tornerà ad esprimersi ancor più apertamente in tal senso. Sebbene anche in questo caso sia difficile dargli pieno credito, Denina cerca sempre di fondarsi su ragioni meramente pratiche. Così, nel Pensiero che segue quello sulle Lingue, dedicato all’America rivoluzionaria, egli torna sulla questione dell’uso internazionale del francese e immagina che, «Liberi, e padroni di badare del resto unicamente alle cose», gli abitanti dei neonati Stati Uniti possano «far senza libri Francesi, senza lingua Francese, e se si vuole, eziandio senza la latina, e la Greca», servendosi unicamente dell’inglese, lingua ch’egli giudicava del tutto idonea alla trattazione di qualsiasi materia: «i libri degli Americani avranno tanto più facilmente pregio tra noi, quanto e’ si piglieranno meno pensieri d’imitare i libri nostri, studiare le nostre lingue» 106. Parole che potrebbero apparire profetiche, se il loro sentore di provocatoria iperbole non fosse sùbito conferma105 Come nota Dionisotti 1976, p. 29, «dopo aver manifestato la sua repugnanza ai provvedimenti intesi a reprimere l’uso della lingua francese (...), ironicamente aggiungeva: “In ogni modo il nuovo intendente di quella provincia seconderà, meglio sicuramente che non farebbe qualunque altro, l’intenzione del Legislatore”. Il nuovo intendente era il Galeani Napione che, chiamato in causa, finì col dover rispondere. Ma prese tempo a rispondere, sei anni», cioè fino alla pubblicazione del trattato Dell’uso e dei pregi. 106 Denina 1792, p. 391. 251 to dalla constatazione che la «Gallomanìa» 107 di cui avrebbe potuto andare indenne Jefferson non avrebbe però risparmiato Benjamin Franklin – insomma, che assai difficilmente i migliori tra i letterati americani avrebbero potuto davvero recidere i loro legami con la cultura francese (legami che al linguista Denina dovevano sembrare viepiù stretti in considerazione della poderosa impronta lasciata dalla stessa lingua francese su quella inglese 108). Nella sua inclemente recensione al Discorso sopra le vicende della letteratura, il Baretti aveva rimproverato al Denina, «Ercole bambino», una conoscenza fin troppo superficiale della lingua e della cultura inglesi, e una tendenza a trasvolare disinvoltamente attraverso i secoli e attraverso le letterature, forte di una dottrina più esibita che posseduta e maturamente elaborata: «Questo discorso – aveva esordito Aristarco Scannabue sulla sua “Frusta” – è pieno come un uovo di quella erudizione, il di cui acquisto costa poca fatica di mente, ma di schiena moltissima» 109 (che, facendo la tara alla consueta mordacità del recensore, potrebbe quasi apparire come un apprezzamento). Che la scelta deniniana del francese per lo scritto autobiografico pubblicato nella Prusse littéraire non fosse davvero pacifica è suggerito anche dal fatto che a quanto pare fu lui stesso a commissionarne – o comunque a controllarne – la traduzione eseguita nel 1792 dal nipote Carlo Marco Arnaud (il destinatario, nel 1803, del «discorso in forma di lettera» Dell’uso della lingua francese 110), rimasta inedita fino alla fine del secolo scorso 111. Non sono chiari i motivi che spinsero a quest’intrapresa: forse l’autore in107 Si tratta di una delle prime occorrenze note del termine, che a quanto pare fu coniato dal Bettinelli nel 1780 (DELI s.v. Gallo con rimando a Fanfani 1986, p. 64, il quale riporta anche occ. del 1784 in Matteo Borsa (che del Bettinelli era parente) del 1786 in Giovan Battista Garducci): ma per l’esempio deniniano bisognerà forse pensare a un caso di poligenesi a partire dai vari composti simili (in primis anglomania) già circolanti all’epoca. 108 Cfr. Denina 1985, p. 28 («Au reste la langue angloise s’est prodigieusement enrichie par la liberté qu’elle conserve de prendre tous les mots qui lui conviennent des autres langues et sourtout de la françoise») e p. 33 («on pourroît dire que les anglois ont emprunté du françois bien plus que les termes de cuisine et de guerre»). 109 Baretti 1932, I, p. 218. 110 Il testo è stato pubblicato da Claudio Marazzini in Denina 1985, pp. 65-102. 111 Essa è tramandata da due manoscritti della Reale di Torino. L’ha pubblicata Fabrizio Cicoira (Denina 1990) con un titolo, Autobiografia berlinese, che di fatto non coincide con quello concordemente riportato dai due testimoni: Vita di Carlo Denina pubblicata in Lingua Francese da lui medesimo nella Prussia Letteraria all’articolo Denina, e tradotta nell’Italiana e riformatada un Accademico Unanime, ed arricchita di Aggiunte ed Annotazioni. 252 tendeva ripubblicare il suo saggio in Italia, o comunque renderlo direttamente accessibile a un pubblico italiano più vasto di quello piemontese. Di fatto, nella traduzione manoscritta, in cui sono generalmente eliminati i riferimenti all’Accademia berlinese, varie modifiche interessano anche le pagine relative alle questioni linguistiche. Un accenno potenzialmente antifrancese è inserito a conclusione del passo sul progetto del dizionario etimologico sotto forma di equilibrata – e complessivamente corretta – deduzione storico-linguistica («L’osservazione generale che ho fatto più volte si è, che in vece di chiamare il dialetto piemontese un francese corrotto, è più giusto il dire che il francese è latino assai più sfigurato e stropio, che non è il piemontese» 112: ma si trattava di uno spunto largamente trattato anche nei mémoires berlinesi 113). E l’intera digressione conclusiva sulla scelta della lingua straniera viene tagliata, risultando evidentemente incongrua in una traduzione di questo tipo. In entrambi i casi si tratta d’interventi palesemente intesi ad avvicinare l’opera a un pubblico italiano. Sempre che all’autore esse vadano riferite (come pure appare plausibile) e non al traduttore, tali modifiche paiono rivelare una tendenza a modulare oculatamente la scrittura autobiografica declinando anche la riflessione linguistica con accenti condizionati dall’intento apologetico che sorregge l’intera operetta. 112 Denina 1990, p. 91. Cfr. ad esempio quello del 1785 pubblicato in Denina 1985, p. 21: «Nous observons ici que plus la langue française a défiguré les mots latins, plus elle s’est réservé de ressources pour s’enrichir après qu’elle a été formée», in cui lo stesso spunto è di fatto sviluppato in termini positivi. 113 253 DAL VECCHIO AL NUOVO MONDO 1. Una Storia compendiosa e un Extract «È già lungo tempo che promisi agli amici miei la storia della mia vita. Manterrò tra poco la mia parola. Alcune ragioni però m’indussero a pubblicar per ora queste poche notizie. Se mai arrivano in Inghilterra, spero che quelli la leggeranno che profittano iniquamente della mia lontananza per usurparmi eziandio quel poco che i perfidi m’han lasciato, e che ho affidato pria di partire a un’apparente onestà» 1. La prima autobiografia di Lorenzo Da Ponte risale al 1807 e ha un aspetto decisamente diverso da quella che egli licenzierà, oltre un ventennio più tardi, di cui pure si presenta come un abbozzo provvisorio. Con le parole appena riportate si apre una breve operetta bilingue, Storia compendiosa della vita di Lorenzo Da Ponte – Compendium of the life of Lorenzo Da Ponte, uscita dai torchi newyorkesi del libraio Riley nel cinquantottesimo anno di vita del librettista. L’autore è giunto in America da due anni e ha già abbandonato l’emporio aperto nel settembre del 1805 a Elizabeth Town nel New Jersey (oggi Elizabeth, nella contea di Union, al limite estremo della metropoli), per stabilirsi a New York. Più che un abbozzo in scala ridotta delle successive Memorie, la Storia compendiosa è un succinto testo che dell’opera maggiore anticipa solo alcuni caratteri e i moventi narrativi di fondo, concentrandosi su una limitata tranche cronologica. A muovere l’autore è un intento apertamente apologetico e promozionale: Da Ponte si presenta al pubblico della città in cui egli sta avviando l’unica attività destinata al successo tra le molte da lui tentate nel rocambolesco avvio della sua stagione americana, ossia l’insegnamento della lingua e della letteratura italiane (nonché, subordinatamente, di quelle latine) per le giovani borghesi della città. Il corso iniziò nel dicembre del 1807, grazie all’aiuto dello stesso libraio Riley presso il quale esce il volumetto bilingue. 1 Da Ponte 2003, p. 3. Da quest’edizione sono tratte, nel seguito, le citazioni relative alla Storia compendiosa e alla Introduzione alla Letteraria Italiana conversazione. 255 L’opuscolo mostra, dunque, vari caratteri tipici della scrittura autobiografica dapontiana: la rappresentazione di sé come propagatore appassionato della lingua e della cultura italiane oltre Manica e oltre Oceano, e al tempo stesso il rapporto pragmaticamente aperto e simpatetico con la cultura inglese e americana; la tendenza all’autocommiserazione, naturale complemento di una propensione altrettanto forte alla polemica; un’amara sfiducia nei confronti del prossimo e una risentita denuncia della malevolenza di nemici veri o presunti, sistematicamente opposta alla propria ingenua bonomìa, alla «solita dabenaggine» (p. 16), allo «smoderato amore di far del bene che fu la principale sorgente della mia perdita» (p. 8). Il volumetto che contiene la Storia compendiosa è dunque interamente bilingue: dopo una breve premessa, in cui versione italiana e versione inglese sono riportate l’una di seguito all’altra, il Compendium prosegue con la caratteristica mise en page del testo a fronte. Nell’intestazione del volume (si noti la lieve discrepanza tra i titoli del frontespizio – Storia compendiosa e Compendium of the life – e quelli presenti in esordio del testo – Compendio della vita e Summary of the Life, pp. 4-5), il testo italiano precede quello in inglese lasciando supporre che Da Ponte abbia originariamente scritto la Storia nella propria lingua materna, traducendola successivamente e forse valendosi della revisione di qualcuno (probabilmente della moglie, l’inglese Nancy) 2. Di fatto, la traduzione appare se non elegante, corretta e priva di vistosi italianismi: di qualità comparabile, insomma, a quella del mannello di testi pubblicati in appendice al volume, riproduzioni di quelli letti il 10 marzo 1807, giorno del cinquantottesimo compleanno di Da Ponte, al cospetto della famiglia Moore, principale protettrice e sponsor delle attività culturali promosse dal cenedese a New York. Si tratta di una Introduzione alla Letteraria Italiana conversazione – sorta di allocuzione celebrativa dedicata all’insegnamento dell’italiano a New York – seguita da una scelta di testi letterari italiani classici (Dante, Petrarca, Ariosto) e moderni (Metastasio e lo stesso Da Ponte), tradotti dai primi allievi raccoltisi nel cenacolo dapontiano, cioè Clement-Clark e Nathaniel Moore, John Mc Vickar, Edmund Pendleton e i figli dello stesso Lorenzo, Louisa e Giuseppe. 2 Nel caso di un’orazione composta a New York contro un avvocato irlandese «il cui principale scopo era di denigrare, calunniare e avvilire il nome e il carattere della nazione italiana», Da Ponte precisa esplicitamente di aver scritto il testo in italiano: «e, per renderla a tutti comune, tradur la feci in inglese» (V.14). Data la confidenza che egli dovette raggiungere con l’inglese nel corso dei suoi anni americani, è pure possibile che Da Ponte abbia in altri casi tradotto egli stesso i propri scritti in inglese, ricorrendo a un revisore. 256 Tornando al Compendio, come si è detto non si tratta di un’organica narrazione biografica: la vita di Da Ponte vi è narrata di fatto limitatamente al periodo inglese e a quello americano, cioè agli anni successivi al 1793 3: su infanzia e giovinezza del poeta sorvola rapidamente solo la frase iniziale dell’operetta: «Vissi fino all’età di ventinov’anni in Italia, ora studiando in varj collegj le belle lettere, ora insegnandole agli altri» (p. 4). Anche per il periodo oggetto di maggiore attenzione, però, un più disteso e dettagliato resoconto è spesso rimandato alla redazione delle Memorie, di cui l’autore ha evidentemente già concepito il disegno: ad esempio dove – narrando del fortunoso viaggio verso il nuovo Continente – si dice che «la crudeltà ed avarizia del capitano di quel vascello formeranno un lungo ed instruttivo capitolo della mia storia» (p. 14), o ancora dove Da Ponte invoca la solidarietà dei lettori nel ripercorrere le proprie sventure: «per questi soli, e non per quelli che ridono, ho scritto questo compendio, e pubblicherò per questi soli, non andrà molto, la storia dolente della mia vita» (p. 28). Autore di innumerevoli testi teatrali in versi e di una cospicua produzione lirica di stampo arcadico, Da Ponte non è del tutto nuovo, a questa data, alla pubblicazione di testi in prosa, anche se quasi sempre essi erano stati, in precedenza, funzionali o appendicolari ad opere poetiche (ad esempio: le Piacevoli noterelle pubblicate a Londra nel 1795 in polemica con Carlo Francesco Badini 4). Così, la prosa della Storia compendiosa rappresenta, di fatto, un primo esperimento narrativo e dimostra, nella particolare asciuttezza e linearità che la caratterizza, un indiretto legame con la corrispondente redazione inglese, alla quale l’andamento brachilogico e paratattico sembra predisporla. L’esposizione delle vicende biografiche procede dunque perlopiù per giustapposizione di brevi membri frasali, come accade ad esempio nelle pagine dedicate alle disavventure finanziarie patite durante il periodo londinese: 3 Sul periodo londinese di Da Ponte, cfr. la ricostruzione di Lorenzo Della Chà in appendice a Da Ponte 2007, II, pp. 865-1007. 4 Il pamphlet si legge ora in Da Ponte 2007, II, pp. 685-721: Badini era il predecessore di Da Ponte nella carica di poeta del King’s Theatre, e l’autore di un pamphlet stroncatorio sulla sua prima opera londinese, La scola de’ maritati. Ribattendo punto per punto al Badini, che celandosi sotto lo pseudonimo di Nemesini non si era peritato di ironizzare sulle origini ebraiche e sui trascorsi ecclesiastici del rivale, Da Ponte compone un testo in forma di dialogo, con alternanza tra Osservazioni e Risposte e inserzione di brani in versi tratti dall’opera e testi poetici composti per l’occasione. 257 Mi pagarono allora della medesima maniera. Chi fuggì, chi fallì; chi andò prigione; chi si rise di me e chi cercò di far credere agli altri ch’io l’avevo rubato. Dopo due anni di mortali angosce fui costretto a vendere tutto all’incanto e prima d’ogni altra cosa la libreria, per pagare cinque mila ghinee di debiti contratti in tal modo. (...) Dopo aver dato quant’ebbi, domandai tempo pel rimanente. Questo tempo mi fu negato. La mia libertà era continuamente in pericolo. (p. 10) Tale andamento è tanto più notevole in quanto da un lato non è disgiunto dal ricorso a forme e costrutti preziosamente letterari, e da un altro contrasta con la prosa dell’Introduzione alla Letteraria Italiana conversazione, ben più elaborata e preziosa. L’omogenea patina letteraria che caratterizza la Storia compendiosa coinvolge, dunque, in minima misura la fonetica e la morfologia (es.: la forma monottongata core, ormai decisamente fuori corso 5, l’uso del condizionale saria, p. 20 6, del participio passato ito, pp. 10, 26 7, dell’avverbio pria, p. 20 8; ancor meno significativi l’uso di lo e li in sequenza con per 9, e la forma pronominale quai, «quai fossero», p. 24, rapidamente declinante nel corso dell’Ottocento 10), mentre caratterizza con maggiore continuità la microsintassi. Ad essa si possono ricondurre, ad esempio, costrutti come gli iperbati («quelli la leggeranno che profittano», p. 3), le distanziazioni 5 Cfr. Antonelli 2003, p. 89 («in un quadro di schiacciante predominio del dittongamento toscano, non mancano forme con monottongo (...). Per il tipo core, ad esempio, si potrà ipotizzare un’influenza della lingua poetica, magari attraverso la mediazione del melodramma»). Il tipo monottongato è ovviamente costante sia nei Saggi poetici (47 occ. nei testi di Da Ponte 2005, per i quali si ringrazia il curatore di aver messo a disposizione un testo in versione digitale) sia nei libretti (109 in quelli mozartiani, teste la LIZ). 6 Cfr. Antonelli 2003, p. 164: «questo tipo di condizionale (...) risulta ormai relegato al ruolo di eccezione, impiegato da scriventi per i quali il confine tra modello letterario e prassi epistolare è molto permeabile». 7 Forma decisamente minoritaria rispetto ad andato nei testi spogliati da Antonelli 2003, p. 166. 8 Ovviamente endemica nei testi dapontiani in verso: 42 occ. nei Saggi poetici, 16 occ., teste la LIZ, nei libretti mozartiani: ma non ne mancano sette esempi anche nelle Memorie II. 9 Cfr. Serianni 1986, p. 166: «al compatto blocco dei per lo presenti, per amor di Trecento, nel Cesari e nel Botta, risponde, come osserva il Migliorini (Storia, 630), l’opzione dei Toscani in favore di per il (pel); e, tra i Toscani, del Manzoni che già nella ventisettana elimina i tipi per lo passato, per lo meglio, per lo fesso della prima stesura». 10 Teste la LIZ, si tratta di una forma largamente impiegata dai prosatori del Settecento (da Vico ad Alfieri, con continuità ed abbondanza d’attestazioni), e ancora occasionalmente attestata in opere come le prose d’arte del Pindemonte (1 occ.) o lo Zibaldone di Leopardi (1 occ.), poi del tutto assente negli autori del pieno e tardo Ottocento: le ultime occorrenze registrate dalla banca dati provengono, significativamente, dalla prosa espressionistica di Carlo Dossi. 258 dell’ausiliare dal participio («la mia intrapresa era da’ dotti Inglesi protetta», p. 8); la loro inversione («è vero che mia moglie risparmiato aveva qualche danaro», p. 14, «un diamante del valor di trecento scudi, che la sorella mandato le aveva», p. 20); i costrutti «col verbo in punta», di sapore boccacciano, in alcune perifrasi verbali («all’età in cui gli altri a faticare incominciano», p. 22); l’anteposizione dell’aggettivo in contesti in cui la lingua d’uso ottocentesca lo avrebbe posposto («mortali angosce», p. 10); il ricorso all’enclisi pronominale con verbi di modo finito, più frequente rispetto alla consuetudine primo-ottocentesca («dodici arrestatori cercavanmi», p. 12, «ma ella avealo acquistato», p. 14); e infine il ricorso a una forma piuttosto rara nella prosa del tempo – e ben più frequente in poesia – come il plurale poma 11 (p. 18: accanto al consueto ova). Ancor più sostenuta la lingua dell’Introduzione alla Letteraria Italiana conversazione, caratterizzata da preziose movenze oratorie e da un tasso di letterarietà ben rilevabile a tutti i livelli, fin dal maestoso esordio celebrativo della libertas americana (un tema toccato con maggiore understatement anche nella Storia compendiosa 12), lungo periodo aperto da una subordinata pseudo-condizionale al di sotto della quale si snodano due altri livelli di incassatura, e culminante in una interrogativa essa pure intermessa da una relativa. Non è strano che la corrispondente traduzione inglese appaia ben più stentata rispetto a quella del Compendium: Se i più conspicui Letterati d’Italia, per risvegliar il buon gusto nelle umane Lettere, e particolarmente nella volgare poesia instituirono in Roma, città sempre grande ma non mai libera, una Conversazion Letteraria, che quasi tutti abbracciando i più begli ingegni d’Europa, al rinomatissimo collegio Arcadico diede glorioso cominciamento; perché non potremo noi in un paese libero, ove dai laccj della tirannide non sono inceppati gl’ingegni, né i coraggiosi slancj dell’estro, e della ragione impediti, correr le medesime mete? (p. 30) If the most celebrated men of learning in Italy, in order to excite a pure taste for literature, and particularly for Italian Poetry, instituted in Rome (a city ever illustrious, though not always free) a Literary Society, which ranked among its members La LIZ[700, prosa] fornisce occorrenze nel solo Vico. Per la diffusione in poesia, cfr. Serianni 2009, pp. 164-65, con «esempi poetici dal XVIII secolo in avanti». 12 Cfr. Da Ponte 2003, p. 12: «Sapevo bene che il mio talento drammatico mi varrebbe poco in questo paese, ove pochissimo l’Italiana favella era conosciuta; ma io amava gli Americani per simpatia». Agli Stati Uniti d’America è dedicata una canzone pubblicata nel 1808 in cui Da Ponte esorta le ex-colonie americane a intervenire al fianco dell’Inghilterra nella guerra antinapoleonica (cfr. ora Da Ponte 2005, pp. 215-19). 11 259 nearly all the brightest geniuses of Europe, and gave rise to the far famed Arcadian College; why may not we, who enjoy the blessing of a free country, in which the mind is not straitened, nor the daring efforts of imagination or reason restrained by the fetters of tyranny, enter upon the same course, and, in process of time, arrive at the same goal? (p. 31) Abbondano in questo testo più ancora che nel compendio biografico le apocopi di sapore letterario, più frequenti che nell’uso consueto della prosa («infaticabil fervore», p. 32, «infiammiam colla voce», p. 32, «facciam che la utile», p. 32, ecc.), le giunture di gusto arcaizzante (come l’allocuzione latineggiante agli «ornatissimi giovani» accostata a quella poetica alle «vaghe ed amorose Donzelle», p. 30), le coppie aggettivali care alla tradizione lirica («dolce e gentil linguaggio», p. 30, «fragranti e deliziosi fiori», p. 32, «lieta e fastosa ... l’ombra venerabile del gran Colombo», p. 32), i costrutti con anteposizione dell’aggettivo («del letterario incremento», p. 32, «gran cigni onde l’Italico Elicona va tanto altero», p. 32) o con sequenza artificiale dei componenti verbali («ad infiammare discese», p. 30, «considerare dobbiamo», p. 32): referti minimi, ma bastevoli a documentare una tensione oratoria ben maggiore rispetto al compendio biografico. Di dieci anni successiva è la seconda tappa di avvicinamento all’ampio disegno delle Memorie, cioè an Extract from the life of Lorenzo Da Ponte (sottotitolo: «with the history of several dramas written by him, and among others, Il Figaro, Il Don Giovanni, e la Scola degli amanti»), pubblicato «by the author», come recita il frontespizio, per i tipi di Gray, nel 1819. Al centro dell’opera, la polemica con una recensione della messa in scena londinese del Don Giovanni mozartiano uscita in un giornale scozzese del marzo 1819, nella quale l’autore del libretto non veniva nemmeno citato. Trattandosi di una rivista piuttosto diffusa negli ambienti della borghesia newyorkese, Da Ponte ritenne quell’omissione gravemente lesiva della sua immagine pubblica, e incentrò l’Extract – pubblicato in inglese, senza l’accostamento di un testo in italiano – sulla sua carriera di poeta teatrale. Un esordio abrupto affronta direttamente gli anni della maturità professionale dell’autore, senza che quelli della formazione vengano nemmeno citati di passata, com’era avvenuto nella Storia compendiosa: «In the year 1782 I was appointed Poet of the Italian Theatre at Vienna, by the Emperor Joseph. I immediately turned my thoughis to the Drama, a field in the regions of poetry in which I had never before ventured» 13. 13 260 Cfr. Da Ponte 1999a, p. 34. Dalla composizione del Ricco d’un giorno alle rivalità con Giovanni Battista Casti, dalla collaborazione con Mozart alla rivendicazione della dignità e dell’importanza del proprio lavoro per il successo teatrale dei melodrammi: struttura e focus dell’opera non sono meno parziali e idealmente orientati rispetto alla Storia compendiosa, ma appaiono in un certo senso complementari a quella. L’Extract culmina infatti con un esplicito affondo contro il recensore scozzese, accusato di ignorare il pregio del libretto del Don Giovanni e di trascurare il peculiare rapporto che esso ha con la partitura mozartiana di quell’opera, «because Mozart knew very well that the succes of an opera depends, first of all, on the poet». L’Extract non racconta una vita, ma una ben precisa stagione professionale e creativa, la cui ricostruzione è tutta funzionale all’intento polemico. Qualcosa di simile alla narrazione autobiografica “parziale” sperimentata a suo tempo da Casanova nel Duello e nella Histoire de ma fuite, o – pur con taglio e intenti diversi – da Pietro Verri nelle sue Memorie sincere, o ancora dal Denina nell’opera di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Ma più che a modelli o a suggestioni provenienti dall’esterno, struttura e significato dell’Extract sono riconducibili all’impiego combinato di tecniche narrative interne all’opera dapontiana: rivivono qui le forme tipiche del pamphlet d’occasione ben familiare, come s’è detto, all’autore; ma al tempo stesso, l’«estratto» si collega alle ormai imminenti Memorie in un rapporto strettissimo, al punto che l’editore moderno, Lorenzo Della Chà, ha potuto accompagnare il testo inglese con una traduzione italiana attinta per lunghi stralci direttamente alla prima edizione dell’opera maggiore, perfettamente sovrapponibili ai corrispondenti passi dell’Extract 14 (ferme restando le non poche divergenze sostanziali che i due testi presentano nel resoconto di singoli eventi della vita dell’autore 15). Si veda ad esempio la descrizione del Re Teodoro, Da Ponte 1999a, pp. 40-43. Testo inglese: «The action was languid, the characters insipid, the catastrophe improbable, and almost tragic; the parts in fine were beautiful, but the drama, upon the whole was contemptible. It brought to my mind the idea of a jeweller who had destroyed the effect of several gems for want of skill in their arrangement and symmetry. I was then graeatly consoled with regard to the defects of my own drama, which I could plainly perceive. I learned that every good poet (for such undoubtedly was Casti) could not write a good drama». Testo italiano: «L’azione era languida, I caratteri insipidi, la catastrofe inverisimile e quasi tragica; le parti insomma erano ottime, ma il tutto era un mostro. Mi parve di veder un gioielliere che guasta l’effetto di molte pietre preziose per non saper bene legarle e disporle con ordine e simmetria. Mi confortai dunque pe’ difetti del Ricco d’un giorno, ch’io chiarissimamente vedeva [...]. Conobbi allora che non bastava essere gran poeta (giacché in verità tale era Casti) per comporre un buon dramma». 15 Cfr. quanto osserva Della Chà in Da Ponte 1999a, pp. 25-26: «Divergenze fra i due te14 261 Le osservazioni metalinguistiche sono complessivamente marginali nell’Extract, che d’altra parte risulta dalla traduzione (ad opera d’altri: forse di uno dei figli di Lorenzo) di un testo in italiano. Uno degli argomenti principali dell’autodifesa dapontiana riguarda la qualità delle traduzioni dei suoi libretti, che egli considera generalmente inadeguata, al punto da aver nociuto alla sua fama di poeta teatrale: citando una versione inglese dell’aria Voi che sapete, pubblicata a Londra nel 1812, Da Ponte vi contrappone quella, invero ben più elegante, di «a young gentleman whom I had the happiness to instruct in the Italian Language» (p. 64). Più oltre, rivolgendosi al recensore della rivista scozzese, gli attribuisce sarcasticamente e antifrasticamente la conoscenza della lingua italiana che si converrebbe a una persona nella sua posizione, accusandolo poco oltre di aver discettato tamquam a cathedra di testi scritti in una lingua a lui di fatto oscura 16. L’inadeguatezza dei traduttori stranieri, a suo tempo biasimata da Bettinelli nel suo Discorso sopra la poesia italiana, è del resto un motivo tipico della cultura italiana tardosettecentesca 17. Ma si tratta anche di osservazioni strumentali a un motivo sotteso all’intero Extract: la promozione internazionale dell’italiano come lingua indispensabile alla cultura poetica, musicale e umanistica in genere. Quell’«idioma che – con le parole dell’Introduzione alla Letteraria Italiana conversazione – per copia, dolcezza e soavità di parole e di stile pareggia, o sorpassa quelli delle più colte nazioni dell’universo; che vanta un infinito numero di letterati e di genj non inferiori ai Greci medesimi; e che non può da altri essere stato invientato che dalle Grazie e da Amore»: quell’idioma – l’italiano – si offre, agli occhi di Da Ponte, come il miglior viatico all’arricchimento culturale della giovane nazione americana. sti, come ad esempio alcuni particolari del racconto circa la genesi delle Nozze di Figaro (...) o del Don Giovanni (nell’Extract Da Ponte narra che fu Mozart a volere un libretto tratto da quel soggetto, mentre nelle Memorie I, ii, p. 99, attribuisce a sé stesso il merito della scelta), possono creare perplessità ma anche aiutare il lettore a una più corretta visione dell’insieme». 16 Cfr. Da Ponte 1999a, p. 74: «Because it is evident, from several part of your publication, that you are a perfect Italian scholar (as a person in your situation ought to be) and can judge for yourself of the merit of a piece without the assistance of a translation, and even in spite of its defects». E poco oltre: «[How could you have] spoken (to use your own phrase) of the whole business, tamquam a cathedra, as a judge, a critic, and a public instructor without being well acquainted with the language of the composition of which you were writing?». 17 Se ne veda l’edizione in Bonora 1969, pp. 1057-1111, in particolare p. 1073; «Ma i traduttori stranieri io prego principalmente e scongiuro, i traduttori, dico, de’ nostri poeti, a ben ponderare cotai verità e a ben imparare la nostra lingua. Se sapessero qual prendono impegno e quanto pericoloso, non sì frequenti sarebbono, in Francia per esempio, né sì arditi a venire in lotta con Dante e Petrarca, con Ariosto e Tasso, come fan tutto giorno». 262 2. Pochi tagli e troppe aggiunte La prima edizione delle Memorie (di qui innanzi Memorie I 18) venne impressa dagli stampatori Grey e Bunce tra il 1823 e il 1826, in quattro volumetti. Fausto Nicolini, descrivendo Komposition ed Entstehung di quest’opera, ha ipotizzato che l’autore possa essere stato mosso dall’intento di contrastare, o forse di prevenire, un pamphlet del suo principale rivale a New York, il frate sfratato Marc’Antonio Casati, che si contendeva con Da Ponte il mercato locale dell’insegnamento dell’italiano. Nuovamente allontanatosi dalle rive dell’Hudson nel 1811, il librettista aveva soggiornato alcuni anni tra Sunbury e Philadelphia, per poi tornare in città su invito di Clement Moore, e ingaggiare col Casati una strenua corsa all’accaparramento di allievi per i suoi corsi di lingua e di letteratura: lotta combattuta, a quanto pare, a colpi di insinuazioni e reciproci tentativi di screditare l’avversario. Tali circostanze si ripercuotono su due caratteri peculiari dell’autobiografia dapontiana: da un lato, la sua funzione manifestamente apologetica (strumentale, cioè, a un’immagine moralisticamente agiografica dell’autore, costretto a liberarsi dalla nomea di «canaglia» e di «mediocre soggetto» che egli aveva lasciato dietro di sé, né solo in Europa 19); da un altro lo stretto legame con la pratica dell’insegnamento dell’italiano, che induce Da Ponte a presentare la propria opera come exemplum stilistico ad uso dei suoi allievi, e come manifesto del suo impegno di divulgatore culturale. Nella parte V dell’autobiografia, aggiunta nella seconda edizione (d’ora in avanti: Memorie II), Da Ponte si giustificherà esplicitamente con la ricerca di un’alternativa allo studio di autori e di opere («le scelte novelle del Boccaccio..., le lettere del Bentivoglio, ... le Notti romane del Verri, ... le Lettere di Foscolo»: si noti l’accostamento ormai disinvolto tra anciens e modernes 20) la cui lettura risultava troppo ostica ai suoi allievi 18 Le citazioni delle Memorie I rimandano alla pagina dell’unica edizione esistente (Da Ponte 1823-1827). 19 In tali termini si esprimeva Pietro Antonio Zaguri, «che era, pur, forse, il più tollerante dei senatori veneti, e nutriva o aveva nutrito pel nostro autore così paterna e indulgente benevolenza, da accoglierlo in casa propria e da far il possibile per salvarlo dai tanti cattivi passi, in cui la sua pessima testa lo faceva assai spesso impigliare» (così Nicolini nella nota a Da Ponte 1918, p. 256). 20 Antichi e moderni si accompagnano anche nella menzione delle opere che Da Ponte raccomanda per l’insegnamento dell’italiano: «Ebbi il piacere io medesimo d’insegnarla [ = la lingua italiana] a più d’uno, e di mandare molt’opere italiane a quella città, e tra l’altre, quelle di Machiavelli, di Beccaria, di Filangieri e di Gioia». Ancor più esplicitamente, un canone poetico e letterario in cui gli autori dei primi secoli si accompagnano a quelli contemporanei è pro- 263 americani. «Risolvetti allora di scrivere queste Memorie, e scelsi studiosamente uno stile semplice, facile, naturale, senza affettazione, senza fioretti, senza trasposizioni e periodi lunghi col verbo in punta, e preferendo assai sovente le parole usitate e non di Crusca alle antiquate o poco in uso, quantunque passate pel gran frullone; e il mio disegno fu felicissimo» (V.25) 21 – dove, oltre all’atteggiamento anti-purista, balza all’occhio il solito ingenuo tono di autoesaltazione. Quanto alla struttura, le Memorie I – la cui narrazione giunge fino al 1819 – ripropongono su scala maggiore un carattere già presente, e anzi ancor più marcato, negli scritti autobiografici precedenti: la sproporzione, cioè, tra lo spazio dedicato a infanzia e giovinezza e il progressivo rallentamento del ritmo di mano in mano che la narrazione procede: un difetto che fu notato già dai lettori contemporanei, e da cui Da Ponte si difese contrapponendo il principio enunciato dal motto con cui le Memorie I si concludono («Omnia non dicam, sed quae dicam, omnia vera» 22) a quella che egli riteneva la mancanza di selezione di un modello tanto recente quanto incombente, l’autobiografia casanoviana, che andava uscendo a stampa proprio in quegli anni. «Se avessi potuto dire tutte le cose – scrive Da Ponte in una lettera a Filippo Pananti, riferendosi alle accuse di scarsa unità mossegli da Giuseppe Montani – vi si sarebbe forse trovata più concatenazione nei fatti come trovasi nella vita di Casanova. Ma Casanova disse tutto: forse troppo: e qualche volta il non vero» 23. Il problema, evidenposto in una pagina della parte V: «Alla lettura de’ nostri autori, voi facilmente potete intendere e dire, quanto agevole mi sarebbe abbagliare, innamorare, stordire, offrendo de’ saggi d’incomparabile grandezza, sublimità, originalità nel poema di Dante; di soavità, di dolcezza ineffabile ne’ versi che immortalarono Laura; di gentilezza, di purità, di eloquenza nel più leggiadro e brillante di tutti i novellatori; di fantasia, di vivacità impareggiabile nell’antonomasticamente divino Ariosto; di maestosa epica magnificenza nella tromba del gran Torquato; di beltà pastorale, d’inarrivabile affetto, di novità tutta tragica nel Guarini, nel Tasso stesso, nel Metastasio, nell’Alfieri; potrei ancora far mostra di mille e mille bellezze liriche che brillano in una nobilissima schiera di moderni poeti che voi ben conoscete; bellezze che da un secolo in qua rendono oggetto di particolare ammirazione un Manfredi, uno Zappi, un Frugoni, un Savioli, un Gozzi, un Parini, un Mazza, un Labindo, un Cesarotti, un Varano, un Casti, un Foscolo, un Manzoni e i due sommi Nestori del toscano Parnasso, Ippolito Pindemonte e Vincenzo Monti!» V.69. 21 Nella citazione delle Memorie II si adotta il sistema di rimandi impiegato dalla LIZ, il cui testo è tratto dall’edizione di Gambarin-Nicolini (Da Ponte 1918). 22 Nelle Memorie II il motto è mutato in «omnia nunc dicam...», e si tratterebbe evidentemente di modifica decisiva circa il significato del motto: se non che, con nunc al posto di non, la congiunzione sed sembrerebbe perdere la sua ragion d’essere: è perciò probabile che si tratti di un banale errore di stampa. 23 Lettera del 28 novembre 1828, in Da Ponte 1995, p. 300. Un giudizio sull’autobiografia 264 temente, non era quello della selezione bensì quello della proporzione fra le parti. Ad appesantire la struttura generale dell’opera contribuisce nelle Memorie I come già nei precedenti “saggi” autobiografici, l’inserzione alla fine di ciascun volumetto di appendici tanto copiose quanto estrinseche, come le novanta pagine del Catalogo ragionato de’ libri che si trovano attualmente nel negozio di Lorenzo e Carlo Da Ponte in calce al volume I, o le traduzioni byroniane riportate al termine del volume II, che frammentano ulteriormente un testo già intermesso da digressioni, citazioni di opere altrui (come i materiali relativi alle polemiche col Casati, riportati in inglese nel testo) o lunghi componimenti poetici, come ad esempio i Salmi composti dallo stesso Da Ponte, e destinati a rimanere anche nelle Memorie II: «ripubblico qui cinque di questi salmi, essendo questo il lor proprio loco; e desidero che il mio leggitore ritrovi in questi qualche compenso della noia recatagli da tant’altri versi, ch’io pubblicai in questa Vita»; si tratta in genere di citazioni più contenute (per la verità nelle Memorie I ad essere pubblicati sono solo quattro dei cinque Salmi composti dall’autore). Insomma, la disorganicità del disegno complessivo e la sproporzione tra le parti era un vistoso difetto delle Memorie I, che nemmeno il passaggio alla seconda edizione elimina, e anzi, in un certo senso aggrava aggiungendo materiale in coda alla narrazione originaria e potando soprattutto la parte iniziale della prima versione. Da Ponte resta insoddisfatto delle Memorie I, ma – stando almeno alle sue dichiarazioni – per cause diverse dallo squilibrio macrotestuale che affligge la struttura complessiva. Come risulta dalle lettere degli anni immediatamente successivi all’uscita della princeps, il suo cruccio riguardava più l’accuratezza tipografica e la veste linguistica delle Memorie I che la loro architettura generale. A più riprese, nei messaggi ai suoi corrispondenti, l’autore si lamenta dell’imperizia dei tipografi americani (392 gli errori di stampa da lui contati, come si legge in una lettera a Filippo Pananti del 1829 24), attribuendola alla conoscenza ancora scarsa dell’italiano a New York («prima del mio arrivo in America che accadde il 4 di Giugno dell’anno 1805 non se ne sapeva d’italiano più casanoviana si legge anche nelle Memorie II: «Io non dico già ciò, per togliere un jota al merito di Giacomo Casanova, o a quello delle sue memorie, che sono scritte con molto garbo, e che generalmente si leggono con diletto; ma io conobbi quant’altri mai quell’uomo straordinario, e posso assicurar chi mi legge, che l’amor della verità non era il pregio principale delle sue opere» (V.26). 24 Da Ponte 1995, p. 336: «Per Dio! Mi vergogno di averli lasciati correre. Ho risoluto di farne una seconda edizione, ma non in America. Ho dovuto far ristampare tre volte questi versi latini per farli uscire corretti». 265 di quello che se ne sappia nella Luna» 25), e prospettando la necessità di una nuova edizione nella quale egli avrebbe emendato anche qualche «errore» di sua responsabilità, il che sembra rivelare una preoccupazione propriamente puristica, che si riflette in una formula ricorrente nelle lettere di quegli anni. In una missiva a Mathias del novembre 1827, Da Ponte parla di «due o tre gallicismi che la mia devozione al Cesarotti mi fece cader dalla penna» 26; e ancora in una al Rossetti, pochi mesi dopo, di «errori ... che la mia riverenza per l’infranciosito Cesarotti mi fecero commettere» 27; e a Michele Colombo, nell’agosto del ’28: «maledetti gallicismi che la mia venerazione al Cesarotti mi fece adottare» 28. Dietro formule così limitative si cela in realtà un intervento correttorio più esteso di quanto l’autore voglia far credere. Se non àltera significativamente la facies linguistica del testo, esso si manifesta però quasi ad ogni pagina sotto forma di piccole modifiche apportate probabilmente su un esemplare delle Memorie I poi riconsegnato all’editore per la nuova composizione del testo: il mantenimento di alcuni dei molti banali refusi presenti in quella stampa andrà dunque spiegato con la presenza di compositori anglofoni incapaci di riconoscere – e quindi di correggere nella ricomposizione – gli errori di stampa non segnalati dall’autore-revisore 29. Una vera edizione critica delle Memorie potrà consentire un censimento completo delle varianti formali della seconda edizione: si tratta perlopiù di riformulazioni spiegabili con la ricerca di una maggiore semplicità e linearità espressiva, o di sostituzioni lessicali che non sempre eliminano francesismi (come accade ad esempio per elettrizzò sostituito con solleticò, per mobile e ammobiliato sostituiti con masserizia e addobbato 30, per avanti con davanti, per finanza con ricchezze 31, Ibid., p. 276. In termini simili, in una lettera a Domenico Rossetti, probabilmente del dicembre 1827: «gli errori di stampa che sono corsi in queste memorie sono infiniti. Spero che il gentile lettore avrà la cortesia di scusarli, quando saprà che al mio arrivo in America non v’era una sola persona che ne sapesse poco né molto d’italiano» (ibid., p. 268). 26 Ibid., p. 262, dove egli aggiunge: «correggerò gli errori di stampa, ridurrò i volumetti al gusto mio, e li manderò a’ signori Fusi e compagni, editori di Milano, perché ne facciano una gentile edizione». 27 Ibid., pp. 279-80. 28 Ibid., pp. 288-89. 29 Mi fondo, per l’esemplificazione qui e di seguito riportata, su un confronto limitato alle prime cinquanta pagine delle Memorie I con il corrispondente tratto delle Memorie II. Quanto ai refusi mantenuti si ha dunque (tra parentesi la pagina dell’edizione definitiva): donaro in luogo di denaro (p. 35), condnrre in luogo di condurre (p. 43), qninto in luogo di quinto (p. 43), errori che compaiono identici nella princeps. 30 Ammobiliare è «d’uso comune nel XVIII sec.» secondo Dardi 1992, p. 247. 31 Si tratta in realtà di un francesismo non recente: la prima attestazione riportata dal DE25 266 per travagliarono con afflissero), intervenendo anche su forme arcaiche (espunto l’avverbio novellamente, la forma facilemente caratteristica della lingua antica si muta in facilmente 32), su usi lessicali impropri o inadeguati («uno scroscio di chiavi» diventa «uno sbattimento di chiavi»), su una più precisa messa a fuoco terminologica («si gettò in così dire sopra di me» diviene «mi gettò quindi le braccia al collo»): qualcosa di diverso, appunto, dalla semplice eliminazione di refusi e dei «due o tre gallicismi» di cui Da Ponte parla nelle lettere. È difficile, anzi, valutare se gli scrupoli dapontiani siano il riflesso di sincere convinzioni – visto che la qualità tipografica delle Memorie II non appare, di fatto, troppo superiore a quella della princeps (gli errori di stampa e le sbadataggini tipografiche, ad esempio, sono assai frequenti anche in quest’edizione 33) – o invece di un pretesto a copertura dei mutamenti strutturali apportati nella seconda edizione, ben più rilevanti, nel complesso, di quelli formali, e consistenti in robusti tagli, oltre che nell’aggiunta del segmento temporale successivo al 1819. Gl’interventi più macroscopici sono riconducibili a tre moventi: eliminazione di alcune delle lunghe citazioni di testi poetici dapontiani (soprattutto componimenti giovanili); cancellazione del lungo excursus sulle rivalità con un «signor N.N., che esercitava da qualche tempo il mestiero di maestro di lingue» (cioè il Casati: un taglio che Da Ponte giustifica, nelle sue lettere, con la morte dell’avversario); eliminazione di svariati commenti sarcastici sulla figura e sull’operato dell’imperatore austriaco Leopoldo II, descritto nelle Memorie I come un sovrano volubile e arrogante, alleato di fatto dei peggiori avversari di Da Ponte nell’ambiente teatrale viennese. Giusto le pagine dedicate al sovrano avevano procurato alle Memorie I una condanna da parte della censura austriaca, e di conseguenza il divieto di cirLI risale al secolo XVI (Guicciardini), anche se, teste lo stesso DELI, il notevole ampliamento semantico che il termine conosce in italiano durante il Settecento fa pensare a una particolare espansione d’uso. 32 Il tipo igualmente / similemente (cioè l’alternanza tra forma apocopata e forma intera negli avverbi formati rispettivamente con aggettivi piani e sdruccioli) è stata descritto da Castellani 1960, che tuttavia limita la sua osservazione al fiorentino del periodo compreso fra XIII e XV secolo. 33 Il trasando di quest’edizione emerge a tutti i livelli del lavoro editoriale: un costante disordine regna, ad esempio, sui titoli correnti: in più d’un fascicolo del volume il titolo Memorie è anglicizzato in Memoire (in alcuni casi si ha addirittura Memoire de anziché Memorie di), e lo stesso nome dell’autore è talvolta alterato in Lorenzi Da Ponte. Frequenti sono poi i meri errori materiali del tipografo, ad esempio nella gestione dei segni paragrafematici (posizione delle virgolette, della punteggiatura), nella messa in pagina delle note, nell’uso dei corsivi, ecc.: elementi che fanno apparire nel complesso non troppo accurata la stampa della princeps. 267 colazione in Italia: circostanza che, come notò il Nicolini, costrinse Da Ponte a stampare in America – anziché in Italia, come avrebbe preferito – anche le Memorie II. In definitiva, come già lo stesso Nicolini aveva rilevato, la revisione snellì il disegno complessivo dell’opera, ma intervenne soprattutto sulle parti che meno avrebbero abbisognato di tagli (cioè quelle iniziali) senza incidere sulla tendenza alla querula prolissità di altre sezioni 34. 3. La seconda edizione (e il suo seguito) La redazione della parte V dell’opera, con i fatti successivi al 1819, dovette iniziare già nel corso della stampa delle Memorie I. Di fatto, nelle lettere di quegli anni l’autore manifesta continuamente il proposito di completare la narrazione, dapprima in vista di una ristampa italiana, e in seguito – per le disavventure censorie di cui si è detto – in funzione di una nuova edizione americana, rifusa nei contenuti e solo superficialmente mutata anche nella veste linguistica. Le Memorie II iniziarono dunque ad uscire nel 1829 presso gli stampatori Gray e Bunce; successivamente, il solo Bunce proseguì in quello stesso anno con la prima parte del secondo volume, e nel 1830 con la seconda parte; infine, il tipografo Tourney si occupò del terzo volume, che venne messo in commercio «non prima del 14 settembre 1830». Lo stesso Tourney assunse anche la vendita dei due tomi precedenti ristampandone la copertina con il proprio nome e la data 1830. «E così – scrive Fausto Nicolini – si ebbero le Memorie di Lorenzo Da Ponte da Ceneda in tre volumi, scritte da esso; seconda edizione, corretta, ampliata ed accresciuta d’un intero volume e di alcune note» 35. Le Memorie II sono dunque divise in cinque parti di lunghezza omogenea (uno sviluppo lievemente maggiore hanno la seconda e la terza): la prima giunge fino all’abbandono dell’«ingrata patria» e al passaggio a Gorizia (fino a «prima cioè d’esser giunto al ventinovesimo [anno] della vita»), la seconda arriva «all’età di quarantadue anni e cinque mesi», la terza copre tutto il periodo inglese, giungendo fino all’imbarco per gli Stati Uniti, nella primavera del 1805 (l’autore era allora cinquantaseienne); la quarta parte riguarda i quattordici anni successivi e l’ultima muove dal Cfr. la Nota a Da Ponte 1918, p. 260: «il Da Ponte, nel suo lavoro di ritocco e di sfrondamento, non andò oltre le prime tre parti, le quali, sia perché scritte in età meno avanzata e quindi con maggiore brio, sia perché più varie e divertenti per contenuto, si leggevan di già con maggiore interesse, e furon poi rese ancora più scorrevoli» 35 Cfr. la Nota a Da Ponte 1918, p. 260. 34 268 1819 ed esplicita nel finale il proprio limite cronologico nel momento stesso in cui annuncia la futura uscita di un ulteriore volumetto: «La storia di quello incomincerà dal quattordicesimo giorno di settembre del 1830, in cui questa parte termina» (elementi di continuità narrativa non mancavano, peraltro, nemmeno nelle parti precedenti, come ad esempio al termine della IV: «Mio cortesissimo lettore, t’aspetto alla quinta parte di queste memorie, in cui ti prometto una scena tutta differente»). Si è già detto dell’evidente perdita di ritmo narrativo che caratterizza la sezione dell’opera dedicata al periodo americano. A contribuire alla sua minore efficacia è certo la natura stessa dei fatti narrati. Alle avventure libertine (vere o millantate che siano) del periodo giovanile e a quelle intellettuali della maturità subentrano infatti le disavventure commerciali e finanziarie patite già a Londra, e poi ancora in America: storie di debiti, di cambiali, di pignoramenti e di raggiri la cui puntuale narrazione dovrebbe contribuire, nelle intenzioni dell’autore, a dimostrare la sua perfetta onestà e l’insidiosa malafede dei suoi troppi rivali. D’altro canto, nelle ultime due parti si rarefanno gli elementi che, nelle sezioni iniziali, spezzavano di continuo la narrazione. Ad esempio i testi poetici dell’autore (o, più raramente, altrui) 36, le lettere o i biglietti scambiati dai protagonisti delle vicende narrate 37, e i dialoghi orchestrati secondo una tecnica tipicamente “teatrale” (in un caso non manca nemmeno una formula introduttiva che esplicita tale carattere: «Passò frattanto tra noi il seguente dialoghetto», I.23) 38. Tuttavia questo diradamento nelle parti conclusive dell’opera produce più spesso un appesantimento che una maggior coesione narrativa. Scritte complessivamente in età avanzata, le Memorie dapontiane manifestano, insomma, una sorta di presbiopia narrativa, per cui la messa a fuoco testuale delle stagioni più lontane della vita riesce senz’altro meglio di quella degli anni più tardi. Complessivamente rada è la trama dei rimandi interni, aggiunti soprattutto nella parte V e riferiti alla materia delle Memorie I («n’ho già narrata 36 È il caso, ad esempio, del «primo quadernario, che schiccherai, di quattordici versi, che osai chiamare “sonetto”», riportato in I.4, o dell’altro sonetto giovanile riportato poco oltre, I.6, assieme al quale Da Ponte stampa, in nota, anche un componimento dell’amico Michele Colombo. 37 Ad esempio il buffo biglietto ricevuto da un prete veneziano che aveva impegnato un mantello dell’autore a sua insaputa (I.57), o la lettera inviata dallo stesso Da Ponte alla madre di due fanciulle da lui amate durante il soggiorno a Dresda (II.39). 38 Simile il caso del dialogo con il segretario del tribunale dei Riformatori, riportato in I.77. 269 la storia nel primo volume della prima edizione» V.13; e in un caso, correggendosi: «errai nella prima edizione di queste Memorie, quando dissi d’aver tratti da vari paesi d’Europa un numero scelto d’opere classiche» IV.12); e convenzionale quella degli appelli al lettore, disseminati attraverso tutta l’opera con gusto e movenze che – se non si tratta semplicemente di un riflesso dell’abitudine di entrambi alla scrittura teatrale – potrebbero far pensare all’influsso dei Mémoires goldoniani. «Non t’incresca, lettor cortese, di legger anche questa storia de’ miei amori» II.224, recita l’inizio della narrazione relativa al matrimonio dell’autore; oppure, per richiamarne l’attenzione su un’ingarbugliata vicenda di debiti e rovesci finanziari, ambientata a Sunbury: «Non perda, per carità, il mio lettore il filo curioso di questa storia» IV.40. E ancora: «Eccomi, o lettore, in un calessino tirato da un sol cavallo»: e in quell’«eccomi» pare appunto risuonare il voilà di cui Franco Fido parla come di un tic del Goldoni autobiografo 39. Ovviamente ricca di informazioni e di autocommenti su tutta l’opera poetica dell’autore, l’autobiografia di Da Ponte intrattiene legami anche più profondi con quella produzione, e in particolare con i libretti. Vi si potrebbero cercare sistematicamente gli echi della sua poesia per musica: se per quella “minore” le edizioni che si vanno allestendo in questi anni, raccogliendo i disiecta membra di stampe sparse e spesso disorganiche 40, potranno dar materia ad una più capillare ricognizione, ben visibili sono intanto alcuni lasciti dei libretti più famosi, quelli mozartiani, convocati sia da riprese situazionali, sia da ricalchi formali, sia dalla combinazione di entrambi. Piuttosto nota è, ad esempio, la pagina in cui, descrivendosi nell’atto di comporre il libretto del Don Giovanni, Da Ponte vi riproduce, en abîme, una celeberrima scena del primo atto delle Nozze di Figaro. La servetta sedicenne («ch’io avrei voluto non amare che come figlia, ma...») pronta ad accorrere nella sua camera «a suono di campanello, che per verità io suonava assai spesso», per riscaldare l’«estro» creativo del poeta somiglia appunto alla nubenda Susanna nei desideri del suo conte-padrone: «ella mi portava or un biscottino, or una tazza di caffè, or niente altro che il suo bel viso, sempre gaio, sempre ridente e fatto appunto per inspirare l’estro poetico e le idee spiritose». Facile pensare, ancora una volta, alle Nozze e a Cherubino per il «vero adoncino» o per i «segreti adoncini» citati in due passi ben lontani delle Memorie; e trasparente il rimando alla 39 Cfr. Fido 1984, p. 119. I libretti viennesi e quelli londinesi sono stati pubblicati da Lorenzo Della Chà: cfr. rispettivamente Da Ponte 1999b e Da Ponte 2007. 40 270 Marcellina della stessa opera in un episodio londinese della parte V già segnalato da Tina Matarrese 41; altrettanto evidente l’allusione al catalogo leporellesco del Don Giovanni nella descrizione di una giovanile avventura libertina in cui l’autore si trova diviso nella scelta tra una fanciulla «piccola, delicata, gentile, candida candida come la neve» ed un’altra «grandicella anzi che no e d’un aria maestosa e venerabile», «alquanto brunetta, con occhi e capelli assai neri» I.20; o ancora, per il Così fan tutte overo la Scola degli amanti, l’esortazione «ma in tutte le cose lauda finem» IV.17 riferita a una disavventura americana. Proseguire la raccolta di simili tessere potrebbe documentare un aspetto tutt’altro che marginale nell’economia testuale dell’autobiografia dapontiana: il desiderio, cioè, di richiamare al pubblico – soprattutto a quello americano – il legame con Mozart e di sottolineare, con un’orgoglio che rasenta l’ingenuità, il proprio ruolo nella realizzazione dei suoi capolavori: «io non posso mai ricordarmi senza esultanza e compiacimento che la mia sola perseveranza e fermezza fu quella in gran parte a cui deve l’Europa e il mondo tutto le squisite vocali composizioni di questo ammirabile genio». Il pregio stilistico delle Memorie dapontiane non riguarda, comunque, solo il rapporto con le altre più celebri opere dello stesso autore. Così, i tocchi plurilinguistici che caratterizzano l’autobiografia – e vi si manifestano con ampiezza ben maggiore che nei libretti – sono il prodotto di una tavolozza diversa da quella, poniamo, a tre colori tipica del cosmopolita Goldoni (veneziano-italiano-francese), e piuttosto differente anche da quella casanoviana, caratterizzata dal gusto per una gioiosa conversazione 41 Cfr. Matarrese 2003, pp. 288 s.: «uno squarcio da “opera comica” è per esempio del seguente episodio, che non può che richiamare l’intrigo delle Nozze di Figaro, con la governante Marcellina che aspira a farsi sposare da Figaro e poi si rivela essergli madre, ed è gratificata degli epiteti di “sibilla decrepita” e “vecchia pedante”, come “attempatetta” è la prima donna al centro dell’episodio qui riportato: “Martini, che non era difficilissimo in materia d’amore, s’incapricciò d’una servetta giovine, ma non bella né gentile, nel medesimo tempo in cui corteggiava e facea credersi innamorato della prima donna buffa, che poteva in verità esser sua madre e quasi sua nonna. Scopertosi da questa Lalage attempatetta gli intrighi molto avanzati e ogni dì crescenti con la non crudele servetta, ne fece dell’amare doglianze con lui; e il mio buon spagnoletto, non avendo via di scusarsi, disse all’orecchio alla sua matrona ch’era per coprir certo mio erroruccio ch’egli s’era dichiarato l’amante di quella ragazza. La matrona non tenne il secreto, e in poco tempo si sparse per varie bocche, e alfin giunse a me. Ne volli parlar a Martini, ma, appena apersi la bocca, capì da un “Come, signor Martini?” quel ch’io intendeva dire, girò la faccenda in gioco e mandò venticinque ghinee alla servetta, il fulgor delle quali stuzzicò talmente l’appetito d’un vecchierello, che la sposò. Martini nulladimeno lasciò la mia casa, andò a star colla Morichelli, e la nostra lunga, dolce ed invidiata amicizia si raffreddò”» (cfr. III.32). 271 internazionale. L’orizzonte dell’autobiografia di Da Ponte è in effetti ben più innovativo e più ampio, ricomprendendo i plurimi livelli della dialettalità originaria, del cosmopolitismo illuminista a base francese, della cruciale esperienza viennese (e dei vari altri periodi trascorsi in area mitteleuropea, da Dresda a Gorizia e Trieste), dell’innamoramento per la cultura anglosassone tipico della fase più matura della sua vita, frutto attardato dell’anglofilia sempre crescente, nel corso del secolo XVIII, nella cultura italiana e non meno rilevante – anzi, fors’anche più culturalmente pregiata – della stessa imperante gallomania. Nulla più che una nota di colore è, nelle Memorie, il dialetto veneziano, totalmente privato qui sia dell’aura letteraria e culturale che aveva in Goldoni e anche di quella ideologica e identitaria tipica della Histoire casanoviana. Il veneziano è, in Da Ponte, in primo luogo la varietà caratteristica di un mondo ormai tramontato, quello della repubblica aristocratica per la quale il libertino che ne era stato cacciato precipitosamente nel 1779 non prova alcun rimpianto. Se qualche battuta in dialetto pronunciata da gondolieri, servitori e barcaioli nelle pagine ambientate a Venezia non vale se non a connotare superficialmente l’atmosfera di avventura galante o di romanzesca peripezia 42, interamente «in lingua veneziana» è trascritto il lungo sonetto caudato al cui contenuto Da Ponte attribuisce (forzando la realtà effettuale) la causa del suo allontanamento dalla città: in questo caso, evidentemente, il ricorso al dialetto si spiega con un puro scrupolo documentario. Come osserva l’autore subito dopo la citazione di quel prolisso componimento (che nelle Memorie I non era nemmen riportato), il fatto che esso fosse scritto «in lingua veneziana» lo rendeva comprensibile («lo capivano tutti») a un pubblico intellettualmente angusto («chi conosce il carattere della veneta aristocrazia – aggiunge velenosamente in una nota a piè di pagina – può immaginare lo strepito che fece questo sonetto»), emblematicamente rappresentato dal consesso di senatori distratti, ignoranti e gretti («eccellentissimi Pantaloni») descritto in una pagina della parte prima (I.69). In apparente contrasto con questa caratterizzazione negativa è il passo della parte terza in cui l’autore, di passaggio a Venezia 42 «Era il rematore di quella giovine, che mi disse con somma gioia: “Go gusto che la xè tornada; vago a consolar la parona; se revederemo stasera”» (I.13); «Discese allor dalla gondola; e, in pochi minuti tornandovi, mi pose in mano cinquanta zecchini, mormorando tra’ denti queste parole: “Andé, zioghé e imparé a cognoscer i barcaroli veneziani.”» (I.22); «odo ad un tempo stesso una fioca voce che dice: “Sior paronsin, no andé là drento, per carità!” Era il mio vecchio servo, che, da Venezia partendo, aveva io lasciato a quella rea femina, e che al lume delle pubbliche lanterne, o piuttosto al suon della voce, mi venne fatto di riconoscere» (I.62). 272 poco dopo il trattato di Campoformido s’intrattiene con un barbiere, le cui considerazioni sono riportate in dialetto veneziano: senonché, anziché rimpiangere i bei tempi andati della Repubblica, il popolano esalta – tanto calorosamente quanto, a ben vedere, inverosimilmente – il ricordo dei francesi («Dio li benediga dove che i xe. Dio li fazza tornar presto in questa città») e depreca la presente dominazione austriaca contrapponendola non, appunto, all’antica indipendenza ma alla precedente occupazione straniera. In un simile, deformante impiego del veneziano si realizza non il riscatto, ma – per così dire – la definitiva perdizione della cultura linguistica di quella città: «sebben la dolcezza da me provata ... temperasse alcun poco l’amarezza che m’opprimeva alla vista di miserie sì straordinarie, in cui immersa era la patria mia, nulladimeno risolsi sul fatto di non rimanere più di quel giorno a Venezia» (III.67). La promessa della pubblicazione di un seguito delle Memorie non fu, come s’è detto, mantenuta. Esiste, tuttavia, un’Aggiunta alle Memorie stampata dallo stesso Tourney nel 1831, smilzo opuscoletto che certo non coincide con la continuazione dell’opera maggiore progettata dal Da Ponte in quegli stessi mesi. Essa è infatti dedicata a una triste vicenda familiare: la venuta in America del fratello di Agostino, con la figlia Giulia, e il fallimento dei progetti artistici che Lorenzo aveva disegnato per loro. Analogamente incentrata su una singola pagina di storia familiare è anche la Storia di L. Niccolini che servirà d’appendice alle mie Memorie, uscita poco dopo la morte della moglie Nancy, nel 1831: nel narrare la vertenza sull’eredità della cognata, che secondo Da Ponte gli era stata indebitamente sottratta, l’autore torna a soffermarsi sui particolari di una disputa fin troppo privata 43. Le motivazioni più nobilmente culturali delle Memorie restano sullo sfondo, o dileguano completamente, inverando l’osservazione di Fausto Nicolini che, nel 1918, ritenendo del tutto perduto il séguito delle Memorie II promesso dall’autore medesimo, ipotizzava che si trattasse di «perdita tutt’altro che grave per la storia della letteratura italiana e anche per la fama di Lorenzo Da Ponte» 44. 43 44 Aggiunta e Appendice sono state pubblicate da Giampaolo Zagonel: Da Ponte 1996. Cfr. Da Ponte 1918, p. 261. 273 4. La lingua delle Memorie II L’atteggiamento di Da Ponte nei confronti della tradizione grammaticale e lessicografica italiana è almeno in parte contraddittorio. Egli dichiara infatti, da un lato, una fiera indipendenza dai rigidi modelli normativi della Crusca presentandosi come un moderne che non esita a “contaminare” il proprio uso (soprattutto quello lessicale) con prestiti da lingue straniere, colloquialismi non sempre autorizzati dalla tradizione letteraria e addirittura qualche compiaciuta escursione nel campo dialettale. Da un altro, però, egli si mostra legatissimo, nei fatti - e in alcuni casi, anche nella professione di stima per i capofila del purismo contemporaneo –, alla tradizione e più spesso disposto alla conservazione di caratteri fonomorfologici e sintattici tipici dell’italiano settecentesco che all’accoglimento delle novità che si andavano affermando in quegli anni nell’italiano letterario. Ammiratore del Foscolo 45, contemporaneo del Leopardi e addirittura del Manzoni che, alla data d’uscita delle Memorie II ha già pubblicato la Ventisettana (cioè quegli Sposi promessi che, assieme a tragedie, versi e prose, egli ordinava in Italia e pubblicizzava presso i clienti americani 46), Da Ponte non esita, nella già citata apologia stilistica della parte V delle Memorie II, ad indicare nell’anti-cruscante Monti «il più vago, il più terso e il più degno da imitarsi di tutti gli scrittori italiani del nostro secolo», aggiungendo sùbito: «senza escludere il Cesari», cioè l’alfiere più intransigente del tradizionalismo linguistico, ai cui dettami – come vedremo – egli di fatto mostra di adeguarsi nella pur superficiale revisione linguistica. Da Ponte resta, in definitiva, ancorato a uno stato di lingua ancora pienamente settecentesco, o in altre parole a un italiano ben più aperto alla tradizione che all’innovazione. I motivi estrinseci di questo atteggiamento vanno cercati in circostanze biografiche, sia cronologiche (Da Ponte è nato nel 1749, e pur producendo le sue estreme prove di scrittura in pieno Ottocento, resta inevitabilmente legato alla cultura assorbita negli anni della gioventù e della maturità), sia geografiche (egli visita l’Italia per l’ultima volta nel 1799, e negli ultimi decenni della propria vita partecipa alla vita culturale del suo paese con il ritardo e le deformazioni di prospettiva tipiche di un mondo non ancora globalizzato). Ma il conservatorismo linguistico dapontiano ha forse ragioni più peculiari. Ad esempio, la preva45 «Il suo dire era pieno di foco, di verità, di energia; il suo stile vago ed ornato; purgatissima la sua lingua, e le sue imagini vive, nobili e luminose» (III.78) 46 Cfr. Da Ponte 1995, p. 380 (lettera a Gulian Crommelin Verplanck, 17 febbraio 1830). 274 lenza della scrittura poetica su quella in prosa nelle sue precedenti esperienze letterarie può aver favorito l’accoglimento forse irriflesso di tratti linguistici al tempo stesso arcaici e poetici (requisiti che si accoppiano naturalmente per un gran numero di allotropi della lingua letteraria italiana) anche nella prosa. Ancora, andrà tenuta presente la già richiamata vocazione didattica che sottende alla scrittura delle Memorie: nel cercare uno stile scolasticamente esemplare, è comprensibile che Da Ponte scivoli più spesso nell’arcaismo e nel preziosismo letterario che in una manzoniana ricerca di naturalezza. Beninteso: il risultato cui approdano le Memorie non è certo stilisticamente inefficace o stentato. Come si è già visto a proposito della Storia compendiosa, Da Ponte è in grado di conciliare patinatura letteraria e snellezza stilistica, o, in altre parole, di non far apparire innaturale la sua adesione ad usi linguistici tradizionali. La pesantezza e l’impaccio tipici dell’ultima parte delle Memorie si devono dunque esclusivamente al rallentamento del ritmo narrativo e all’insistente ricorso a un tono querulo d’autocommiserazione, e non hanno a che vedere con i caratteri di una lingua bilanciata e coerente nel suo dosaggio: tale, insomma, da non intralciare l’andamento ben più narrativamente fluido della prima parte dell’opera. Il tradizionalismo linguistico della prosa dapontiana si associa insomma, in un’ottica settecentesca, con risultati di apprezzabile eleganza. Che di tradizionalismo si tratti, comunque, risulta evidente a un confronto tra i caratteri fonomorfologici e microsintattici delle Memorie II e quelli che Giuseppe Patota individuò una ventina d’anni fa comparando Le ultime lettere di Jacopo Ortis con un campione di prosa italiana del secondo Settecento. Isolando i casi in cui la prosa foscoliana presenta risultanze univoche e coerenti con l’uso ottocentesco di contro al complesso degli autori settecenteschi, si osserva spesso l’allineamento dell’autobiografia dapontiana con questi ultimi, ossia la divaricazione dal modello ortisiano. Il referto è tanto più significativo se si considera che in vari luoghi (anche nelle Memorie) Da Ponte indica proprio in Foscolo uno dei modelli della prosa non meno che della poesia contemporanee, e in almeno un caso contrappone l’usus foscoliano a quello raccomandato dalla norma grammaticale e dalla lessicografia contemporanee. Se non che, proprio nel distacco fra anti-purismo dichiarato e incapacità di adottare con coerenza soluzioni linguistiche innovative l’atteggiamento dapontiano è, a ben vedere, caratteristicamente settecentesco. Partiamo dunque dalla fonetica vocalica. Le forme con dittongo uo 275 dopo le sequenze tr e pr (ad esempio in truova, pruova e forme affini 47) erano, come si è visto, attestate con una certa ampiezza in prosatori settecenteschi di ogni provenienza e orientamento, ma venivano ormai sistematicamente evitate, «secondo abitudini più moderne», da Foscolo e da Leopardi nella loro prosa 48: nelle Memorie II le due alternative convivono, con prevalenza, per pruova, del tipo dittongato. Ormai abbandonate dai prosatori contemporanei sono, al contrario, le forme non dittongate core, scola, foco e mora, che già nel secondo Settecento sonavano come tipicamente letterarie, ma continuavano ad avere discreto corso anche nella prosa, né solo in quella artistica: ai primi dell’Ottocento, gli scrittori più raffinati – come ad esempio Leopardi – funzionalizzavano coerentemente la scelta degli allotropi all’alternanza prosa-poesia 49. Ancora, l’uso alterno dei tipi intiero e intero, endemico nella prosa settecentesca, viene abbandonato dal Foscolo prosatore all’altezza dell’Ortis e da Leopardi nelle Operette morali, in entrambi i casi in favore del tipo monottongato. Le Memorie II conservano invece l’oscillazione, pur con prevalenza dell’allotropo ormai dominante 50. Quanto alle alternanze in atonia, le forme come dimanda e dimandare risultano «complessivamente minoritarie», ma presenti nella prosa settecentesca con una frequenza maggiore rispetto al secolo successivo. Anche in questo caso, l’uso esclusivo delle varianti con vocale labializzata nell’Ortis manifesta una linea di tendenza rispetto alla quale Da Ponte si mostra più attardato: nelle Memorie II, domanda e affini prevalgono, ma continuano ad accompagnarsi a qualche sporadico esempio delle forme con vocale palatale 51. L’alternativa fra i tipi giovine e giovane è caratteristica della 18 occ. per pruova, sempre sost. contro 15 di prova, e anche per il plurale 13 occ. di pruove contro 6 occ. della forma senza dittongo; si aggiungano 26 occ. di forme arizotoniche con pro- contro 28 con pruo-. Di contro, 8 occ. per trova (I.94, II.9, 99, 184, 233, III.67, V.45, 60), nessuna per truova, una per truovano V.4 (ma anche trovano, 7 volte: III.76, IV.21, V.4, 77, 86, 100 bis). 48 Già il Beccaria optava regolarmente per gli allotropi monottongati, cfr. Cartago 1990, p. 16. Antonelli 2003, p. 93: «La situazione primottocentesca vede pruovo e truovo assenti dalla Stampa periodica milanese (per il s. pruova il rapporto è di 4 a 198), dall’uso prosastico di Foscolo e Leopardi (...), da quello giovanile del Manzoni e persino da quello di “scrittori passatisti” come il Botta o il Cesari novelliere»: cfr. Patota 1987, pp. 27-28, Serianni 1989b, pp. 164-65, Vitale 1992, pp. 17-18. 49 Cfr. Vitale 1992, p. 19, con esempi per foco, mova, more dalla lingua poetica leopardiana. 50 Si ha infatti: intiera una volta intieri 1 volta ciascuno, intieramente 16 volte, di contro a intera 8 volte, interamente 11 volte. 51 Si registrano 119 occ. di forme con vocale labializzata (5 per il sostantivo domanda, le 47 276 prosa primo-ottocentesca; se persino Manzoni – che sembra di norma rabdomanticamente capace di adottare tra gli allotropi concorrenti quelli destinati a prevalere nell’uso successivo – opta sempre per giovine e nel Foscolo prosatore è «costante, al singolare, l’uso della forma con i» 52, ancora una volta Da Ponte si adegua alla prassi settecentesca: nelle Memorie II prevale giovane 53 (secondo una distribuzione caratteristica dei prosatori spogliati da Patota) che s’accompagna addirittura ai semidotti giovene e giovenile, i quali nel corso dell’Ottocento verranno usati quasi esclusivamente in poesia 54. Notevoli anche le forme guerirmi e guerì (accanto a guarigione), che documentano un tipo raro già nel Settecento e ormai completamente tramontato nella prosa ottocentesca 55. Una forma come gastigo, che ricorreva ancora con una certa frequenza, alternando con quella con c-, in vari autori del secondo Settecento, ricompare nella prosa dapontiana accanto a una ben più folta serie d’esempi di castigo e castigare 56. Analogamente, le forme dipignere e giugnere mancano del tutto nella prosa foscoliana (che «per questo tratto ... si colloca tra i modelli di lingua letteraria ottocentesca» 57), e vengono evitate anche in quella leopardiana, più indulgente nei confronti della tradizione: nelle Memorie II esse resistono, sia pure in ristretta minoranza, accanto alle forme con -ng- 58. Rarissima nella prosa ottocentesca anche imperadore, che restanti per voci del verbo domandare) contro tre soli casi con vocale palatale: dimandò II.223, dimandato II.235, dimande II.237. Ancora diverso, in questo caso, il comportamento del Leopardi prosatore, che alterna liberamente le forme concorrenti («anche in oscillazione, a volte nella stessa operetta», cfr. Vitale 1992, p. 26): ma in questo caso, a pesare è la componente culta e iperletteraria che si manifesta in vari altri casi simili. 52 Cfr. Patota 1987, p. 47. 53 Si hanno 42 occ. per giovane, e 12 occ. complessive per i derivati giovanetta, giovanette, giovanetti, giovanetto, giovanili; di contro, giovine ha 61 occ., e 26 ne hanno i derivati giovinastro, giovinetta, giovinette, giovinetti, giovinetto, giovinezza, giovinotti, giovinotto. 54 Si ha infatti: giovenili I.4, 7, II.6, gioveni II.226, V.3 bis, V.15 bis, giovenil III.6. La LIZ[prosa800] non dà esempi per giovene e per giovenile ne riporta due da Foscolo, sette dal «Conciliatore», uno dallo Zibaldone di Leopardi, tre da I miei ricordi di D’Azeglio, uno (giovenilmente) da Imbriani; uso ben più frequente ne farà D’Annunzio (28 esempi in prosa). 55 Nessun esempio oltre a quelli dapontiani (guerirmi I.13, 63, 89, IV.29, guerì IV.29) nel corpus della LIZ[prosa800]. 56 Il sostantivo presenta la velare sonora (gastigo I.73, V.97) e le forme del verbo castigare hanno invece sempre la sorda (castigheremo II.12, castigato II.99, castigare II.102, castigarmi II.206, castigarli III.11). Vitale 1992 p. 34 segnala gastigo e gastigare nel Leopardi prosatore, osservando che si tratta comunque di forme «minoritarie negli usi più moderni». 57 Cfr. Patota 1987, p. 61. 58 Esempi: dipigner II.12, giugnessimo III.83 di contro a quattordici forme di dipingere, due di pingere e ventisei di giungere con conservazione di -ng-. 277 Da Ponte impiega regolarmente e che già nei suoi contemporanei è di norma sostituita dall’allotropo con dentale sorda 59. Sebbene l’alternanza tra forme come beneficio e benefizio, sacrificio e sacrifizio caratterizzi la prosa ottocentesca non meno di quella settecentesca (in questo caso, Manzoni tenterà invano di far prevalere le forme poi estintesi, cioè quelle con affricata alveolare), a fronte dell’opzione costante nel Foscolo prosatore (beneficio, sacrificio) Da Ponte risponde con un’oscillazione ancora pienamente settecentesca, impiegando anche una forma come spezie (e il derivato spezioso), ormai rara nell’uso prosastico del primo Ottocento (nel significato di ‘specie’), ma ancora ben acclimata in scrittori del secolo precedente come Maffei, Gozzi, Verri («istruttivamente i vocabolari settecenteschi non fanno differenza fra le due forme. Solo quelli ottocenteschi preferiscono o prescrivono il tipo con affricata palatale» 60). Con riferimento al corpus di autori del secondo Settecento da lui spogliato, Giuseppe Patota descrive così la distribuzione dei pronomi personali: «egli è la forma di gran lunga maggioritaria: molto meno frequente il tipo ei, scarsa l’incidenza di esso, del tutto accidentale la presenza di lui» 61. Identica la situazione dell’autobiografia dapontiana 62, ovviamente aliena dall’uso del lui soggetto riprovato dalla tradizione grammaticale e sistematicamente adottato da Manzoni solo all’altezza della Quarantana, ma ben lontana anche dall’assetto proposto da Foscolo nell’Ortis, in cui ei è più usato di egli, e da quello leopardiano delle Operette, in cui ei risulta pure «di frequente uso ... anche se in qualche caso eliminato nella edizione napoletana» 63. Sempre nell’ambito dei pronomi, il ricorso a quai (pur minoritario) accanto a quali si inquadra ancora in abitudini tipicamente settecentesche: nel secolo successivo la forma ridotta diverrà decisamente rara 64. Ben 41 esempi nelle Memorie II. Oltre ad essi, la LIZ[prosa800] dà solo altri sei casi (Foscolo, Borsieri, «Conciliatore», Manzoni – una citazione nella Storia della colonna infame – e Imbriani, due volte). 60 Cfr. Patota 1987, p. 64. 61 Ibid., p. 69. 62 Si hanno 349 esempi per egli, 86 per ei (a cui si aggiunga, una volta, e’: «E’ parrà cosa strana» V.56), appena 8 per esso e nessun caso di lui soggetto. 63 Cfr. per Foscolo Patota 1987, pp. 68-69, per Manzoni Serianni 1986, p. 193 («l’esempio del Manzoni è stato decisivo, piuttosto, nel ridurre o addirittura eliminare dalla prosa i tipi ei, eglino, elleno»), per Leopardi, Vitale 1992 p. 66. 64 Si hanno 98 occorrenze di quali contro cinque di quai (non conta quella di IV.13 trattandosi della citazione di un testo poetico. È comunque una forma non troppo connotata: cfr. Serianni 2009, p. 164 («tai e quai, comunissimi nel verso e ancora correnti nella poesia ottocentesca e primo-novecentesca», con esempi ancora in Pascoli e Gozzano). 59 278 Anche nell’uso delle preposizioni articolate, Da Ponte esibisce una serie di forme (in particolare le univerbate cogli, colla, pei, pel) che già gli scrittori del primo Ottocento andavano sostituendo con le alternative analitiche poi prevalse nell’uso dell’italiano postunitario. Ancora una volta, risulta istruttivo il confronto col Foscolo prosatore, che presenta un quadro notevolmente semplificato rispetto alla polimorfia ancora dominante negli scrittori del secondo Settecento. Data una simile adesione agli usi del secolo trascorso, una delle eccezioni più vistose che si registrano nelle Memorie II riguarda proprio un tratto morfologico, cioè l’uso dell’interrogativo cosa in luogo di che, che Da Ponte giustifica esplicitamente in una delle poche note a piè di pagina dedicate a questioni linguistiche (le altre vertono in genere sulla spiegazione di termini tecnici del commercio o della finanza 65): «“Cosa” in loco di “che” non è di buon conio. L’ho trovata però nelle lettere di Foscolo e ne’ nobilissimi scritti del mio Pananti [il poeta Filippo Pananti, di cui si dirà oltre]. Sarebbe error l’imitarli?». Altrove, invero, egli stesso si mostra più ossequioso nei confronti delle prescrizioni dei puristi, tanto da dedicare una nota alla locuzione «la domane», che sostituisce «l’indomani» della prima edizione (altrove la stessa giuntura è sostituita da «il domani» o da «il dì seguente»): «La voce “indomani” – scrive Da Ponte a piè di pagina – è prescritta da’ puristi. Cesarotti ed altri l’usarono. Ma io non l’userò più, da che la trovai riprovata dal Cesari» (nota a I.7), il quale aveva inserito questa locuzione in una delle lunghe liste di proscrizione lessicale della Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (la cui lettura da parte del Nostro dev’essere stata, dunque, abbastanza puntuale da ricavarne anche indicazioni così dettagliate). Qualche notevole arcaismo si ravvisa anche nella morfologia verbale: in particolare, forme come il perfetto fûr e il condizionale sarien sonavano tipicamente poetiche già nel Settecento (sebbene le si sia già incontrate, isolatamente, anche nelle «memorie italiane» del Goldoni), e tramontano completamente nella prosa del secolo successivo 66. Il simile vale per forme Vengono ad esempio chiosati il termine indossata riferito a una cambiale – di cui si dirà sotto – e il termine nota («“Nota” invece di “cambiale” è pure parola tecnica de’ mercadanti, ma non adottata da’ cruscanti» 249). Si avverte che nel testo delle Memorie II presente nella LIZ le note a piè di pagina dell’autore non sono state riportate. 66 Esempi: fûr 9 volte; sarien V.62. Per fur (o fûr) la LIZ[prosa800] riporta dopo gli esempi dapontiani solo tre occorrenze (Leopardi, D’Azeglio, Imbriani); per sarien(o), nessun esempio nella LIZ[prosa800], che per il secolo precedente dà solo esempi poetici. 65 279 del verbo bere come beiamo III.49, beessi II.2, IV.6, beeva II.2 67. E ancora, nel campo degl’invariabili, un vistoso caso di però ‘perciò’ («Sapeva che quella donna m’amava quanto la propria vita: non esitai però un momento a ubbidire» I.16) riporta in superficie un uso ormai decisamente arcaico – o tipicamente poetico – di questa congiunzione. Meno rilevante per ciascun singolo caso, ma significativo nel suo complesso, l’uso di svariati avverbi, congiunzioni e preposizioni che, sistematicamente evitati dal Foscolo nell’Ortis, andavano riducendo la loro frequenza nella prosa: è il caso di pria, omai e anco e di simili forme, confinate nell’Ottocento alla lingua poetica 68. Tornano, anche nella sintassi delle Memorie, quei costrutti caratteristicamente arcaici e letterari che si sono già notati nella Storia compendiosa. A dispetto della professata ammirazione per prosatori antitradizionalisti come il Cesarotti, e dell’avversione dichiarata per i «periodi lunghi, col verbo in punta», Da Ponte indulge spesso nella sua autobiografia alle «trasposizioni» tanto invise (ma anche tanto familiari) ai prosatori del pieno Settecento. Ecco dunque le frasi relative con il verbo in posizione finale (tipo: «una gondola, che dalla parte opposta di quella bottega era situata», I.12, oppure: «la moglie, di cui gelosissimo il vino rendevalo» II.12); la posposizione dell’ausiliare al participio passato nei tempi composti («sua moglie partita era» III.89, oppure: «osservato avendo che colui scelto aveva» III.91); gl’iperbati con separazione dei componenti nominali («quel per me nuovo Egitto» IV.45). Passando al lessico, ancora ad una propensione, magari inavvertita, per soluzioni marcatamente letterarie, rimanda l’uso, pur sporadico, di forme caratteristiche del registro poetico, come ad esempio – limitandoci agli allotropi fonomorfologici che, non facendo serie con altre forme, 67 Nessun esempio né settecentesco né ottocentesco di beiamo in prosa nella LIZ; per bee, beeno e forme affini, solo nove occ. prosastiche ottocentesche, tra le quali spicca il bee del cap. XXI dei Promessi sposi. 68 Per pria cfr. Serianni 2009, p. 191: «niente più che “lett[eraria]” per Giorgini-Broglio (...) è pressoché sconosciuta alla prosa tardo-ottocentesca e ha attestazioni poetiche fino a Pascoli». Per omai, ibid., p. 171: «arriva ampiamente alla poesia novecentesca (Pascoli, Gozzano, Moretti, Sbarbaro); per Giorgini-Broglio è semplicemente “meno com[une]” di ormai, ma del suo registro poetico fa fede il Giusti, che l’adopera due volte in poesie “serie” (...) riservando alla chiave colloquiale-giocosa ormai (1) o oramai (6 esempi)». Per anco, ibid., p. 170: «rubricata come forma poetica già in Salviati e in Muzio, è però registrata senza marche d’uso in Giorgini-Broglio, è addirittura maggioritaria nella poesia di Giusti (42 esempi contro 7 anche), è presente anche nella poesia antitradizionalistica di Pascoli (29 anco contro 220 anche) e di Gozzano (5 anco contro 19 anche) e figura altresì, occasionalmente, in Corazzini e Saba». 280 equivalgono ad autonome alternative lessicali – maninconia II.19 69, il provenzalismo fonetico periglio II.46 70, e ancora cerebro II.51 71, sciaurata III.108 e sciaurati II.12, III.111 72, cignali IV.21 73, arbore V.39 (di cui sarà da notare il genere maschile) 74, crocitare V.44 75. Sebbene si possano considerare anche voci colloquiali, un sapore letterario hanno i frequenti sostantivi e aggettivi alterati in -uccio (mercatantuccio II.10, IV.36, criticucci II.49, pedantucci II.49, affaruccio II.76, erroruccio III.32, invidiuccia V.45, bagattelluccia III.83), -etto (satiretta II.73, spagnoletto II.108, III.32), -ello (pazzarelli II.53, venezianella III.58), -etta (attempatetta III.32) di gusto melodrammatico e – alla lontana – boccacciano, ben graditi a una prosa settecentesca che sembra ormeggiare i modi della melica di quel secolo. Piuttosto ricco e variegato anche il contingente delle locuzioni idiomatiche e proverbiali, che va notato soprattutto per la compresenza di tessere della comune tradizione popolare italiana («cavare la castagna dal foco» II.243, «c’entrava appunto come Pilato nel Credo» III.33 76, «per salvare, come suol dirsi, la capra e i cavoli» III.46, e così via 77: simili espressioni ri69 La forma con assimilazione consonantica è rara nella prosa settecentesca e del tutto disusata in quella del secolo seguente: la LIZ[700] riporta, oltre a questo, solo un esempio dall’Algarotti, e l’occorrenza dapontiana è l’ultima ricavabile nella banca dati. 70 Una volta anche in una citazione poetica, V.60. Cfr. Serianni 2009, p. 94: «nella poesia ottocentesca periglio è ancora diffusissimo». 71 Nell’Ottocento è forma usata ormai solo nel verso, o in contesto medico-scientifico. Lievemente più ampio il suo uso settecentesco: la LIZ riporta occ. in prosa da Gravina, da Giannone e dal «Caffè». 72 Serianni 2009, p. 99: «Gli esempi più antichi sembrano equamente diffusi tra verso e prosa (...). Netto colorito arcaico, e specificamente poetico, hanno invece gli esempi ottocenteschi (sciaura: Leopardi e Poerio cit. in GDLI, xviii, p. 8; sciaurato, -i, -e: Pindemonte e Monti traduttori, ancora Leopardi, Zanella); nella stessa epoca sciaurato è espunto dal Manzoni nella revisione del romanzo». 73 Forma toscana non aurea, che a partire dal Quattrocento ha tuttavia una discreta fortuna nella lingua poetica, arrivando ancora al Cesarotti ossianico e all’Iliade del Monti: cfr. Serianni 2009, pp. 97-98. 74 Ibid., pp. 102-103. 75 Nel corpus della LIZ questo verbo, impiegato in prosa dal Baretti, torna nel secolo seguente solo nei versi di Carducci (situazione simile per l’allotrpo crodidare, che nel Settecento compare solo in testi in versi). Mancano esempi settecenteschi nel GDLI. 76 Beccaria 1999, p. 185 riporta esempi da dialetti settentrionali. 77 Altri esempi: «obbligollo a inghiottir in silenzio la pillola» III.30, «battendo la diana» III.87, «lucciole per lanterne» III.138, «il consiglio di Achitofello» IV.15, «metteva, come si dice, le pive nel sacco» V.24, «legata al dito» V.38, «servirà a farvi conoscere il leone dall’unghia» V.71. La tendenza dapontiana all’accoglimento di «forme idiomatiche e modi proverbia- 281 corrono, con analoghe glosse, anche nei libretti dapontiani 78), di formule propriamente toscane, di probabile mediazione letteraria («trovandosi un giorno al verde» V.27 79), di locuzioni di ascendenza dialettale («peggio il taccone del buco» V.35, che è il veneto pezo el tacon del buso 80), e addirittura di giunture di ascendenza anglosassone: «with pebbles in mouth, come dice Byron» V.35 (citazione dalla Prophecy of Dante: e si tratta invero di una locuzione di uso comune). Da Ponte si dimostra complessivamente tradizionalista persino nella coniazione di estemporanei neologismi: è il caso, ad esempio, dei vari aggettivi ricavati da nomi proprî con l’aggiunta di suffissi come -tico (eccellenza barnabotica II.81, brunatiche II.109: dal nome del librettista Gaetano Brunati), dell’aggettivo usato per indicare gli ammiratori del librettista Casti, guidati dal suo patron, il conte Rosenberg: «la casti-rosembergica famiglia», con formula perfettamente endecasillabica di sapore dantesco («seder la filosofica famiglia»), o di un parasintetico anglicizzante come impokerarmi III.30 81. A proposito di teatri e del loro ambiente, Da Ponte si mostra particolarmente attento al lessico tecnico delle scene e della musica, illustrato con apposite glosse: così è, ad esempio, nella pagina dedicata alla faticosa composizione del Ricco d’un giorno, che dà occasione a una succinta lezione di tecnica, e insieme di terminologia musicale: In questo principalmente deve brillare il genio del maestro di cappella, la forza de’ cantanti, il più grande effetto del dramma. Il recitativo n’è escluso, si canta tutto; e trovar vi si deve ogni genere di canto. L’adagio, l’allegro, l’andante, l’amabile, l’armonioso, lo strepitoso, l’arcistrepitoso, lo strepitosissimo, con cui quasi sempre il suddetto finale si chiude; il che in voce musico-tecnica si chiama la «chiusa» oppure la «stretta», non so se perché in quella la forza del dramma si stringe, o perché dà geli» è notata anche da Matarrese 2003, p. 292. Non trovo riscontri per «fece il diavolo a quaranta» III.30, variante forse individuale (e forse prodotta da un banale errore) del comunissimo «fare il diavolo a quattro». 78 Ad esempio nelle Nozze: «Oh guarda un po’ che carità pelosa» (At. I, sc. 1.69), in Così fan tutte: «E trar, come diciam, chiodo per chiodo» (At. I, sc. 10.35), «Diglielo – si suol dire, / e lascia fare al diavolo» (At. I, sc. 13.30), «Avrei piacere / D’indorargli la pillola» (At. II, sc. 8.37): in quest’ultimo caso si tratta di un’espressione che ancora all’epoca poteva essere percepita come un francesismo, cfr. Dardi 1992, p. 364. 79 Cfr. DELI s.v. verde: le attestazioni riportate provengono dal Malmantile, e da Alessandro Strozzi. L’origine toscana della locuzione è certificata da Brambilla Ageno 1960, p. 413 («dalla candela che in fondo soleva essere verde»). 80 Cfr. Boerio 1856 s.v. tacon. 81 Notato anche da Matarrese 2003, p. 292. 282 neralmente non una stretta ma cento al povero cerebro del poeta che deve scrivere le parole. In questo finale devono per teatrale domma comparir in scena tutti i cantanti, se fosser trecento, a uno, a due, a tre, a sei, a dieci, a sessanta, per cantarvi de’ soli, de’ duetti, de’ terzetti, de’ sestetti, de’ sessantetti; e se l’intreccio del dramma nol permette, bisogna che il poeta trovi la strada di farselo permettere, a dispetto del criterio, della ragione e di tutti gli Aristotili della terra; e, se trovasi poi che va male, tanto peggio per lui. (II.51) Se l’estroso sessantetti è ovviamente un estemporaneo conio dapontiano, chiusa e stretta, strepitoso e amabile, e ovviamente adagio e allegro costituiscono preziose attestazioni complementari a quelle raccolte e illustrate, sulla base di testi della letteratura musicologica, in un recente Lessico della letteratura musicale italiana 82. Una (minima) retrodatazione Da Ponte offre, poi, quando dice di una Semiramide che «per usare una frase scenico-tecnica, “fece un fiascone”» (la prima attestazione in ambito musicale registrata dallo stesso Lesmu risale al 1836 83); ancora ad una nota a piè di pagina l’autore ricorre, poi, per la locuzione «la metà dell’entrata d’un benefizio» (chiosata: «voce tecnica teatrale, conosciuta universalmente» 84). Complessivamente rado è il contingente dei termini innovativi e legati all’attualità socio-culturale (ad esempio intraprenditore, voce per cui le Memorie offrono un paio di attestazioni tra le più cronologicamente alte 85, o economizzar(n)e V.40, verbo acclimato in italiano già dalla fine del Settecento 86): più che mots témoins francesizzanti, si notano già sporadiche riprese e adattamenti dall’inglese, dai fornimenti ‘arredi’ – forma probabilmente ricalcata sull’inglese furniture – al più banale scerifo, termine per il quale Da Ponte fornisce una delle prime attestazioni italiane limitatamente all’accezione che diverrà in seguito predominante 87, alla voce tecnica indossare, riferita a una cambiale, che è un calco dell’inglese to indorse e viene spiegato dallo stesso Da Ponte in una nota: «“Indossare” è termine tecCfr. Lesmu, s.vv. Si tratta in realtà di un’espressione antica, originariamente non legata all’àmbito teatrale, e allusiva ad alcune pratiche punitive (prostitute che sono messe alla berlina con una bottiglia o un fiasco al collo e simili), su cui cfr. Lurati 2002, pp. 25-55. 84 Teste lo stesso Lesmu, si chiama serata di beneficio o beneficiata un concerto o una rappresentazione i cui proventi sono destinati agli interpreti. 85 Si tratta di V.27, V.97. Il GDLI riporta i primi esempi in Botta (1856) e Milizia (1826-27). 86 Esempi tardosettecenteschi di provenienza veneta riporta il DELI s.v. ecònomo. 87 Si hanno 10 occ.: IV.6, IV.37, IV.40 cinque volte, IV.42 bis, IV.44. 82 83 283 nico de’ mercadanti; e non significa “addossarsi” , ma segnar il proprio nome sul dosso della cambiale, e questo vuol dire “Pagherò quella somma, se pagata non è dall’accettatore”. Non trovai questo verbo se non nel Dizionario di Baretti, in questa significazione» (III.40), e più oltre: «“Indossare” per “guarentire un pagamento” è voce adottata dall’uso, e Baretti l’ammette nel suo Dizionario» (III.95) 88. Manca invece un altro prevedibile angloamericanismo, dollaro 89, visto che per il nome di quella valuta egli ricorre ad adattamenti come ducato e, ben più spesso, piastra, che tuttavia non sembrano aver avuto particolare fortuna nell’uso italiano dell’epoca e del periodo successivo 90. 5. Un apostolato culturale e linguistico Se nella propria Autobiografia II Antonio Genovesi indicava (o meglio confessava) le sue prime e clandestine letture nelle opere della narrativa “popolare” del Seicento, un’analoga scena si presenta in una delle pagine iniziali delle Memorie dapontiane, in cui le prime esperienze culturali avvengono nella penombra di una soffitta, e passano attraverso le pagine degli stessi libri (o di volumi simili a quelli) che di lì a poco saranno citati da Manzoni tra le letture di don Ferrante: Montato un dì a caso nel soffitto della casa, dove mio padre era solito gettare le carte inutili, vi trovai alcuni libri, che formavano, credo, la biblioteca della famiglia. V’era tra questi il Buovo d’Antona, il Fuggilozio, il Guerino detto il meschino, la Storia di Barlaam e di Giosaffat, la Cassandra, il Bertoldo e qualche volume del Metastasio. Li lessi tutti con un’incredibile avidità, ma non rilessi che il poeta cesareo, i cui versi producevano nella mia anima la sensazione stessa che produce la musica. (I.2) Si ripresenta qui il topos – così ricorrente nell’autobiografia italiana del Settecento – della lettura clandestina dei classici italiani, furtivamente delibati durante le lezioni di matematica e di fisica del seminario di Portogruaro, al quale il convertito Da Ponte (nato col nome di Emanuele Conegliano, e adottato dal Vescovo di Ceneda, il nobile veneziano Lorenzo Da Ponte, in coincidenza con l’uscita del padre dall’antica comunità israelitica dell’attuale Vittorio Veneto) viene indirizzato da un canonico 88 89 90 284 Cfr. infatti Baretti 1771, s.v. to indorse. La più antica attestazione italiana nota risale al 1783: cfr. Dardi 1995, p. 155. Il GDLI non riporta esempi per piastra come corrispondente di ‘dollaro’. della Cattedrale 91. Gli anni della formazione giovanile, prima come scolaro di un «cattivo maestro» scelto dal padre, poi come seminarista, sono rievocati in pagine particolarmente briose: nella descrizione del curriculum scolastico tornano i caratteri di un sistema educativo tipicamente settecentesco, fondato sulla centralità del latino («il sine qua non de’ miei tempi», osserva in una nota aggiunta nelle Memorie II) e deficitario nel campo dell’italiano e, in generale, delle lingue moderne: «di modo che all’età di diciassette anni, mentre io era capace di comporre in mezza giornata una lunga orazione e forse cinquanta non ineleganti versi in latino, non sapeva, senza commettere dieci errori, scriver una lettera di poche linee nella mia propria lingua» (I.3). Solo grazie all’iniziativa di un abate di più ampie vedute, il giovane educando viene iniziato ai «nostri» autori, e in particolare a Dante e Petrarca, ai quali si aggiungono poi, per personale iniziativa del giovane, Ariosto e Tasso («furono i miei primi maestri: aveva imparato a memoria in meno di sei mesi quasi tutto l’Inferno del primo, tutti i migliori sonetti del secondo, e non poche delle sue canzoni, e i più be’ tratti degli altri due»): quanto basta a suscitare anche le prime prove dell’aspirante poeta che si rappresenta come un cultore, già in gioventù, della musa latina non meno di quella italiana 92. All’influenza dello stesso ambiente si dovrà, del resto, anche un tratto costante della prosa dapontiana, cioè il frequente e un poco pedantesco ricorso a locuzioni latine 93. Se, dunque, la devozione per i classici della letteratura italiana è sotto91 «Mentre s’affaticava il maestro a spiegar Euclide o qualche astruso trattato di Galileo o di Newton, io leggeva furtivamente ora l’Aminta del Tasso, ora il Pastor fido del Guarini, che aveva quasi imparati a memoria» (I.9). 92 «E non era già contento di leggere, ma trasportava in latino i più nobili tratti de’ nostri; li copiava più volte, li criticava, li commentava, gli imparava a mente, esercitandomi spesso in ogni maniera di composizione e di metro, e procurando imitare i più vaghi pensieri, adoperar le più leggiadre frasi, scegliere i più bei modi da’ miei antesignani usitati, preferendo sempre e sopra tutti gli altri quelli del mio idolatrato Petrarca, in ogni verso del quale mi pareva ad ogni lettura di ritrovar qualche nuova gemma» (I.6). 93 Qualche esempio tratto da Memorie II: «palesando ambidue ne’ detti e nel tratto un’anima degna di onorare piuttosto regum turres che pauperum tabernas» (I.49); «come, si mens non laeva fuisset, avrei dovuto fare» (I.58); «risolutissimo di vendicarmi aut certae occumbere morti» (I.63); «impatiens morae, s’era annoiato dal lungo attendermi» (I.63); «amava e favoriva usque ad aras et ulterius» (I.69); «m’ordinarono pro tribunali da parte di “colui che tutto puote”» (II.147), «il nondum venit hora tua o simil altra cosa» (II.230); «dopo essermi consigliato col governatore, indocilis pauperiem pati, presi la risoluzione di andare io stesso a Vienna» (II.234); «“Quommodo sedet sola civitas, plena populo!” fûr le sole parole ch’io potei proferire quel primo istante» (III.58); «ma vexatio dat intellectum» (III.66); «mi vidi sforzato a chiamarlo in giudizio, ripiego periculosae plenum aleae» (IV.41). 285 lineata – in toni piuttosto convenzionali – nelle pagine dedicate all’apprendistato poetico del giovane Da Ponte, nella sezione delle Memorie dedicata al periodo londinese il rapporto con la cultura nazionale assume i tratti di una vera e propria vocazione: un apostolato linguistico e letterario descritto con toni di eroismo tipicamente pre-risorgimentali. Così, Da Ponte rievoca mitizzandoli gli inizi londinesi di un’attività – il commercio di libri italiani – che egli proseguirà anche oltreoceano. Nell’inverno tra il 1800 e il 1801, trovatosi eccezionalmente e transitoriamente in possesso di una cospicua somma di denaro (grazie, come è ovvio, a spericolate operazioni finanziarie), Da Ponte viene condotto da un libraio di Londra in una stanza remota e gelida del suo magazzino stipata di libri italiani «coperti ... di tignuole e di polvere», il cui acquisto integrale gli viene offerto per trenta ghinee. Liberati dal loro ergastulum «la Vita di Michelangelo in foglio..., quella di Tasso di Serassi..., quella di Cellini, e quella di Petrarca», la missione si estende «a tutte le botteghe de’ librai di Londra», dove le trenta sterline che restano in tasca a Da Ponte riscattano «il Muratori, il Tiraboschi, il Fabroni ed il Signorelli, scrittori di sommo merito» risollevandoli dalla «deiezione in cui era in quel paese caduta la nostra letteratura» (III.104). Oltre a far guadagnare somme considerevoli nella bottega dello stesso Da Ponte («basterà dire che non mi fruttarono meno di quattrocento ghinee»), il patrimonio di mille e seicento volumi raccolti in tutta la città nel corso di quell’appassionata campagna di acquisti inaugura una fervida stagione culturale: «m’aiutaron a infiammar gli animi de’ più svegliati ed eruditi inglesi con la lettura delle incomparabili loro opere». Il disegno di «rialzare la lingua nostra» diviene, da quel momento, un obiettivo prioritario, secondato da compatrioti come Leonardo Nardini e Filippo Pananti, «eccellenti filologi, ottimi grammatici e buoni poeti» e generosamente sostenuto da patroni locali, come Thomas Mathias, con il quale Da Ponte resterà in contatto anche dopo il passaggio negli Stati Uniti, e «che ripubblicò colle stampe un considerabile numero de’ nostri classici». Il trasferimento oltreoceano – imposto a Da Ponte dai rovesci finanziari che lo avevano sommerso in un mare di debiti – viene presentato come una prosecuzione dello stesso apostolato culturale: con la differenza che New York è descritta come terra totalmente vergine di cultura italiana («non v’erano allora ... alcuni librai che avessero libri italiani ne’ loro scaffali»; «quanto alla lingua e letteratura italiana se ne sapeva tanto, in questa città, quanto della turca o della chinese») e l’America come il ricetto di «uno sciame di fuoriusciti ... che privi di mestieri, di mezzi e, per disgrazia lor, di talenti, cangiarono i fucili e le baionette in dizionari e grammatiche, 286 e si misero a insegnar le lingue»: terra ideale per un missionario linguistico-culturale, ma al tempo stesso piena di pericoli e delle solite invidie e rivalità. Importazione e commercio di libri italiani; stabilimento di «assemblee diurne o notturne, nelle quali non si parlava altra lingua che l’italiana»; avvio dei corsi di italiano e insieme di francese e di spagnolo («perché, come ben sapete ... la moda vuole che s’impari lo spagnuolo»: l’ultima parte delle Memorie è ricca di considerazioni anche propriamente operative e “politiche” sull’insegnamento dell’italiano in terra straniera); costituzione di una biblioteca italiana presso il Columbia College, alla cui nascita Da Ponte consacra anche un’opera mandata alle stampe nel ’27, la Storia della lingua e letteratura italiana in New York 94: l’autobiografia dapontiana scandisce – con abile e artificiosa rivisitazione della cronologia e della reale entità delle iniziative – le tappe di una conquista culturale del Nuovo Mondo, tesa a favorire la conoscenza della letteratura italiana (di quella antica, ma anche di quella contemporanea) e di una lingua che il cenedese considerava indispensabile per la diffusione di qualsiasi altro aspetto del patrimonio nazionale, in primo luogo di quello musicale. Trapiantare il melodramma in terra americana – l’ultima intrapresa culturale di Da Ponte, che nel 1833 chiama in America la compagnia di Giacomo Montrésor e fa mettere in scena le opere di Rossini, Bellini e Mercadante – è impossibile senza un’adeguata preparazione culturale e linguistica del pubblico. E reciprocamente, proprio la diffusione dell’opera lirica – come egli nota esplicitamente in una lettera del 1830 – è il miglior volano per la propagazione della lingua del melodramma per eccellenza 95. Con l’intraprendenza di un promotore e organizzatore culturale, Da Ponte si interroga su quale sia il modo migliore per suscitare la curiosità del pubblico d’Oltreoceano per l’italiano, soprattutto in relazione alla concorrenza di altre lingue di cultu94 Il testo, talvolta citato da Da Ponte col titolo Storia della letteratura italiana a New York, fu pubblicato da Gray e Bunce nel 1827 «con alcune lettere italiane, francesi, e spagnuole, dalle damigelle della sua triplice classe». Sull’esperzienza didattica di Da Ponte a New York e sullo stabilimento degli studi italianistici negli Stati Uniti cfr. Boni 1921. 95 Cfr. Da Ponte 1995, pp. 401-02: «Alludendo a questo suo spaccio di libri in una lettera del 19 aprile 1830 ad Alessandro Torri; “Ho presa, scriveva, la risoluzione di aprire un magazzino di libri italiani in compagnia di mio fratello Agostino, che è qui con sua figlia, come vi dissi, la quale cantò già due volte con felicissimo successo, e invogliò la città e l’impresario stesso a trarre dall’Italia una buona compagnia di cantanti. Questo fu il mio principale oggetto di farla venire a New-Jork, perché il canto italiano è per tutto un fortissimo stimolo per imparare la nostra lingua, ch’è l’unica cosa che stammi a cuore, e per la cui gloria da 25 anni in qua multa tuli fecique, come spero sappiate”» (la lettera è richiamata già da Marchesan 1900, p. 159). 287 ra, e perviene a considerazioni di sorprendente attualità. Lungi dal rivaleggiare con lingue che come «quella di Voltaire e di Don Chisciotte ... si credon utili nel commercio», l’italiano «si tiene semplicemente per lingua d’ornamento e di lusso», insomma è considerata una lingua apprezzabile per disinteressata curiosità culturale, e come tale va proposta a un pubblico pragmaticamente sensibile all’utilità della conoscenza, ma anche generosamente disposto al puro esercizio intellettuale, com’è appunto quella americano. Mosso da un’attrazione probabilmente sincera per la cultura e l’indole del Paese che lo ospita – la cui libertà egli contrappone all’oscurantismo di «repubbliche aristocratiche» e «governi monarchici» (così la Storia compendiosa, p. 12) dominanti in Europa – Da Ponte si concentra sui punti di contatto fra la tradizione letteraria anglosassone e quella italiana. La primazìa di Dante nel suo personale canone poetico (uno dei molti aspetti tipicamente pre-risorgimentali della cultura dapontiana 96) e il particolare apprezzamento del pubblico inglese e di quello americano per la Commedia lo accostano alla lettura byroniana del Sommo poeta, movendolo a tradurre in italiano la Prophecy of Dante e, nel saggio Dante Alighieri, a difendere la tradizione poetica italiana contro le accuse di William Prescott 97. Nella pratica didattica dell’italiano, la lettura dei maggiori poeti, Dante in testa, viene contrapposta alla prassi di «certi maestri di lingua italiana», fondata sull’uso della Trivialliteratur contemporanea, ossia delle «storielle puerili, o de’ ridicoli aneddoti di cui le grammatiche sono piene; o al più le Novelle di Soave, e le Lettere d’una Peruviana», fortunato romanzo di Mme de Grafigny tradotto in italiano dal Deodati. Accuse probabilmente forzate e, come è evidente, mosse dalla necessità di combattere la concorrenza. Ma in tutta l’autobiografia dapontiana la didassi linguistica è descritta, prima ancora che come operazione educativa, come una forma 96 Si veda il modo in cui Da Ponte presenta la sequenza dell’approccio didattico agli autori della letteratura italiana che egli propone ai suoi allievi: «Dopo i più nobili toscani prosatori, presentai loro i poeti. Il Metastasio fu sempre il primo tra questi: indi tutti quegli altri di sommo grido, lasciando sempre per ultime la Divina Commedia e le Rime del Petrarca; e sebben tutti questi autori furon generalmente amati, nulladimeno chi fu il più ammirato e studiato? Fu il ghibellino» (V.56). 97 Cfr. Boni 1921. Il saggio Dante Alighieri, del 1825, è stato pubblicato da Lorenzo Della Chà (Da Ponte 2004). L’autore vi esordisce così: «Che la lingua italiana tenga fra le lingue moderne un loco eminente, che abbondi di tutti que’ pregi che rendono una favella grata ad udirsi, facile a pronunziarsi ed atta a dipingere con vivacissime tinte ogni abito, ogni stato, ogni sentimento dell’anima e, come ben disse il gran Byron, The hero’s ardour and the lover’s sighs, è una verità che nessuno senza arrossire oserebbe porre in dubbio a’ dì nostri» (p. 3). 288 di seduzione intellettuale, fondata sul culto della bellezza e su un rapporto tra docente e discenti che in alcuni casi sfiora la complicità amorosa. Vari episodi di seduzione e di delicato corteggiamento intellettuale descritti nelle Memorie si incentrano in effetti sull’incontro con donne di lingua straniera, a partire dall’episodio della servetta goriziana con la quale il poeta intesse una sorta di teatrale duetto attingendo le parole del dialogo amoroso direttamente dalle pagine di un dizionario italiano-tedesco 98: «scenetta ... graziosissima», come la descrive l’autore stesso, sottolineando la sua teatralità 99. «A capo di questi giorni – osserva Da Ponte tracciando il bilancio della sua permanenza presso la locanda in cui serviva la giovane – m’accorsi di aver fatto un vocabolarietto, quasi tutto composto di parole e di frasi d’amore, e questo mi servì poi moltissimo nel corso delle mie giovenili conquiste in quella città e altrove» (II.6): quale miglior avviamento allo studio delle lingue straniere? Una variazione sullo stesso tema ritorna ancora nell’episodio del primo incontro con la «giovine inglese, figliuola d’un ricco mercadante» che diverrà poi sua moglie: anche in questo caso, a dare ai due l’occasione, o meglio il pretesto, di frequentarsi, sono le mutue lezioni di lingua (il francese insegnato da lei, e l’italiano da lui): «cominciavamo a sentir un non so che di piacevole nelle nostre conversazioni, che duravano assai più lungamente di quello che tra amici e maestri di lingua durare sogliono; un non so che, ch’operò in entrambi assai vivamente e finì con un vicendevole innamoramento» (II.227). Per un anziano maestro di italiano particolarmente versato nell’educazione delle giovani fanciulle, il racconto di simili episodi giovanili costituisce naturalmente una sorta di ammiccante e non troppo maliziosa promozione. Complementare al tema dell’incontro con culture linguistiche straniere è 98 «Finalmente una di quelle partì, e dopo alcuni minuti la padrona fe’ cenno all’altra d’andarsene, dicendole qualche cosa in tedesco, ch’io non capiva. In pochi istanti la servetta tornò: portolle un libro, e ripartì. Quando restammo soli, venne presso di me, e, cercando in quello alcune parole, vi mise dei pezzetti di carta e mi fe’ cenno di leggere. Era quel libro un dizionario tedesco e italiano: a’ lochi indicati lessi queste tre parole: “Ich liebe Sie”; e trovai che significavano “Io amo voi”. Come la seconda parte di quello era il dizionario italiano, così cercai la congiunzione “e” e le feci rileggere le stesse parole “und ich liebe Sie”. La scenetta allora divenne graziosissima: conversammo almeno un’ora e mezzo coll’aiuto del dizionario, e ci dicemmo scambievolmente diverse cose che parevano dover finire assai seriamente» (II.4) 99 Di «teatralità» delle Memorie parla Ludovico Zorzi, anche in riferimento a un carattere generale dell’opera: «è evidente che l’intento dell’impostazione teatrale delle Memorie, e in particolare della prima parte di esse, sta nel tentativo del Da Ponte di far di sé un personaggio ricalcato su uno dei protagonisti del repertorio scenico del Settecento, e cioè l’honnête homme, ideale della società di Luigi XIV» (Zorzi 1981, pp. 317-18). 289 quello della traduzione letteraria dall’italiano e in italiano: frutto di versioni e di adattamenti sono presso che tutti i libretti dapontiani, compresi quelli più riusciti e più celebri. Se giusto nell’efficacia della trasposizione in italiano di opere composte in altre lingue si manifesta la maestrìa del librettista, si è visto come già nell’Extract egli si soffermasse sul problema della versione in inglese dei suoi testi. Nelle Memorie, l’attenzione si sposta sul rapporto con i suoi modelli stranieri e sul confronto con i rivali sulla scena viennese e su quella londinese. Ancora una volta, l’intento apologetico e autopromozionale è dominante, ma non impedisce di cogliere vari aspetti peculiari del modus operandi dapontiano – certo non troppo differente da quello dei suoi colleghi e rivali – nella gestione del rapporto fra testo originale e traduzione, e fra questa e il testo musicale soggiacente, per la cui perfetta interazione egli poteva valersi di periti collaboratori («andai a trovare un amico che sapeva bene la musica, feci la pruova delle parole, e con piccolissimi cangiamenti si trovò che quadravano perfettamente alle note del compositore», scrive a proposito di un libretto composto «in quarantotto ore» per Vincent Le Texier). Ma un ruolo decisivo doveva giocarvi l’esperienza maturata nel campo propriamente tecnico musicale: per tradurre un’opera da una lingua in un’altra, vi vuol qualche cosa di più che saper far versi. Bisogna farli in modo che gli accenti della poesia rispondano a quelli della musica, e questo si fa bene da pochi, ed è necessaria singolarmente un’orecchia musicale e una lunga esperienza. (III.37) Ferme restando, naturalmente, un’«orecchia» e un’«esperienza» altrettanto fini nel campo propriamente letterario, e in quello stilistico: nell’intento di ridicolizzare il poeta Giovanni Bertati, Da Ponte narra un’imbarazzante visita nella sua dimora, sul cui scrittoio dominano «un tomo di commedie francesi, un dizionario, un rimario e la grammatica del Corticelli»: i livres de chevet di una poesia spregevolmente dilettantesca. Nella più tarda stagione americana, poi, Da Ponte passa dalla traduzione artistica e musicale all’esercizio, ancora letterario ma di diversa natura, della versione a fini didattici. Tradurre in italiano la Prophecy byroniana diventa, così, al tempo stesso una pratica culturale rivolta agli allievi e un disinteressato svago intellettuale, quasi l’estremo sollievo del vecchio poeta ormai lontano dal proprio mondo. E la traduzione diviene una forma di consolazione: Sorgeva la mattina dal letto al sorger del sole; passava un’ora leggendo, ora co’ miei allievi ed ora co’ miei figli, un prosatore o un poeta italiano; faceva con essi la 290 mia campestre colazione, e mezz’ora dopo m’adagiava (sempre piangendo) or sotto un pesco, ed or sotto un pomo, e traduceva uno squarcio di quel poema, che mi rendeva dolci le lagrime. Quando l’estro parevami stanco, correva a rianimarlo all’abitazione di quelle tre incomparabili damigelle, che colle loro grate accoglienze, col lor divino entusiasmo pe’ nostri autori e co’ loro angelici volti mi faceano dimenticare le mie angosce e passar de’ momenti beati in seno all’ospitalità, nel piacer ineffabile d’ammaestrarle. (V.18) Non sfuggirà la somiglianza situazionale tra il ricorso alle tre damigelle per rianimare l’«estro ... stanco» e il malizioso duetto con la sedicenne ideato nelle stesse Memorie per descrivere la composizione del libretto del don Giovanni. Il rispecchiamento tra le situazioni vissute durante la stagione poetica europea e quella didattica americana è, del resto, a tal punto caratteristico della struttura delle Memorie da presentare queste ultime come un testo ideato in funzione della traduzione da parte delle allieve dell’autore 100. L’italiano, lingua formatasi sui volgarizzamenti, non è per Da Ponte meno illustre per le opere composte direttamente che per quelle in essa tradotte: «Io credo – scrive nell’orazione letta ai suoi allievi il giorno del suo settantanovesimo compleanno, e pubblicata in calce alle Memorie II – che un ottimo traduttore non vaglia meno che un ottimo scrittore originale». 6. Un amico del presidente Jefferson Nato il giorno di Natale del 1730 a Poggio a Caiano, Filippo Mazzei intraprende ventenne una serie di viaggi e di relazioni internazionali che lo allontanano progressivamente dalla patria e dall’originaria professione medica e lo trasformano in una singolare figura d’avventuriero, di commerciante e di diplomatico. Londra, la Virginia, poi ancora l’Europa (Parigi, Firenze, l’Olanda), e di nuovo gli Stati Uniti, dove il fiorentino diviene amico e consigliere di personaggi di primo piano della nascente democrazia americana (in particolare di Thomas Jefferson, con il quale intrattiene un copioso carteggio), oltre che della componente liberale e moderata dei rivoluzionari francesi, come La Fayette e Dupont de Nemours. Divenuto 100 «Di settanta cinque damigelle che lessero que’ volumetti l’anno 1825, nella mia triplice classe, pochissime quelle furono che non le traducessero egregiamente in un mese, e non poche furono quelle che per la lettura di quelle Memorie soltanto, non giungessero a scrivere correttamente e con qualche grazia, in tre e fino in due soli mesi» (V.25). 291 ambasciatore del re Stanislao Augusto di Polonia a Parigi, Mazzei termina di fatto la propria carriera diplomatica con il crollo dell’antico regime. Ritiratosi a Pisa nel 1796, egli trascorre gli ultimi vent’anni della sua vita in Italia – salvo un viaggio in Russia, nel 1802 – attendendo (verosimilmente a partire dal 1810, come si vedrà) alla redazione di un manoscritto di Memorie destinato ad essere pubblicato solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1816. L’autobiografia mazzeiana si presenta come una sorta di lungo memoriale rivolto ad un anonimo interlocutore, cui egli si indirizza con un tono confidenziale, fin dall’apertura dell’opera: «Voi mi avete richiesta più volte l’istoria della mia vita», e poi ancora a più riprese nel séguito; ad es.: «Non vi maravigliate, Amico, di questa istoriella, che vi parrà eterogenea a quel che mi avete richiesto», I.20 101. Questo personaggio, mai menzionato direttamente, è stato identificato ora con il giurista pisano Giovanni Carmignani, ora con l’economista e agronomo Giovanni Fabbroni, anche se potrebbe ovviamente trattarsi di un interlocutore fittizio 102. Apparentemente redatto su sollecitazione del destinatario, il testo delle Memorie fu dunque di fatto consegnato manoscritto a Carmignani e da questi ceduto a Gino Capponi, che solo nel 1845-46 ne promosse la pubblicazione. Dati i trascorsi rivoluzionarî e il processo intentato all’autore dalla giustizia granducale nel 1799 per sospetto giacobinismo 103, la stampa dell’opera avvenne non in Italia, bensì presso la tipografia della Svizzera italiana di Capolago. Perduto il testo usato da Capponi, sull’edizione ottocentesca si fondarono quella pubblicata a Roma nel 1944 senza il nome del curatore e quella allestita nel 1970 da Alberto Aquarone: solo due anni più tardi, però, una ricognizione dei materiali non catalogati presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze portò a individuare nuovamente il manoscritto scomparso, che tuttavia non venne più pubblicato integralmente 104. Si tratta di una pila di fascicoli slegati di varia consistenza, le cui 905 pagine 101 Qui e nel seguito, si rimanda a volume e pagina dell’edizione Mazzei 1845-46 (su cui, nell’impossibilità di averne una versione digitale interrogabile, è stato compiuto uno spoglio manuale): scelgo di fondarmi su quella – e di verificarne la lezione direttamente sul manoscritto per le citazioni di forme, costrutti e lemmi d’interesse linguistico, visto che l’edizione di Alberto Aquarone (Mazzei 1970), nel complesso attendibile, non rispetta sempre le grafie dell’originale: nel passo qui citato si legge ad esempio «meravigliate» (I.36). 102 Cfr. la nota al testo di Aquarone a Mazzei 1970, p. 17. 103 La vicenda processuale di Mazzei è stata ricostruita da Montorzi 1981. 104 Del ritrovamento del manoscritto dà notizia Monti Giammarinaro 1977, p. 10 (che precisa: «nel 1972, durante lavori di revisione effettuati nel magazzino dei manoscritti, per un caso fortunato, si giunse alla scoperta»); una sommaria descrizione se ne legge ibid., p. 15. Il manoscritto è oggi segnato «Gentile Farinola, Cart. 9, 96». 292 sono ordinatamente numerate dall’autore stesso 105; il testo è riportato in pulito, con la tipica disposizione in colonna sulla metà destra della pagina, e la colonna di sinistra è lasciata libera per le correzioni – invero assai rare – e per le note, che nelle edizioni sono riportate a piè di pagina 106. Che si tratti di un autografo e non di un manoscritto allestito per l’edizione Capponi sembra confermato dal confronto con varie lettere coeve del Mazzei, oltre che con scritti di pugno dell’autore risalenti ad anni anteriori 107. Quello conservato a Firenze pare dunque un manoscritto preparato per la lettura da parte di estranei se non precisamente per la stampa: vari dettagli come la regolare marcatura dei fascicoli con un numero romano riportato in basso a sinistra sulla prima pagina e la dicitura «collazionato», della stessa mano che stende il testo, presente sull’angolo superiore sinistro, rivelano l’accuratezza di una trascrizione – non certo di una scrittura “di getto” – i cui estremi cronologici sono forse quelli indicati all’inizio e alla fine del manoscritto, rispettivamente strutturati come l’inizio e il congedo di un testo epistolare: Pisa, 12 agosto 1810 – 5 marzo 1813. Se, come è teoricamente possibile, tali termini coincidono con quelli della composizione, si potrebbe pensare ad una progressiva trascrizione in bella copia a partire da una minuta, di mano in mano che l’opera veniva stesa, anche se l’estrema accuratezza complessiva del manoscritto farebbe piuttosto pensare alla copia di un testo già lungamente meditato, al punto di non necessitare quasi di correzioni 108. 105 Solo in rari casi la numerazione imperfetta (soprattutto occasionali errori nella cifra relativa al centinaio) è stata corretta a lapis, verosimilmente da chi ritrovò e ricatalogò il manoscritto all’inizio degli anno Settanta. 106 Che appunto di note si tratti – anche nell’intenzione dell’autore – e non di aggiunte da integrare nel testo sembra mostrato dal fatto che esse sono di norma aperte dalla dicitura: «Nota». Si aggiunga che alcune di esse non occupano solo la colonna di sinistra, ma si dispongono a forma di elle invadendo tutta la parte inferiore della pagina, all’uopo lasciata libera dallo scrivente, che evidentemente attinge da un antigrafo in cui le note sono già presenti ed è in grado di valutarne la lunghezza nel definire la messa in pagina del testo. Difficile da spiegare è poi una dicitura che si trova in alcuni casi nella colonna di sinistra, in corrispondenza di segmenti posti tra parentesi nel testo: «N. B. Il tra parentesi sembra Nota» (così alle pp. 427, 466): in questi casi, l’edizione di Capponi sopprime le parentesi nel testo. Una nuova ricognizione complessiva del manoscritto, funzionale alla sua edizione, potrà forse far luce su questi dettagli. 107 Il confronto è reso agevole dall’abbondanza di facsimili riportati in appendice a Mazzei 1975 e Mazzei 1983. 108 Rarissime, come si è detto, quelle presenti nel manoscritto, e quasi sempre relative a banali errori di copia. Ecco quelle rilevabili nelle prime cento pagine: «intrapresa troppo ardua» > «intrapresa molto ardua» (p. 1); «due volte» > «2 volte» (p. 3); «voglio» > «Voglio» dopo punto fermo (p. 7); «il loro benefattore» > «il lor benefattore» (p. 16); «due» > «2» (p. 293 Sebbene l’edizione capponiana appaia nel complesso fedele al manoscritto, essa mostra qualche discrepanza con la sua lezione: una nuova, auspicabile edizione condotta sul testo più antico consentirebbe dunque una più sicura messa a fuoco dell’opera e dei suoi caratteri linguistici, per i quali potremo qui fondarci su uno spoglio della princeps e su verifiche a campione del manoscritto. Quest’ultimo, intanto, dissipa col suo aspetto pulito e ordinato l’impressione che Aquarone ricavò (e forse enfatizzò) dalla lettura dell’edizione di Capolago: cioè i «segni evidenti di una notevole frettolosità nella stampa e di una grande incuria nella revisione» 109 che in realtà si manifestano solo nell’appendice documentaria presente nella princeps e attinta non al manoscritto delle Memorie ma ad altri faldoni e «portafogli» (così lo stesso Mazzei indicava, come vedremo, il materiale accessorio ch’egli intendeva accompagnare al manoscritto dell’opera) confluiti nell’archivio Capponi. Si tratta dunque di un’opera certamente rivista dall’autore e portata a un notevole livello di finitezza; eppure, colpisce la mancanza di scansioni testuali, che potrebbe aver influito sull’impressione di incuria degli editori successivi: se le Memorie mazzeiane non sono divise in parti o capitoli e scorrono come un testo ininterrotto, ciò si dovrà probabilmente all’influenza della tradizione memorialistica e in particolare di quella toscana alla quale l’autore poteva guardare. Tale caratteristica strutturale non provoca, tuttavia, squilibri particolarmente vistosi: la materia dell’opera si dispone di fatto omogeneamente, con la messa a fuoco, in sequenza, di singoli episodi o di fasi particolarmente significative della vita del protagonista, e con regolare alternanza di brani dedicati a transizioni, viaggi e fasi meno rilevanti. Misurata è anche l’inserzione di excursus politici, diplomatici o in generale storici non direttamente correlati con i fatti di cui si narra, e limitati a pochi tocchi anche i commenti su indole e condotta dei personaggi incontrati, la cui caratterizzazione è affidata piuttosto al dialogo in 22); «mi hà fatto» > «mi à fatto» (p. 23); «avevano detto» > «avevan detto» (p. 27); «andarmi a confessare» > «andar’a confessarmi» (p. 27); «uffiziali» > «ufiziali» (p. 44); «l’amio» > «l’amico» (p. 48); «nella città» > «nelle città» (p. 49); «qualunque di loro» > «chiunque di loro» (p. 55); «riproverarmi» > «rimproverarmi» (p. 55); «cariddi» > «caribdi» (p. 61); «del che ò avuto più volte avuto motivo» > «del che ò più volte avuto motivo» (p. 61); «nel calor della dis...» (illeggibile) > «nel calor della disputa» (p. 63); «come un suo unico figlio» > «come il suo unico figlio» (p. 65); «ab...ava» (illeggibile) > «abondava» (p. 73); «dello» > «detto» (p. 74); «non mi ero allontanato» > «non mi ero mai allontanato» (p. 77); «mai incontrato» > «mai più incontrato» (p. 77); «portar fuori» > «portar fuori di casa» (p. 82). 109 Cfr. la nota al testo a Mazzei 1970, p. 18. 294 discorso diretto, alla menzione di aneddoti rivelatori delle personalità, ad arguti abbozzi narrativi. Il gusto per la descrizione scorciata e suggestiva emerge, tra le pieghe di una narrazione perlopiù sobria, serrata e referenziale, nella prima parte dell’opera in episodi come quelli riferiti alle avventure orientali, fra sontuosi ricevimenti nella dimora di un Mullà e fascinose tentazioni femminili: Mentre fasciavo il braccio alla serva, ella venne a sedere accanto a lei, riguardandomi sempre senza parlare; si levò il fazzoletto dal collo, e offerse alla mia vista un paio di pomi, che avrebbero tentato un cento Adami. Da quel che veddi compresi chiaramente, che la serva adorava la sua padroncina, e che (se avessi saputo la lingua turca) sarebbe stato facile di convenire d’un reciproco piacevolissimo appuntamento (I.150). O ancora – nelle pagine dedicate alla Francia rivoluzionaria – nella riproduzione di dialoghi fra cortigiani di Versailles o fra rappresentanti del bel mondo parigino. Ad esempio in una scena ambientata nella casa della «contessa d’Albania», in presenza di Alfieri e di Jacques-Luis David, nei primi giorni della Rivoluzione: Il giorno dopo non si parlava quasi d’altro in Parigi che dell’accaduto in Versailles. Pranzai dalla contessa d’Albania, e dopo pranzo il famoso pittore David disse: “è stata una gran disgrazia, che quella carogna non sia stata strangolata, o fatta in pezzi da quelle donnaccie, perché fintanto che sarà viva, non ci sarà quiete nel regno”. Sapendo la contessa che era mio amico, mi domandò se non credevo che fosse un poco pazzo; e io (riguardando Alfieri, e poi lei) risposi: “Certo è, che i pittori e i poeti ne hanno sempre un piccol ramo, come pure del profetico” (II.41). Frequente è poi, soprattutto nella parte finale dell’opera, il rimando alla corrispondenza e al materiale bibliografico che l’autore mette esplicitamente a disposizione del suo anonimo interlocutore: ad esempio, «Dalle mie lettere vedrete, che quella fu per me un’epoca molto infelice» (II.367); «se leggete i miei dispacci di quell’epoca, ne troverete tutte le particolarità esattamente descritte» (II.355); «Io scrissi, e feci stampare un opuscolo, indirizzato au Peuple François sur les assignas par un citoyen des États Unis d’Amérique che avete potuto vedere nella raccolta di vari opuscoli, che vi prestai, e che (secondo il solito) non mi avete per anche restituito» 110. 110 Altrove l’autore fa riferimento a un copialettere dei dispacci inviati al Re di Polonia: «Se bramate di sapere di sapere lo stato in cui credei che fossero le cose in Francia quando me n’andai per non più tornarvi, potete vederlo nelle copie dei miei dispacci del 1791, quinterni S, 295 Come si è già accennato, Mazzei sembra riferirsi ad un archivio dalla consistenza e dall’ordinamento ben precisi: «Ve gl’includo nella quinta divisione del portafoglio» (II.44), «vari fogli che troverete nel portafoglio» (II.93), «l’altre lettere e biglietti di quei 2 grandi straordinari caratteri son nella terza divisione del portafoglio» (II.154). Indirettamente influenzato dalla provenienza geografica e culturale dell’autore, oltre che dal suo profilo intellettuale e professionale, è anche il ruolo che nelle Memorie mazzeiane ha la riflessione sulla lingua, cioè le osservazioni metalinguistiche e, più in generale, stilistiche e letterarie. Se da un lato gl’interessi politici, diplomatici e commerciali sopravanzano, in lui, quelli letterari da un altro la sua toscanità determina nei confronti dell’italiano un atteggiamento non comparabile con quello di altri contemporanei. Le Memorie mazzeiane nel loro complesso mostrano un’uniforme patina toscaneggiante, cioè un misurato ma continuo affioramento di tratti tipicamente regionali, e tale carattere è particolarmente marcato – con evidente intento espressivo – in qualche ricordo d’infanzia, come ad esempio la battuta sapidamente connotata del nonno, in cui un tocco di color locale è affidato a una forma del verbo essere tipicamente demotica e ad un’esclamazione altrettanto tipica: «Mi diceva, è vero, ch’io procurassi d’evitare gl’impegni; ma se tu ci siei (soggiungeva) stacci; e a dare bada d’esser de’ primi; co’ quattrini le cose s’aggiustano; ma se tu ne porti a casa; affeddundio te le vo’ raddoppiare» (I.9). Per il resto, il silenzio di Mazzei sull’apprendimento dell’italiano è facilmente spiegabile: da buon toscano, egli sperimenta un’educazione linguistica giovanile diversa dagli autori coevi di altra provenienza, e da buon toscano, non manca di sottolineare la propria fedeltà alla «pronunzia nativa», di cui è orgoglioso al pari di quella “londinese” conseguita parlando inglese: «il sig. Orazio Mann, residente d’Inghilterra presso il governo di Toscana, diceva (quando parlavo l’inglese) che gli pareva di sentir parlare gli abitanti di Londra. Ma parlando la lingua toscana, ho sempre conservata la pronunzia nativa, benché io abbia passato più della metà, e la meglior parte della mia vita, in paesi esteri e lontani» (I.171). Del resto, proprio la e T; ma ve ne trascriverò 3 periodi di quello del 5 dicembre, che per voi probabilmente basteranno» (II.57). Si tratta evidentemente del manoscritto rimasto tra le carte di Gino Capponi (oggi presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, Ms G. Capponi 334), relativo al periodo dal 13 luglio 1788 al 17 ottobre 1793; una descrizione del codice si legge in Monti Giammarinaro 1977, p. 15. 296 sua origine favorirà, in Virginia, la conoscenza con Jefferson, «che aveva imparato da sé la nostra lingua senz’averla mai sentita parlare» e «avrebbe gradito molto la compagnia d’un giovane toscano istruito». Forte di quella che egli considera una naturale dote linguistica, Mazzei può dunque sorvolare sul suo apprendistato linguistico giovanile, limitandosi – quanto ai propri studi della patria letteratura – ad un cenno sulla preferenza accordata fin da giovane al Tasso rispetto all’Ariosto, un riverbero della quale giunge fino alla descrizione di George Washington, «che fu poi quel generale che tanto contribuì col senno e colla mano allo stabilimento della libertà americana» (I.368). Così, tra i ricordi d’infanzia vi è solo un cenno relativo all’apprendimento del latino; il consueto figurino del maestro incompetente è in questo caso ancor più simile al prototipo del «plagosus» aio oraziano, trattandosi di un prete che «lasciava correre degli errori, e spesso correggeva senza causa», fino al giorno in cui fa calare sul giovane allievo «una nerbata, perché avevo scritto diligere in vece d’amare» (I.11): la fuga del giovinetto e l’intercessione di uno zio priore pongono fine, in questo caso, alle inique sofferenze. Puramente aneddotica è poi la riflessione sulle lingue incontrate – e solo superficialmente apprese – durante i viaggi giovanili nell’Europa orientale e in Medio Oriente. Così, Costantinopoli colpisce il viaggiatore per la quantità di persone che vi parlano un perfetto italiano («di tutti i paesi esteri a me noti – scrive – è quello, dove la lingua toscana si parla e si pronunzia meglio che in ogni altro, non solo dagli Ebrei, Greci e Armeni, ma da tutte le altre nazioni europee»), e il fenomeno è ingenuamente spiegato con l’«esser la nostra lingua più facile di tutte le altre ad impararsi, come a pronunziarsi» (I.122). Il contatto con culture esotiche stimola nell’avventuriero una naturale capacità di adattamento basata, più che sullo sforzo di assimilare le lingue straniere, sull’ingegnoso ricorso ad una comunicazione elementare ma efficace. Imbarcandosi su una nave che lo porterà a Londra, il giovane Mazzei, ancora del tutto privo di conoscenze dell’inglese, non stenta a intendersi perfettamente con il comandante del naviglio: «io non sapevo punto la lingua inglese, e il capitano era nell’istesso caso quanto all’italiano; non ostante, intendendo io qualche poco, ed egli altrettanto la spagnuola e la portughese, c’intendevamo benissimo. Non comprendevamo il significato di molte delle parole che usavamo; non ostante (siccome il capitano era culto, e aveva ingegno) la certa cognizione d’alcune ci bastava per comprendere l’altre, o piuttosto per indovinarne il senso» (I.163). Segue un 297 esempio, corredato da una considerazione generale su quella che oggi si chiamerebbe competenza comunicativa: Vedendo ch’io non comprendevo il significato di my contriman, mi disse, in aria d’aver trovato quel che ci voleva per far comprendere, Todo es uno como Florenzia. Io supposi che l’intenzione sua fosse di farmi comprendere, che quel marinaro era riguardo a lui quel che sarebbe stato riguardo a me un fiorentino; e in fatti mi disse il capitano, che avevo ben congetturato, poiché my contriman significa mio paesano. Molte volte, nella mia troppo lunga vita, ho avuto di luogo di riflettere al sentenzioso verso: «E la necessità gran cose insegna!» (I.163). L’arrivo nei paesi di cultura anglosassone (l’Inghilterra prima, poi la Virginia) favorisce l’approfondimento dell’inglese – l’unica lingua alla quale egli riservi, nelle Memorie, osservazioni non meramente superficiali: un’intera pagina è dedicata al metodo elaborato per impararla e al problema della pronuncia 111 – e al tempo stesso gli dà occasione di dedicarsi, pur con uno spirito ben diverso rispetto a Da Ponte, alla diffusione della lingua e della cultura italiane. L’insegnamento della «lingua toscana» ad alcuni amici londinesi è per lui un gradevole passatempo («non potevo adattarmi ad insegnarla per denaro»), coltivato con distacco, registrando con ironica pacatezza l’episodio di un «giovane prosontuoso, e per conseguenza imprudente» che «volendo esaltar Milton, parlò indiscretamente dei nostri poeti, disse che si encomiava superlativamente Dante, perché non era intelligibile, ne fece 2 critiche non totalmente ingiuste e concluse colla frase molto usata in quel paese dalle persone superficiali (parlando dell’altre nazioni) (they are four hundred years backwards) son 400 anni addietro». Della difesa dell’Italia si incarica, peraltro, un anziano e dotto britan111 «Mi valsi anche d’un’altro mezzo per imparar la lingua inglese, e son persuaso, che sarebbe ottimo per imparar qualsiasi lingua. Presi un libro, che trattava di soggetti facili a comprendersi, e copiai più volte l’istesso capitolo. Se la prima volta comprendevo, o indovinavo il significato di 20 parole, ne comprendevo circa 40 la seconda, e continovando a copiarlo molte volte, ero quasi certo di comprenderne tutto il senso. Il lavoro è un poco tedioso, ma sommamente utile. Con quel metodo pervenni a scriverla correttamente molto più presto di quel che avevo sperato. Quanto alla pronunzia è impossibile d’impararla per mezzo di regola. Ogni vocale à diversi suoni. L’a si pronunzia in alcune situazioni come la nostra, in molte altre come l’e, e spesso partecipa dell’a e dell’o. L’i si pronunzia qualche volta come il nostro, e il più delle volte ai. Due oo si pronunziano come noi pronunziamo l’u. L’l qualche volta si tace, e tutte le consonanti si pronunziano in alcuni posti con maggior forza che in altri. Il miglior metodo per impararne la pronunzia è di far leggere un inglese, che non sappia altre lingue che la propria, di seguitarlo, e poi rilegger solo l’istessa cosa, e farsi correggere dove bisogni, finché non si pronunzia perfettamente» (I.170). 298 nico («noi dobbiamo i nostri Locke ai loro Marsili Ficini, i nostri Newton ai loro Galilei, e quanto a Milton, vi potrei far vedere molti passi che ha presi da Dante»), mentre l’autore preferisce sottolineare il misurato aplomb della sua reazione e l’apprezzamento espresso dagl’interlocutori inglesi per la sua condotta. L’America, descritta nelle Memorie di Da Ponte come un territorio completamente vergine di cultura italiana, accoglie Mazzei mostrandogli un tale amore per la sua lingua natìa che, più che alla divulgazione dell’italiano, egli appare qui intento al raggiungimento di una conoscenza dell’inglese pari a quella che del toscano hanno i suoi sodali d’Oltreoceano, in primis Jefferson, l’abitatore della villa in istile palladiano battezzata Monticello, che «comprendeva la lingua toscana molto bene, ma non l’aveva mai sentita parlare». Intrapresa la pubblicazione di un «foglio periodico» per informare gli abitanti delle Colonie delle tensioni politiche e diplomatiche che andavano profilandosi con il governo inglese, Mazzei redige inizialmente in italiano i suoi testi per la gazzetta, facendoseli tradurre dallo stesso Jefferson. Ma di lì a poco, è lo stesso futuro presidente ad esortarlo a scrivere direttamente in inglese, con l’argomento che la chiarezza e l’efficacia stilistica avrebbero fatto aggio su una «frasiologia» satura di elementi italiani: In tutti i paesi esteri ov’ero stato, avevo inteso lodar la lingua toscana per la dolcezza, e tacciarla d’essere snervata e prolissa. Jefferson fu il primo, che intesi averne una diversa opinione. Dopo ch’ebbe tradotto alcuni numeri del mio foglio periodico, mi disse di scrivere in inglese, e che mi avrebbe corretto dove ne fosse stato bisogno. Dubitai, che si fossi annoiato di tradurre, ma ei mi assicurò del contrario, e disse: “Voi avete una maniera d’esprimervi nella vostra lingua, ch’io non posso tradurre senza indebolirla”. Scrissi dunque in inglese, e sul primo foglio, dopo fattevi le correzioni, pareva che vi fosse stato un diluvio di mosche; ma presto diminuirono, e dopo che n’ebbi scritti 6, o 7, mi rese il seguente dicendo, che non vi era nulla da correggere. Non potevo persuadermene; ma egli mi fece osservare vari luoghi, dove mi ero espresso con molta energia, e ch’ei disse di non poter correggere senza snervargli. La frasiologia (soggiunse) non è pretta inglese; ma ognuno vi comprenderà, e farà più effetto. Questo è quel che importa. (I.217) Del resto, giusto la conoscenza imperfetta dell’inglese parlato («possedevo la lingua ... a segno da poterla scrivere passabilmente ...; ma per parlare a un’assemblea popolare, bisogna aver pronti i termini propri, e la scelta delle frasi, che fanno spesso più effetto del solido ragionamento» I.395) induce Mazzei a non partecipare attivamente alla vita politica americana, rifiutando la candidatura alle elezioni della sua contea. Nessuno 299 sciovinismo patriottico, tuttavia, in questa scelta, né alcun’ombra di diffidenza: di fatto, nelle opere pubblicate in vita e ancora nel testamento che egli detterà a Pisa in tarda età egli amerà sempre qualificarsi come «cittadino degli Stati Uniti d’America» (o «della Virginia») con la stessa naturalezza con cui nelle Memorie si definisce «cittadino del Poggio a Caiano» 112. Nella parte delle Memorie dedicata ai periodi trascorsi Oltremanica e Oltreoceano, l’inglese intercala l’italiano non meno di quanto accada con il francese, spesso usato per riportare dialoghi, discorsi o lettere nella parte riferita agli anni parigini. Giusto in francese, del resto, è pubblicata l’opera di maggior impegno data alle stampe da Mazzei, le Recherches historiques et politiques sur les États-Unis de l’Amérique septentrionale ... par un Citoyen de Virginie uscite a Parigi nel 1788. Composte da Mazzei in italiano, e tradotte «con grande zelo» da un conoscente normanno dell’autore 113, esse si rivolgono apparentemente «au peuple des États-Unis d’Amérique», ma in realtà parlano soprattutto a quello europeo – e a quello francese, in particolare – con l’intento di dissipare «les préjugés que j’ai trouvés en Europe sur nos gouvernemens et sur notre situation actuelle» 114, nell’imminenza dello scoppio, nel Vecchio continente, di una rivoluzione solo apparentemente affine a quella consumatasi, con un decennio d’anticipo, nel Nuovo mondo. Da Parigi, dove Mazzei può disporre di una specola d’osservazione privilegiata nella sua veste di ambasciatore del re di Polonia («un cittadino del Poggio a Caiano – scrive ironicamente – ebbe l’onore d’essere il primo rappresentante della Polonia in Francia, dopo una sospensione di 27, o 28 anni» II.6), egli comunica naturalmente in francese con Stanislao Augusto, e anche quando passa in Polonia, dopo lo scoppio della Rivoluzione, non sembra avere alcun bisogno d’imparare il polacco. Più ancora che a Parigi, anzi, egli può usare l’italiano alla corte di Varsavia, nella quale la sua lingua natìa aveva una discreta diffusione e, soprattutto, una veneranda tradizione: del resto, un altro toscano, il fiorentino Scipione Piattoli, è in quegli anni il più influente consigliere del re Stanislao 115. Così, Mazzei scrive in 112 Cfr. la nota di Aquarone a Mazzei 1970, p 24. «Alloggiava nell’istesso albergo, dov’ero io, un certo Mr Faure, giovane normando, avvocato al parlamento, che sapeva molto bene la lingua italiana, oltre l’inglese, la spagnola, la tedesca e la sua. Sentendo dal padrone, che volevo stampare il mio libro in francese, mi domandò se volevo permettergli di tradurlo, “poiché ciò (diss’ei) mi procurerà una buona occasione di perfezionarmi nella lingua italiana» (II.537). 114 Cfr. Mazzei 1788, I, p. i. 115 Dell’esperienza polacca di Piattoli e dei suoi rapporti col Mazzei si è occupato D’Ancona 1915. 113 300 italiano le sue «riflessioni sulla natura della moneta e del cambio», che vengono fatte tradurre in polacco dal re ad uso del pubblico locale, e poi in francese per i «ministri esteri», cioè per i diplomatici accreditati (i quali, specifica Mazzei, non sapevano il polacco). 7. Sulla lingua delle Memorie di Mazzei Se l’anonimo curatore che nel 1944 dette alle stampe una scelta delle Memorie mazzeiane – presumibilmente già nella Roma liberata dagli Americani – elaborò il curioso titolo Libro mastro di due mondi, è forse anche perché il testo di questa autobiografia incompiuta – o meglio, non rivista – è scritto in una lingua aliena da qualsiasi preziosità letteraria e con un tono colloquiale spesso sottolineato, come si è visto, dagli appelli all’anonimo destinatario. Coerente con tale impianto generale è l’aspetto di un testo di cui spicca soprattutto la venatura toscaneggiante, influenzata – però – più dai modi del vernacolo contemporaneo che dalla tradizione illustre, ma aliena da compiacimenti o da oltranze ribobolaie, cosicché i rari, pur se marcati, tratti regionali appaiono più come il riflesso di inveterate abitudini che come il prodotto di deliberate strategie espressive. I caratteri regionalmente marcati della scrittura mazzeiana sono nel complesso radi ma omogeneamente distribuiti: con poche eccezioni, i toscanismi fonomorfologici e microsintattici non si alternano con allotropi meno connotati; reciprocamente, in alcuni casi nei quali egli avrebbe potuto impiegare forme tipiche del fiorentino contemporaneo, le Memorie presentano una soluzione meno connotata. Così è, ad esempio, per l’alternanza di forme con dittongo uo e dei corrispondenti allotropi monottongati: nato e cresciuto in anni nei quali la monottongazione era ancora un fenomeno assente o del tutto marginale nella sua varietà 116, Mazzei presenta regolarmente tipi come cuore, nuovo, scuola. Il dittongo, anzi, si estende spesso anche in atonia: ad esempio nelle voci arizotoniche di suonare, secondo una consuetudine ormai largamente diffusa già nel secondo Settecento, ma insistentemente riprovata ancora dai grammatici ottocenteschi, e a fortiori dai toscanisti. Tipico della prosa di quel secolo è, del resto, il dittongamento nelle forme, anche arizotoniche, del verbo coprire, tipo cuopriva e affini 117. 116 117 Cfr. Ventigenovi 1993, p. 206. Esempi: cuopre II.65, scuoprirmi II.90, cuopriva I.519, II.30, cuoprivano I.114, I.448, 301 Sicuramente toscaneggiante è il regolare uso di e- nelle forme arizotoniche di uscire, tipo escire, escito ecc. (e nei composti: riescire ecc.), totalmente assenti nei prosatori non toscani del Sette e dell’Ottocento 118. Rarissimo negli autori coevi di prosa anche il tipo rappresentato da meglior che andrà interpretato come traccia vernacolare 119. Di probabile matrice locale è anche il costante ricorso all’epentesi di v nelle voci del verbo continovare ‘continuare’ 120: un tipo che, pur essendo sporadicamente attestato in prosatori settecenteschi di altra provenienza, è facile individuare come caratteristico di quelli provenienti dalla Toscana 121; e molto diffusa in autori toscani “argentei” marcatamente connotati la forma ufizio con scempia antietimologica e affricata dentale, che anche Mazzei usa assieme ai derivati ufiziale, ufiziare e simili, accompagnandoli sporadicamente agli allotropi con doppia uffiziale, uffiziali 122. Anche il tipo gastigo, costantemente preferito al corrispondente con c- 123, è relativamente raro negli autori non toscani del primo Settecento, attestato con discontinuità nel “toscaneggiante” italiano di Goldoni, e poi adottato sisteI.519, cuoprivo I.493, cuoprono I.120, e per i derivati: iscuoprir I.470, II.80, scuoprire I.235, II.174. Ben attestato negli autori della LIZ fino a Leopardi, questo dittongo è in rapida estinzione nella prosa del primo Ottocento, come dimostrano gli spogli di Antonelli 2003, p. 91 (cfr. inoltre Serianni 1986, p. 165). 118 Cfr. Patota 1987, p. 45. 119 Esempi: I.24, I.93, I.112, I.121, I.170, I.171, I.262, I.299, I.357, I.387, II.29, II.107, II.133, II.155, II.168, II.220, megliore I.86, I.348, I.397, megliori I.126, I.179, I.232, I.364, I.370 bis, I.458, I.483, I.494, II.107, e per il verbo: megliorar I.341, megliorare I.213, megliorassero II.137, megliorava I.221, I.222. Anche in questo caso ho rilevato talvolta l’infedeltà dell’edizione: ad esempio miglior I.8 diviene meglior nella stampa; inoltre: miglioramento I.214. Mancano occorenze di simili forme nella LIZ[700-800]. La forma megliore è, in effetti, tipica del fiorentino antico (Castellani 1952, pp. 119 s.), ma è successivamente sostituita, nel dialetto di città, dall’allotropo con i, rimandendo tuttavia nelle varietà del Contado fino ai giorni nostri (come mi conferma Paola Manni, che ringrazio per la consulenza). 120 Esempi: continovar I.11, continovamente I.14, I.131, continovò I.14, continovare I.16, I.42, I.127, I.128, continovai I.45, I.93, I.238, continovando I.68, I.170, continovato I.93, I.189, continovar’ I.106, continovato I.189, continovava I.198, etc. 121 Sebbene per il secolo XVIII la LIZ offra esempi da vari autori non toscani (Vico, Goldoni, Parini, Alessandro Verri), è significativa l’alta frequenza di esempi che la stessa banca dati offre per autori come la Macinghi Strozzi, Firenzuola, Alamanni, Gelli, Doni, Vasari. 122 Esempi: ufizial I.414, ufiziale I.405, I.414, ufiziava I.4, ufiziali I.86, I.403, I.522, ufizio I.307, ufizi I.307; in alcuni casi nel ms. si ha la forma con la doppia ff che, come accade in I.86, I.409 diventa ufiz- nella stampa (nella stessa pagina si ha peraltro anche una forma con doppia). Gli esempi più antichi riportati dalla LIZ per ufizio provengono da Sacchetti, Burchiello, Bernardino da Siena, dal Piovano Arlotto, da Lorenzo il Magnifico e dalla Mandragola di Machiavelli. 123 Esempi: gastigo I.270, I.308, gastigar II.57. 302 maticamente da Manzoni nella «quarantana» dei Promessi sposi in luogo di castigo e derivati: un tipo evidentemente percepito come «toscano vivo» ai primi dell’Ottocento, pur se non destinato a prevalere nell’italiano postunitario 124. Marca toscaneggiante hanno anche le forma bigongio e bigongie in luogo dei più comuni allotropi con -ci 125; e ancora a un influsso della varietà regionale, più che ad una tendenza arcaizzante, andrà probabilmente attribuita la frequenza di forme con i prostetica davanti a s implicata («l’istesso» I.103, e simili). Abitudini scrittorie settecentesche si manifestano, quanto alla morfologia, nel ricorso a una forma verbale come eramo ‘eravamo’, di cui si è già notata la buona diffusione nella prosa di quel secolo in autori di varia provenienza (sebbene la tradizione grammaticale la considerasse propria del lingugaggio parlato e familiare) 126; mentre ancora una volta decisamente toscaneggianti e vernacolari appaiono i perfetti veddi, vedde e veddero da vedere 127, messi, messe e messero da mettere 128 e, con diverso procedimento di formazione, stiedi da stare (mentre non è attestato l’andiedi ipertoscaneggiante impiegato, come si ricorderà, da Goldoni) 129: forme di cui colpisce soprattutto la frequenza e la regolarità (mancano del tutto le concorrenti vide, vide e mise, ed è oltremodo rara stetti 130). Un discorso poco diverso vale per il congiuntivo dasse (II.54, II.72) e affini: si tratta evidentemente di un tipo non esclusivamente toscano, ma anch’esso configurabile come un tratto vernacolo 131. 124 Cfr. Vitale 1992, pp. 34-35. Il tipo bigongia compare già nei testi toscani più antichi, soprattutto in area lucchese e pratese: cfr. Castellani 1980, I, p. 323, e Serianni 1977, p. 30. 126 Esempi: I.11, I.36, I.50, I.64, I.86 etc. passim; del tutto assente, se ho visto bene, la forma eravam(o). Per la quinta persona si ha eravate I.186. 127 Esempi: veddi I.11, I.12, I.26, I.28, I.29, I.53, I.59, I.65, I.67, I.70, ecc., a cui si aggiungano avveddi I.89, riveddi I.153, I.159, I.339 ecc., preveddi I.346, II.264, provveddi II.131; vedde I.5, I.22, I.36 bis, I.37, I.39, I.53, I.158 bis, I.163, ecc., a cui si aggiungano rivedde I.128; veddero I.105, I.144, I.151, II.139, II.143. 128 Esempi: messi I.12, I.148, I.209, I.275, I.322 bis, I.352, I.408, I.423, I.424, I.448, I.508, I.512, II.93, II.94, II.130, II.164, II.185, a cui si aggiungano: promessi I.28, I.202, I.356, I.369, I.530, I.531, I.539, II.273, commessi I.224, rimessi I.433. Si tratta di forme variamente interpretate dalla tradizione grammaticale. Cfr. ad esempio Bartoli 1655, p. 153: «Trovasi alcuna volta messi, in vece di misi, dal verbo mettere, sia scorrettione de’ testi, come altri vuole, sia licenza degli autori, sia privilegio di questo verbo, non è da usarsi»; ma, venendo a tempi più vicini al nostro autore, secondo Mastrofini 1814, p. 362: «il participio messo, messa, ecc., ci ravvicina al preterito messi, messe, ecc., il quale meglio discende dall’infinito mettere che non misi e mise». 129 Si ha per stiedi: I.117, I.192, I.323, I.324, I.372, I.483, II.167, II.175. 130 Se ho ben visto, si ha stetti quattro volte: I.19, I.238, II.155, II.171. 131 Rare le attestazioni in prosa nella LIZ[700]: a parte le numerose occorrenze nei testi 125 303 Una verifica sul manoscritto – indispensabile per un tratto così minuto – consente di verificare, quanto alla morfologia, la regolarità nell’uso di -o per il morfema di prima persona dell’imperfetto indicativo (dunque: andavo non andava, facevo non faceva, sentivo non sentiva): un tratto che, come è noto, impostosi soprattutto grazie a Manzoni, veniva caldeggiato da teorici “progressisti” come il Cesarotti, di contro alla tradizione grammaticale settecentesca 132. Sul confine fra morfologia e sintassi, la toscanità di Mazzei si manifesta nel frequente ricorso alla costruzione con il si per la prima persona plurale, cioè il tipo (noi) si fece per ‘noi facemmo’ 133. Toscanamente connotato anche il lessico, specialmente nell’ambito del linguaggio familiare e popolare (oltre agli esempi già indicati sopra, è il caso di panicocolo ‘artigiano addetto alla cottura del pane per conto di terzi’ – in cui si noti la mancata dittongazione - 134, della locuzione «buona pastricciana» I.183 ‘ragazzona semplice e onesta’, o ancora del nome del gioco infantile pillotta I.14), ma anche per termini di uso più comune, come sortire, impiegato di norma dal Mazzei nel senso di ‘uscire’ 135, naturalmente favorito dal modello del francese. Ben più rare sono le tracce dell’influenza delle lingue straniere che dialettali di Goldoni, se ne dà una nello Zeim di Carlo Gozzi, una nel Baretti (ma in citazione), due nel «Caffè». 132 Cfr. per il Cesarotti Puppo 1966, p. 367, e per la grammatica settecentesca Patota 1987, p. 102 («con varie gradazioni di tono ..., la desinenza in -o è sconsigliata dal Cinonio, dal Bartoli, dall’Amenta, dal Gigli, dal Manni, dal Corticelli e, ad Ottocento inoltrato, ancora dal Puoti»). 133 Ecco alcuni esempi nei quali il fenomeno è isolabile con sicurezza, o si manifesta ripetitivamente: «S’intese che la dichiarazion di guerra non era per anche seguita. Non avendo bisogno di nulla, non si scese a terra, e il vento essendoci divenuto favorevole, ci rimettemmo alla vela, e andammo felicemente fino al mar di Biscaglia, dove si corse un gran pericolo a motivo d’una subitanea calma preceduta da un vento furioso» (I.161); «Non si viaggiava come nella Turchia europea. Ci fermavamo a pranzo da qualche ricco possidente (...). Alle volte si viaggiava la sola metà del giorno, a motivo di qualche malato in casa dell’ospite, o nel vicinato, il che si fece più volte al ritorno». (I.151-52); «Esciti dal maresciallo si tornò dal presidente, poi si andò dal cav. Mann per consultare sul quid agendum nei prossimi 4 giorni» (I.242); «Vi pranzai l’istesso giorno che vi arrivai, e si parlò sempre dell’Inghilterra» (II.294); «Si restò a S. Remo 3 giorni, si partì il quarto dopo colazione, e si arrivò a Genova prima della sera» (I.330); «Avevo conosciuto questo degno mio amico in Londra, e in 14 mesi ch’ei vi si trattenne, si fece quasi vita insieme» (II.196). 134 Il GDLI s.v. panicuocolo riporta un esempio dal Vocabolario domestico del Carena. 135 Ad esempio: «mi faceva sortir seco il dopo pranzo» (I.14), «sortita dal carcere» (I.30), «avendo dovuto sortire» (I.38), «terminai col pregarlo di sortir meco» (I.44), «nella città nessuna persona civile sortiva senza la spada» (I.44), «appena sortito dalla stanza» (I.275) etc. 304 Mazzei praticò durante tutta la vita, l’inglese e il francese: ricche di brani, citazioni ed inserti riportati direttamente in quelle lingue, le Memorie mazzeiane non presentano un italiano particolarmente gallicisé, né significativamente anglicizzante. A prescindere dai francesismi meno esposti (come particolarizzati I.193, forestierismo già secentesco, ma particolarmente frequente nell’italiano settecentesco, o risorsa, all’epoca ancora ben percepito come francesismo 136), tra i materiali interessanti in questo campo vi è il participio recrutanti I.400 (due volte) che, data la forma, potrebbe rispecchiare sia la corrispondente voce francese, sia quella inglese 137; considerazioni simili valgono per il termine comitato, riferito alla politica delle colonie americane, e che in italiano è un francesismo (come tale bollato anche dai puristi dell’epoca), ma di origine inglese 138. Un sicuro francesismo è invece turbiglione 359, impiegato – non a caso – nella descrizione dei primi moti rivoluzionari a Versailles 139. E a proposito di rivoluzione, nel termine democratismo, usato con riferimento ai discorsi di Mme Hennin circa la regina Maria Antonietta, risuona forse un’eco di voci coniate appunto nel francese di quegli anni (ma mancano precisi riscontri lessicografici nella lingua d’Oltralpe), o forse di un’estemporanea invenzione mazzeiana. Si aggiunga che lo stesso termine era stato impiegato già a fine Settecento da Ignazio Lorenzo Thjulen nel suo celebre pamphlet antirivoluzionario, nel quale questa parola era stata «coniata forse ... sfruttando la virtualità peggiorativa del suffisso» 140. Si tratta comunque di un lemma destinato a vitalità ulteriore (e indipendente da questi suoi primi usi) nell’italiano del pieno Ottocento e del secolo successivo 141. Quanto agli anglicismi, andrà registrata la plurima occorrenza del termine commodore (con forma non adattata: l’italiano commodoro è attestato già dalla metà del Settecento) 142, 136 Esempi: I.433, II.91, II.214, II.222, II.253. Cfr. Dardi 1992, p. 106. Si tratta di un vocabolo di origine spagnola (cfr. DELI s.v.), che all’italiano arriva tràmite il francese e come francesismo è generalmente riguardato dal purismo sette-ottocentesco (si vedano i commenti riportati ibid.). L’inglese to recruit è anch’esso mediato dal francese (OED s.v.), ma è attestato già dal sec. XVII. Il dizionario di Baretti 1771 chiosa to recruit con «reclutare» 138 Cfr. DELI s.v. comitato: «la vc. si è diffusa in Italia soprattutto durante la Rivoluzione francese: il Tommaseo-Bellini lo considerava “inutile francesismo”». 139 Ininfluente l’isolata occorrenza registrata dal GDLI nel missionario settecentesco Cassiano da Macerata: nel Mazzei è evidentemente un prelievo diretto dal francese. 140 Così Leso 1991, p. 55. 141 La prima occ. riportata dal GDLI proviene da Carducci. Ne seguono da vari autori otto-novecenteschi. 142 Esempi: I.410, I.411, I.413 bis. Cfr. DELI s.v. 137 305 e un calco lessicale che l’autore stesso segnala come tale: «disse: Abbiam fortificato le loro mani, che secondo l’indole della lingua inglese significa l’aver messo nelle loro mani un buon capitale» II.236 143; meri anglicismi semantici sono poi contea, spesso usato sia in riferimento all’Inghilterra, sia per gli Stati Uniti (cioè nel senso di ‘circoscrizione elettorale’, come l’inglese county), o camera II.271 («dei comuni» 144), o la terminologia adottata dai coloni americani agli esordi della loro organizzazione politica, che in un caso è oggetto di una specifica illustrazione; o ancora i nessi poter esecutivo nel senso di ‘governo’ («uno scritto da mandarsi al p.e. di Virginia» I.493) e partito dell’opposizione II.226 145. Per convenzione (convention era riportato anche da Baretti nel suo dizionario 146) valgono considerazioni simili a quelle accennate sopra per comitato 147: Ciò diede luogo alla formazione di compagnie di volontari in tutte le contee, che si diedero il nome di Compagnie independenti, e poi alla convocazione di rappresentanti del popolo col titolo di convenzione, in vece d’assemblea, poiché non desideravano di separarsi dalla Gran-brettagna. (I.359) Pressoché assente, come è facile attendersi da un toscano, anche qualsiasi caratterizzazione dialettale di personaggi non toscani, con un’unica eccezione: al marchese Domenico Caracciolo, rappresentante del Regno di Napoli a Londra 148, accanito giocatore di biliardo, Mazzei mette in bocca, in diversi punti dell’opera, alcune battute con coloriture forse più spagnoleggianti che propriamente napoletaneggianti («avemo perso» e «Senti, amico, te dico ena cosa, che se stavi qui, non te l’avrei mai detta; ma ora che vai fuor del paese, bisogna che te la dica. Se vuoi esser securo de vincere, fai due de quelle bilie de traverso che tu solo puoi fare! Malora! Lo fai cascar muerto» I.304, e ancora: «Malora, che aggio fatto!», II.23). Ben poca cosa: Si tratta probabilmente dell’espressione to make (a) hand, cfr. OED s.v. hand. Solo tardosettecentesca (1796) la più antica attestazione italiana di questo calco riportata nel DELI. 145 Per la diffusione di simili termini e nessi in italiano cfr. Cartago 1994, p. 735. 146 Cfr. Baretti 1771 s.v. convention: «Convention [assembly], assemblea». 147 Cfr. ancora DELI s.v. convenìre, che a proposito di convenzione scrive: «nel significato di ‘assemblea politica e legislativa’ è l’inglese convention (1552), passato anche in francese (1688): la Convenzione più famosa fu quella del periodo rivoluzionario 1792-95», onde è probabile che in altri autori italiani il termine sia giunto appunto per tramite francese: ma lo stesso non vale per il Mazzei. 148 Sui rapporti fra Caracciolo e Mazzei, cfr. Croce 1927, pp. 329-31. 143 144 306 scarsamente incline a marcare persino i propri stessi tratti regionali (nessun compiacimento e nessuna oltranza sembrano riflessi nella pur compatta grana toscaneggiante della sua prosa), Mazzei limita al minimo indispensabile un’escursione stilistica che le sue plurime esperienze di viaggiatore e d’acuto osservatore gli avrebbero forse permesso di accentuare. 307 BIBLIOGRAFIA I. Opere citate in forma abbreviata Crusca I = Vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia, Alberti, 1612. (consultabile anche in rete all’indirizzo: http://vocabolario.biblio.cribecu.sns.it/) Crusca IV = Vocabolario dell’Accademia della Crusca, Firenze, Domenico Maria Manni, 1729-1738. DBI = Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1960DELI = Manlio Cortelazzo, Paolo Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, nuova edizione a c. di Michele A. Cortelazzo, Bologna, Zanichelli, 1999. 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Aldrovandi, Pompeo 49, 50n. Alfenito, Adriana 108, 109. Alfieri, Vittorio 9, 12, 14, 39n, 40n, 48, 54n, 60, 92n, 93n, 145n, 151, 152n, 164n, 177, 182n, 213-247, 258n, 264n, 295. Alighieri, Dante v. Dante Alighieri. Almarza, Domingo de 84. Altieri Biagi, Maria Luisa 155n. Altimani, Giovanna 109n. Alzeco 82. Amelot de la Houssaie, Nicolas-Abraham 211. Anacreonte 50n, 51n. Andreoli, Aldo 21n. Andreoli, Raffaele 45n. Angioli, Gherardo degli 41n. Angiolieri, Cecco 151n. Angiolini, Luigi 245n. Antonelli, Giuseppe 37n, 92n, 109n, 134n-136n, 138n-141n, 143n, 145n148n, 258n, 276, 302n. Aquarone, Alberto 292, 292n, 294, 300n. Arduini, Franca 214n. Aretino, Pietro 58n, 140n, 150n, 151n. Argento, Gaetano 76. Ariosto, Ludovico 47, 50n, 51n, 112, 210, 230, 232, 233, 256, 262n, 264n, 285, 297. Aristotele 41n, 63n, 69, 283. Arnaud, Carlo Marco 252. Arriano 57. Aulisio, Domenico 74. Azzi, Carlo 152. Bacchini, Benedetto 20. Badini, Carlo Francesco 257, 257n. Baffo, abate 210. Baffo, Giorgio 253. Baldinucci, Filippo 153. Bandello, Matteo 58n, 99n, 137n. Bandiera, Alessandro 56n. Bandurio, Anselmo 77. Barbèra, Gasparo 236n. Baretti, Giuseppe 26, 26n, 51, 51n, 53n, 67n, 106, 106n, 128n, 135n, 150n, 145n, 151n, 152n, 155, 160, 161, 161n, 163, 164n, 175, 175n, 182n, 185n, 194n, 221, 221n, 243n, 247, 252, 252n, 281n, 284n, 304n, 305n, 306, 306n. Bartoli, Daniello 151n, 180n, 303n, 304n. Bartolini, Tommaso 69. Battistini, Andrea 26n, 28, 28n, 29n, 31, 35n, 36, 36n, 41n, 45n, 46, 46n. Beccaria, Cesare 54n, 145n, 263n, 276n. Beccaria, Gian Luigi 232, 281n. Becelli, Giulio Cesare 92n, 128, 128n, 139. Bellincioni, Bernardo 58. Bembo, Pietro 58n, 82n, 112n, 114n, 146, 147, 151n. 329 Bentivoglio, Guido 263. Berchet, Giovanni 26n. Bergantini, Giovanpietro 242n. Bernardoni, Pietro Antonio 57. Berni, Francesco 150n, 172, 182n. Bertati, Giovanni 290. Bertelli, Sergio 71n, 74n, 75n, 76n, 83n, 86. Bertoloni Meli, Domenico 63n. Bettinelli, Saverio 39n, 67n, 126, 137, 145n, 162n, 182n, 183n, 252, 262. Bettinelli, Tommaso 108, 191. Bisaccioni, Maiolino 112n. Boccaccio, Giovanni 30, 67n, 82n, 90n, 99, 100n, 112n, 116, 145n, 172, 243, 243n, 263. Boccalini, Traiano 53n, 100n. Boerio, Giuseppe 108n, 140n, 141n, 142n, 144n, 145, 145n, 152n, 176n, 184n, 185n, 199n, 282n. Bombieri, Cristina 118n. Boni, Giacomo 287n. Bonora, Ettore 262n. Bontempelli, Massimo 154n. Borghini, Raffaello 151n. Borsa, Matteo 252n. Borsieri, Pietro 278n. Bortoli, Antonio 19. Bosisio, Paolo 118, 118n, 125n, 159n. Botta, Carlo 152n, 258n, 276n, 283n. Bouhours, Dominique 48, 161, 205. Bourguet, Louis 20, 21n. Brambilla Ageno, Franca 282n. Branca, Vittore 231, 231n. Brignole Sale, Antonio 179n. Brizzi, Gian Paolo 25n, 55n. Broglio, Emilio 280n. Brucker, Johann Jakob 58. Brunati, Gaetano 282. Bruni, Francesco 18, 129n. Buffon, George-Luis Leclerc de 26n. Bulferetti, Domenico 118n. 330 Bulgarelli, Gian Prospero 28. Buommattei, Benedetto 90n, 92n, 147n. Buonarroti, Michelangelo il Giovane 107n, 151n, 237n. Buragna, Carlo 31n. Burchiello (Domenico di Giovanni) 140n, 150, 302n. Busini, Benedetto 150n. Buti, Francesco da 101n, 151n. Byron, George 265, 282, 288, 288n, 290. Callotta (Callot), Jacques 237n. Calogerà, Angelo 16, 17, 19-23, 26, 27, 36, 47, 49, 61, 62n, 79-81, 122, 158. Calprenède, Gauthier de Costes de la 112. Caluso, Tommaso Valperga di 215, 236n, 241, 242, 250. Caminer Turra, Elisabetta 26n. Campanella, Tommaso 46n. Cantelli, Antonio 107. Capaci, Bruno 120n. Capasso, Niccolò 74. Capponi, Gino 292, 293, 293n, 294, 296n. Caracciolo, Domenico 306, 306n. Cardano, Girolamo 63. Carena, Giacinto 304. Carducci, Giosue 281, 305n. Carli, Gianrinaldo 92n. Carmignani, Giovanni 292. Carrol, Lewis 155. Cartago, Gabriella 18, 191, 191n, 276n, 306n. Cartesio (René Descartes) 34n, 84. Casa, Giovanni della 31, 51, 112, 112n. Casanova, Giacomo 9, 15, 183, 190, 200-212, 235, 236, 261, 264, 265n, 271, 272. Casati, Marc’Antonio 263. Cassiano da Macerata 305n. Castellani, Arrigo 135n, 267n, 302n, 303n (v. anche: Ventigenovi, Aldo). Casti, Giovanni Battista 54n, 88n, 183n, 203n, 261, 261n, 264n, 282. Castiglione, Baldassarre164n. Catanti, Giacinto 235. Cavalcanti, Andrea 151n. Cecchi, Giovanni Maria 99n, 151n, 152n. Cella, Roberta 182n. Cellini, Benvenuto 17, 106n, 160, 163, 286. Cesare 113, 225. Cesari, Antonio 144, 172, 172n, 258n, 274, 276n, 279. Cesarotti, Melchiorre 12, 25, 25n, 40n, 115, 126, 127, 129, 153, 174, 175, 182, 206, 264n, 266, 279-281n, 304, 304n. Chiari, Pietro 40n, 122, 126, 130, 135, 136, 136n, 138-142n, 146, 146n, 147, 152, 160, 171, 192, 199, 200. Cian, Vittorio 75n, 86n. Cicatelli, Emmanuel 143. Cicerone 29, 30, 51, 64, 67n, 112n. Cicognini, Andrea 158, 158n. Cicoira, Fabrizio 252n. Cignani, Carlo 47, 50. Cimini, Angiola 34. Cinonio (Marcantonio Mambelli) 93n, 304n. Citolini, Alessandro 98n. Cittadini, Celso 236. Claudio imperatore 33n. Clemente XI 50n. Clerico, Giovanni (Jean Leclerc) 28, 41n, 42. Colombani-Giaufret, Héléne 190, 190n, 197n. Colombo, Cristoforo 260. Colombo, Michele 266, 269n. Concina, Daniele 200. Condillac, E. Bonnot de 15. Conegliano, Emanuele 284. Connio, Nicoletta 195. Conti, Antonio 20n, 21n, 22, 34. Contini, Gianfranco 230n-232n, 237, 237n. Continisio, Chiara 78n. Corazzini, Sergio 280n. Corneille, Pierre 171. Cornelio Nepote 113, 225, 225n, 226. Cornelio, Tommaso 31. Cornet, Gabriele 186, 186n, 187n, 189n. Corsini, Filippo 183n. Corsini, Lorenzo 33. Cortelazzo, Michele A. 25n, 27. Corticelli, Salvatore 90n, 92n, 145-148n, 179, 180n, 290, 304n. Costa, Gustavo 76, 102n. Coste, Pierre 104. Cousin, Victor 195, 199. Craig, Cynthia C. 205n. Crescimbeni, Giovanni M. 48. Croce, Benedetto 20n, 36, 79n, 306n. Crommelin Verplanck, Gulian 274n. Curzio Rufo 112. Cutolo, Alessandro 103n, 108. D’Ambra, Raffaele 87n, 98n, 107n, 110n. D’Ancona, Alessandro 300n. D’Annunzio, Gabriele 98n, 154n, 277n. Dante Alighieri 30n, 31, 41n, 82, 82n, 84, 101n, 112, 116, 125, 145n, 151, 151n, 172, 172n, 232, 237, 256, 262n, 264n, 282, 285, 288, 298, 299. Da Ponte, Lorenzo 9, 10, 12, 13, 84, 151n, 179n, 235, 236, 245, 255-291, 298, 299. Dardano, Maurizio 110n. Dardi, Andrea 18, 130n, 153n, 164n, 165n, 182n, 183n, 184n, 207n, 219n, 233n, 236n, 244n-246n, 266n, 282n, 305n. Da Rif, Bianca M. 199n. David, Jacques-Luis 295. D’Azeglio, Massimo 277n, 279n. 331 De Angelis, Filippo 81, 82n. De Blasi, Nicola 38n. Della Chà 257n, 261, 261n, 270n, 288n. Delminio, Giulio Camillo 82n. Del Negro, Piero 25n, 26n, 56n. De Luca, Giovan Battista 97n. De Martino, Giulio 74n, 85n, 102n. De Michelis, Cesare 20n, 27n. Demostene 112n. Denina, Carlo 9, 15, 237, 246-253. Deodati, Giovanni L. 288. Di Benedetto, Arnaldo 215, 215n, 238, 238n, 243, 243n, 244, 244n. Di Capua, Leonardo 30n, 31, 35, 37, 38, 39, 40, 40n, 92n, 93n, 139. Di Manzano, Francesco 20n. D’Intino, Franco 16. Dionisotti, Carlo 240, 240n, 247, 247n, 248, 251n. D’Israeli, Isaac 16. Doni, Anton Francesco 58n, 99n. Dossi, Carlo 92n, 258n. Doti, Antonio 113. Dotti, Bartolomeo 179n. Dragone, Angela 104. Du Cange, Charles du Fresne 155n, 249. Dupont de Nemours, Pierre-Samuel 291. Einaudi, Luigi 103n. Epicuro 34n. Epitteto 57. Euclide 285n. Ezzelino da Romano 20n. Fabre, François-Xavier 214. Fabro, Angelo 99. Fabroni/Fabbroni, Giovanni 286, 292. Fagiuoli, Giovan Battista 87n, 173. Falco, Giorgio 22n, 23n. Falletti di Barolo, Ottavio 243. Fanfani, Massimo L. 286n. Fantoni, Giovanni v. Labindo. 332 Farinola, Gentile 292n. Farnese, Elisabetta 41. Farsetti, Daniele 125n. Fassò, Luigi 213, 213n, 215, 215n, 224n, 225n. Federico II di Prussia 248. Federico di Saxe-Gotha 85. Ferrero, Guido Giuseppe 223, 223n, 226. Fido, Franco 166, 166n, 177, 177n, 188, 189n, 191, 191n, 270, 270n. Filangieri, Gaetano 263n. Finoli, Anna Maria 221n, 244n. Firenzuola, Agnolo 99n, 151n, 302n. Firmian, Karl Joseph 109. Folena, Gianfranco 11, 41n, 48, 52, 61, 81, 84n, 105, 105n, 107, 107n, 112n, 114n, 146n, 150, 165n, 166n, 171, 173, 174, 174n, 177, 177n, 183, 183n, 184n, 187, 189, 190, 191, 191n, 192, 192n, 195n, 196, 196n. Fontaine, Jean de la 190. Formentin, Vittorio 18. Formey, Jean-Henry 247. Forti, Fiorenzo 22n, 23n. Foscarini, Marco 196, 196n. Foscolo, Ugo 54n, 141n, 148, 183n, 246n, 274-280. Frachetta, Girolamo 99n. Franceschini, Fabrizio 220n, 243, 244n. Francesco di Paola 78. Franci, Sebastiano 88n. Franklin, Benjamin 252. Fregoso, Federico 83. Frugoni, Carlo Innocenzo 264n. Fubini, Mario 20, 20n, 36, 41, 41n, 43n, 44n, 45n, 46, 46n, 47, 104n, 214, 214n, 223, 223n, 229n. Fubini Leuzzi, Maria 104n. Furlan, Francis 207, 207n. Galeani Napione, Giovan Francesco 172, 172n, 231, 241, 242, 250, 251, 251n. Galiani (Galliano), Celestino 103n, 107n, 111, 113n. Galiani, Ferdinando 114n. Galilei, Galileo 65, 75n, 182n, 285n, 299. Galliano, Celestino v. Galiani Garavaglia, Valentina 118, 118n. Garducci, Giovan Battista 252n. Gaspardo, Pietro Giuseppe 22n, 23n. Gassendi, Pierre 21n. Gelli, Giovan Battista 58n, 140n, 302n. Generali, Dario 63n, 64n, 67n, 68n. Genovese, Domenico 109. Genovese, Giustina 109. Genovese, Salvatore 108. Genovesi (Genovese), Antonio 9, 12, 25, 26, 26n, 35, 65, 87n, 94n, 99n, 103-116, 234, 246, 284. Gherardi, Pietro Ercole 98n. Giambullari, Francesco 32, 32n, 151n. Giannantonio, Pompeo 76n, 96n. Giannone, Carlo 80n. Giannone, Pietro 9, 12, 45, 46n, 53n, 71-104, 107, 116, 152, 164n, 235, 236, 281n. Giason de Nores 159. Gibbon, Edward 239n. Gigli, Girolamo 211, 236, 236n. Gioia, Melchiorre 263n. Giordani, Pietro 86. Giorgini, Giovan Battista 280n. Giovanni Grisostomo, Santo 159. Giuntini, Vincenzo 17. Giusti, Giuseppe 280n. Godefroy, Denis 18. Goldoni, Carlo 9-15, 18, 54n, 93n, 122-124, 126, 127, 130, 133, 145n, 146n, 151n, 152, 155, 157-200, 203, 204, 207, 208, 211, 235, 236, 247, 247n, 270-272, 279, 302, 302n, 303, 304n. Gozzadini, Ulisse Giuseppe 50n. Gozzano, Guido 278n, 280n. Gozzi, Almorò 117. Gozzi, Antonio Maria 209. Gozzi, Carlo 9, 11, 14, 18, 77, 117-155, 161, 162, 170, 175, 176, 181, 184n, 193, 193n, 200, 203n, 264n, 278, 304. Gozzi, Francesco (nipote di Carlo) 122, 123n. Gozzi, Francesco (fratello di Carlo) 131. Gozzi, Gasparo 27, 27n, 40n, 55n, 117, 126, 131, 135n, 138, 138n, 142n, 145, 145n, 149, 150n. Grafigny, Françoise d’Issembourg d’Happoncourt de 288. Grandi, Guido 18. Gratarol, Pietro Antonio 119, 119n, 120, 120n, 121, 124, 125, 146, 147, 153, 154. Gravina, Giovan Francesco 37n, 281n. Grazzini, Anton Francesco 151n. Grimaldi, Costantino 103n. Guarini, Battista 284n, 285n. Guglielminetti, Marziano 13. Guicciardini, Francesco 83, 182n, 267n. Hennin, Mme 305. Herczeg, Giulio 216, 216n, 217n, 218, 218n. Huet, Pierre-Daniel 17. Hume, Joseph 239. Imbriani, Vittorio 277n, 278n, 279n. Infelise, Mario 21n. Intieri, Bartolomeo 104, 104n, 113. Ippocrate 41n, 66. Ivaldi, Guglielmo 228n. Jannaco, Carmine 243, 244n. Jefferson, Thomas 252, 291, 297, 299. Jenni, Adolfo 223, 223n, 226, 228, 229n. Labindo (Giovanni Fantoni) 264n. Lacassin, Francis 209n, 210. 333 Lami, Giovanni 18, 58, 173. Lando, Ortensio 137n. Lantieri, Francesco 165n. Lanzoni, Giuseppe 62. Larson, Pär 215n, 229, 230n. Latini, Brunetto 143n. Latrobio 150n. Leclerc, Jean v. Clerico, Giovanni. Leibniz, Gottfried W. 20, 20n, 21n. Leichsenhoffen, Teresa di 95n. Lejeune, Philippe 13. Lemene, Francesco 57. Leopardi, Giacomo 54n, 184n, 258n, 274, 276, 276n, 277n, 278n, 279n, 281n, 302n. Leopoldo I imperatore 84. Leporatti, Roberto 215n. Leso, Erasmo 25n, 305n. Le Texier, Vincent 290. Leti, Gregorio 99n. Libanio 57. Librandi, Rita 90n, 94n, 110n. Liguori, Alfonso M. 38, 38n, 90n, 94n, 110n. Livio 77, 96, 206, 239n. Llacuna, Giovanni 85. Locke, John 15, 56n, 104, 115, 299. Lodoli, Carlo 16, 17, 21, 21n, 22, 22n, 28n, 62. Loria, Arturo 155n. Lubrano, Giacomo 46n. Lucchesi, Domenico 53. Lucrezio 34n, 159, 219. Lugato, Elisabetta 118n. Luigi XIV di Francia 289n. Lullo (Lulli), Raimondo 205n. Lura, Nicolò da 105. Lurati, Ottavio 283n. Machiavelli, Niccolò 83, 83n, 237, 263n, 302n. Macinghi Strozzi, Alessandra 91n, 221n, 302n. 334 Maffei, Scipione 184n, 278. Magalotti, Lorenzo 69, 83, 184n. Maggi, Carlo M. 48. Malatesti, Antonio 184n. Malerba, Luigi 185n. Malpighi, Marcello 63, 63n, 69. Manfredi, Eustachio 22n. Mann, Orazio 296. Manni, Domenico Maria 179, 179n, 304n. Manni, Paola 302n. Manzoni, Alessandro 58n, 164n, 173, 179n, 194, 230, 258n, 264n, 274, 275, 276n, 277, 278, 278n, 281, 284, 303, 304. Marazzini, Claudio 25n, 32n, 220n, 246n, 250n, 252n. Marcello, Loredana 117. Marchesan, Antonio 287n. Marchi, Gian Paolo 28n, 86n, 118n. Marcon, Susy 118n. Marini, Gian Ambrogio 112. Marino, Giovanni Battista 53n, 56, 137n. Marri, Fabio 185n. Martello, Pier Jacopo 9, 14, 20, 23, 25, 27, 28, 47-53, 56, 63. Martini, Vincenzo 271n. Martorelli, Orazio Jacopo 113n, 114n. Mastrofini, Marco 303n. Masucci, Antonio 111, 111n. Masuccio Salernitano 110n. Matarrese, Tina 25n, 244n, 271, 271n, 282n. Mathias, Thomas 266, 286. Mauro, Carlo 106. Mauro, Francesco 106. Mauro, Marino 106. Mazza, Angelo 264n. Mazzei, Filippo 9, 10, 12, 15, 291-304. Mazzotta, Clemente 214n, 215n, 238, 238n. Mazzucchelli, Giovanni Maria 27, 27n. Mc Vickar, John 256. Medici, Lorenzo dei 151n. Mela, Francesco 74, 74n, 75. Meli, Giovanni 46n. Meneghello, Luigi 198n. Mengs, Antonio R. 208n. Mercadante, Giuseppe S. R. 287. Metastasio (Trapassi), Pietro 84, 84n, 256, 264, 284, 288. Miele, Antonio 74n. Migliorini, Bruno 41n, 92n, 128n, 148n, 153, 153n, 155n, 258n. Milizia, Francesco 283n. Milton, John 298, 299. Minato, Nicolò 84n. Misch, Georg 13. Molmenti, Pompeo 117. Montani, Giuseppe 264. Montariello, Alessandra 106. Montealegre, Joseph Joaquim 111. Monti, Vincenzo 116, 264n, 274, 281n. Monti Giammarinaro, Antonina 292n, 296n. Montorzi, Mario 292n. Montresor, Claude de 17. Montrésor, Giacomo 287. Moore, Clement 263. Moore, Nathaniel 256. Morelli, Giovanni di Pagolo 221n. Moreto, Agostino 130n. Moretti, Marino 280n. Morgana, Silvia 64, 64n, 242n. Morichelli, Anna 271. Mozart, Wolfgang Amadeus 258n, 260, 261, 262n, 270, 271. Muratori, Ludovico Antonio 9, 20-25, 32, 46, 48, 52-62, 64, 65, 98n, 106, 108, 116, 128n, 160, 161, 172, 181, 210, 286. Muzio, Girolamo 82. Naigeon, Jacques-André 210. Nardini, Leonardo 286. Naso, Niccolò 74. Nazari, Giulio 108. Nencioni, Giovanni 36, 36n. Neri, Pompeo 136n. Newton, Isaac 285n, 299. Nicoletti, Giuseppe 20n. Nicolini, Fausto 36, 72n, 74n, 86, 86n, 263, 263n, 264n, 268, 273. Nievo, Ippolito 18, 92n. Nisieli (Benedetto Fioretti) 172. Noce, Hannibal S. 50n. Nomi, Federigo 184n. Nomis di Cossilla, Luigi 86. Oddi, Nicolò 99n. Omero 83, 203, 242. Orazio 30, 52, 113, 159, 210, 225. Orsi, Giovanni Giuseppe 48, 50n, 51n, 64. Ortolani, Giuseppe 165, 185. Pacifico, Emilio 112. Palermo, Massimo 94n. Palese, Carlo 117, 123. Palissot de Montenoy, Charles 190, 190n. Pallavicino, Pietro 82n. Pallavicino, Ferrante 183n. Palmieri, Matteo 151n. Pananti, Filippo 264, 265, 279, 286. Paradisi, Agostino 189n. Parini, Giuseppe 40n, 110, 128, 129n, 145n, 183n, 264n, 302n. Paruta, Paolo 77, 183n. Pascoli, Giovanni 278n, 280n. Pasquali, Giovan Battista 165, 166. Pasqualino, Michele 88n. Passavanti, Iacopo 174. Patota, Giuseppe 38n, 39n, 40n, 87n, 89n, 92n, 109n, 135n-139n, 141n, 142n, 147n, 148n, 215n, 275-278n, 302n, 304n. 335 Pazzi, Alfonso 152n. Pegolotti, Alessandro 63, 64n, 67. Pellico, Silvio 72. Pellizzari, Patrizia 225n. Pendleton, Edmund 256. Pennisi, Antonino 35n, 114n, 116n. Perrault, Charles 18. Perrilli, Saverio 111. Perticari, Giulio 116. Petrarca, Francesco 30n, 31, 47, 56, 57, 82, 90n, 112, 153, 210, 217, 232, 256, 262, 285, 285n, 286, 288n. Piattoli, Scipione 300, 300n. Piazza, Antonio 62n, 134n, 136n, 138-141, 145n-147. Pierantoni, Augusto 79n, 86. Pii, Eluggero 113n, 115n. Pilato 281. Pindemonte, Ippolito 54n, 258n, 264n, 281n. Piperno, Pietro 154. Pipino, Maurizio 249. Pizzamiglio, Gilberto 18, 22, 22n, 23n, 118, 118n, 121, 122, 122n, 124n. Plauto 219. Platone 41, 42, 44, 106. Plekner, Ernest 84. Plutarco 17, 112, 235. Poerio, Giuseppe 281n. Poggi Salani, Teresa 179n. Poinsinet, Antoine-Alexandre-Henri 197. Polibio 239n. Poliziano, Angelo 151n. Pompeati, Pompeo 122n. Pomponazzi, Pietro 65. Pona, Francesco 164n. Porcia, Artico 20. Porcia, Giovanartico di 14, 16, 17, 19-29, 33, 35, 46-49, 52-55, 58, 59, 62, 63, 66, 80, 81, 122, 157. Porcia, Leandro di 21n. 336 Potolicchio, Alfonso 109n. Porcu, Antonio 232n, 240n. Prescott, William 288. Prezzolini, Giuseppe 118n. Pseudo-Longino 231. Pulci, Luigi 58n, 140n, 150, 151, 151n. Puoti, Basilio 90n, 107n, 110n, 304n. Puppo, Mario 64n, 106n, 116n, 160n, 162n, 163n, 174n, 181n, 304n. Querini, Girolamo 149. Quintiliano 57. Rabany, Charles 190, 190n. Ramazzini, Bernardino 66. Rameau, Jean-Philippe 205, 205n, 207. Ramusio, Giovan Battista 185n. Rangoni, Giovanni 56. Rapin, René 159, 159n. Redi, Francesco 63n, 69. Regio, Errico 34. Rialp, marchese (Ramon de Vilana Perlas) 95n, 97, 100. Riccardi, Alessandro 84, 91n. Ricci, Teodora 119, 119n, 125, 149, 153. Ricorda, Ricciarda 18, 119n, 122n, 123n, 130n, 153n. Ricuperati, Giuseppe 74n, 75n, 77n, 79n, 80n, 82n. Rinaldi, M. 191. Rispoli, Guido 83n. Rivarol, Antoine de 250. Robertson, William 239n. Rocca, Giovanni 29. Rodella, Giambattista 27. Rohlfs, Gerhard 87n, 88n, 93n. Romano, Egidio 37n. Roncaioli, Domenico 154n. Ronchi, Giuseppe 112n. Rosa di Villarosa, Carlo Antonio de 28. Rosa, Salvator 151n. Rosenberg, conte viennese 202. Rosiello, Luigi 35n. Rossetti, Domenico 266, 266n. Rossi, Carlo 43. Rossini, Gioacchino 287. Rousseau, Jean-Jacques 18, 188, 188n, 189n, 196, 196n. Ruzante (Angelo Beolco) 137n. Saba, Umberto 280n. Sabini, Angelo 87n. Sacchetti, Franco 58n, 150n, 151, 151n, 302n. Sacchi, Antonio 119, 120, 141n. Sallustio 225, 239n. Salviati, Lionardo 82n, 280n. Salvini, Anton Maria 75, 128, 128n, 172, 172n. Sanfelice, Giuseppe 102. Santato, Guido 215n, 222, 222n, 225n, 230, 231n. Santoro, Damiana 108n. Sarpi, Paolo 182, 183n, 245n. Sassetti, Filippo 154, 183n. Savarese, Gennaro 103n, 107n, 108, 108n. Savioli, Ludovico 264n. Savonarola, Girolamo 58n. Sbarbaro, Camillo 280n. Scannapieco, Anna 18, 124n, 215n. Scheuchzer, Johann Jakob 68. Schiaffini, Alfredo 11. Schiavo, Biagio 209. Schiavo, Domenico 17. Scotti Morgana, Silvia v. Morgana. Secchi, Pietro 88n. Segneri, Paolo 147n, 151n. Sempronj, Giovanni Leone 50. Seneca 57, 60, 61, 132. Senofonte 239n. Serassi, Pier Antonio 286. Serena di Lapigio, Gennaro 103. Serianni, Luca 18, 57n, 90n, 93n, 95n, 106n, 110n, 112n, 147n, 148n, 179, 180n, 184n, 258n, 259n, 276n, 278n, 280n, 281n, 302n, 303n. Silvestro, Tommaso di 184n. Siri, Vittorio 154n. Snetlage, Leonard 207, 207n. Soderini, Pier 99n, 151n. Solanes, Francesco de 91n. Soldini, Fabio 117n-119n, 122n, 123n, 137n. Sorbelli, Tommaso 25n, 32n, 53n, 55n, 58n, 109n. Speroni, Sperone 51n. Spezzani, Pietro 27n, 160n, 194, 194n. Spinelli, Giuseppe 111. Stampiglia, Silvio 84n. Stanislao Augusto di Polonia 95n, 292, 300. Stolberg, Luisa 217, 236. Straparola, Giovan Francesco 137n, 185n. Stussi, Alfredo 18, 172n, 248n. Suarez, Francisco 29. Sulis, Vincenzo 72. Tacito 44, 112n, 239n. Tadini, Felice 211. Tannoia, Antonio Maria 87n. Tassi, Francesco 214. Tasso, Torquato 31, 47, 50n, 51n, 53n, 110n, 112, 161, 183, 193, 210, 218n, 232, 262n, 264n, 285, 285n, 286. Tassoni, Alessandro 151n, 210. Tellini, Gino 214n. Teodosio 101. Teofrasto 206. Terenzio 98n, 113, 219. Tertulliano 96n, 159. Tesauro, Emanuele 53n, 56. Tesi, Riccardo 241, 241n. Teza, Emilio 213, 213n, 215. Thjulen, Ignazio Lorenzo 130, 305. Tiepolo, avogador 177. Tiraboschi, Girolamo 286. 337 Toffanin, Giuseppe 48, 48n, 128. Tolomei, Meo de’ 151n. Tomasin, Lorenzo 97n, 133n, 180n. Tommaseo, Niccolò 39n, 92n, 117, 183n, 305n. Torelli, Giuseppe 15, 16. Torri, Alessandro 287. Tourney 268, 273. Trasone 98n. Trifone, Pietro 162n. Trissino, Gian Giorgio 33n. Tron, Andrea 120. Trovato, Stefano 118n. Tucidide 112n, 239n. Uberti, Fazio degli 116, 151n. Ugolini, Francesco 154n. Vaccalluzzo, Nunzio 127n, 128n, 131n. Valla, Lorenzo 29, 83. Vallisneri, Antonio sr. 9, 20, 22, 23n, 25, 28n, 47, 61-69. Vallisneri, Antonio jr. 62-64. Vanore, Marta 18, 127n, 128n, 175n. Varchi, Benedetto 98n, 116, 151n. Varano, Alfonso 264n. Vasari, Giorgio 151n, 302n. Velluti, Donato 151n. Ventigenovi, Aldo (Arrigo Castellani) 301n. Venturi, Franco 21n, 26n, 76n, 103n, 104n, 106n, 107n, 108. Verga, Giovanni 92n. Verri, Alessandro 26, 31, 40n, 54n, 55n, 142n, 145n, 180n, 263, 278, 302n. Verri, Pietro 31, 40n, 55, 67n, 135n, 137, 141n, 164n, 191n, 243n, 261. 338 Vescovo, Piermario 18, 159n, 162n, 200n, 203n, 204, 204n. Vestris 209. Vico, Giovan Battista 9, 10, 12-14, 20, 22, 23, 25, 27, 28-47, 49, 51, 52, 53-56, 63, 65, 67n, 79, 80, 80n, 82, 82n, 84, 87n89, 104, 107, 108n, 109n, 112, 145n, 164n, 182n, 235, 258n, 259n, 302n. Vignali, Antonio 151n. Villani, Giovanni 82, 151n, 174. Virgilio 30, 225, 226. Vitale, Maurizio 18, 37-41n, 45n, 51, 51n, 89n, 92n, 93n, 94n, 107n, 110n, 128n, 143n, 148n, 161n, 276n, 277n, 278n, 303n. Vittorio Amedeo di Savoia 247, 251. Volpati, conte 211. Volpe, Pietro Paolo 107n, 110n. Voltaire (François Marie Arouet) 159, 171, 171n, 174, 175, 210, 288. Waquet, Françoise 24n. Washington, George 297. Zagonel, Giampaolo 18, 273n. Zaguri, Pietro Antonio 263n. Zambaldi, Paolo 56n. Zambelli, Paola 21n, 103n, 105n, 109n. Zampieri, Filippo 186, 186n. Zane, Cristoforo 19. Zanella, Antonio 281n. Zanetti, Giovanni 17. Zanussi, Francesco Antonio 186n. Zappi, Giovan Battista Felice 264n. Zeno, Apostolo 62n, 79, 84n, 98n, 184n. Ziccardi, Giovanni 165n. Zingarelli, Nicola 87n. Zolli, Paolo 153n, 184n. Zorzi, Ludovico 289n. INDICE DELLE FORME E DEI FENOMENI LINGUISTICI abbissare e affini 87, 87n. abbominazione 87n. acconcio 46, 46n. adagio 283. addobbato 266. affeddundio 269. aggiato e affini 87n. aggiongere e affini 38n, 88n. aggiunto 38n, 88n. alla moda 246n. allegro 283. allineare 245. alterazione, alterati nominali e aggettivali 99, 150, 182, 219, 228, 281. alteriggia 87, 87n. amabile (t. mus.) 283. ambulance 207. ammobiliare, ammobigliare 245, 266. anco 280, 280n. andiedi 179, 179n, 303n. anglicismi 16, 246, 282, 283, 305, 306. a norma di 164. anotomico e affini 137. aombrare 151. appaldi 87. appresso a poco v. pressappoco. apocope in forme nominali e aggettivali 260. appuntamento 184, 184n. arbore 281. arrostita 198. arzanali 144. assignare 88. -ata (formante nominale) 219n. attrappe 198. ausiliari 93, 93n, 181, 259, 280. autobiografia (storia del termine) 15-18. avvantaggio e affini 182, 182n. azzardoso 183, 183n. barbaro, barbarie, barbarismo 113, 113n, 241. Barnabotico 282. baüte 211. beesi, beeva e affini 280, 280n. bel mondo 153n, 246n. benefizio 143n, 278. benefizio (t. mus.) 283. bentosto 182. bigongio 303. bilanziato 144. bon ton 153. borza 88n. brecia 178n. briaco 220. brillante 245. brieve 135. bruggiare 87, 87n. brunatico 282. bugioni 150. calajetta 152. calesse, calesso 183, 183n, 245. camera dei comuni 306. cancellaria e affini 88. cangiare, cangio e affini 148, 179, 179n. cappelloni 108. caratteristico 245n. caratterizzare 245, 245n. casalinghe 198. 339 celtizzato 242. cerbacone, cerbaccone 150, 150n. cerebro 281. chi in luogo di cui in dipendenza da preposizioni 91. chiusa e stretta 282. cignale 107, 281. cocchetteria e affini 153. cogli 279. colla 279. comento 229. comitato 305. commodata 108. commodore 305. condizionale 88, 92, 148, 179, 258, 279. congiongere e affini 38n, 88, 88n. conghietturare e affini 143. congiuntivo 92, 143, 303. consieguire 36. consignare 88. contea 306. continovare e affini 302, 302n. convegna e affini 143. convenzione 306. corbellatura 198. core 202, 258, 258n, 276. corrigere 88. cortesan 176. costui con valore di possessivo 108. cribrato 154. crocitare 281. cuoprire e affini 301, 301n, 302n. dilicata 37, 108. dimandare, domandare e affini 37, 89, 89n, 138, 138n, 203, 276, 277n. dimani, domani 139, 139n. dipignere 277, 277n. di vivente mio 244. di molto ’molto’ 220. dinotare 136, 136n. diplomatico 235n, 245, 245n. di prim’ordine 246. direzzione 178n. disavvantaggioso 183. disceltizzarsi 219n, 242. discoverta 39. diserto 136, 136n. dislocazione a sinistra 42, 96, 101. dispreggievole 107. dittongamento 36, 37, 37n, 87, 89, 89n, 134, 135, 135n, 202, 230, 258n, 278, 276, 276n, 301, 310n, 304. divoto 89, 89n, 136, 136n. dollaro 284. doppie/scempie (consonanti) 86n, 87, 87n, 107, 110, 139, 140, 140n, 178, 178n, 202, 203, 302, 302n. doppo 87. -dore 89, 140. du’ 220. dubbitare 87n. ducato 284. dugento 145, 145n, 220. dar da colazione e affini 185. dasse 303. davvantaggio 182n. debbo, deggio, devo 40, 40n, 148, 148n, 164, 179. delicato, dilicato 37, 137. democratismo 305. dezina 144. dierono 40. diffinire e affini 37. e’ (pron. pers.) 39, 40n, -ea, -eano, -eva, -evano 91, 92n. economizzare 283. eglino 39, 40, 40n, 54, 90, 90n, 278n. ei 40, 278, 278n. elasticità 65. elettricità 153, 245n. elettrizzare 266. elleno 39, 40n, 278n. -ello 281. 340 equivoci linguistici e faux amis 86, 183, 209. eramo 92, 92n, 303. -eria 219. escire, escito 302. -esco 219. esenziali 178n. espatriazione 245. espilato 97, 97n. -essa 219. essere sul punto di 246, 246n. essoloro 40, 40n. essolui 40, 40n. està 45, 45n, 98. estenzion 88. estorquendo 97. -etto, -etta 52, 281. faccendomi 178. facilemente 267. fanatismo 245, 245n. far de’ lunari 184, 184n. farfallesco 155. favata 152. femina e affini 139, 229. femminezza 220. fiascone 283. filautia 46. finanza 266. fiorentino aureo 37, 116, 142, 267. fiorentino contemporaneo 57, 75, 162, 173, 221, 221n, 236, 236n, 237, 248, 301, 302. -fizio, -ficio 143, 143n, 278. fluviatile 98. foco 276, 276n. forfante 137. fornimenti 283. fortificare 306. francesismi del Boccaccio (in Alfieri) 243. francesismi lessicali 61, 150, 152, 153, 164, 177, 182, 183, 184, 242, 243, 245, 266, 266n, 282n, 305, 305n. francesismi sintattici 61, 165, 244. franciade 207. froda 39. fûr 179, 279, 279n. fusse e affini 37, 37n, 88, 88n, 109, 135. galanteria 150. galesse 87, 87n. gallicheria 239n, 242. gallicismo 242. gallicume 242. gallume 242. gastigo/castigo 277, 277n, 302, 302n. gentilità 45. gerundio preposizionale 40, 94. ghiridone 153. giovane/giovine 276, 277. giubbilo e affini 178n, giugnere, giungere 142, 142n, 179, 179n, 277, 277n. grammatichevole 220. gran mondo 153, 153n. guerire 277, 277n. iconomia 37, 37n. il pronome 110, 203. illetarghito 99. imaginare e affini 202. impagliolata 152. imperfetto indicativo, forme 91, 92n, 147, 147n, 304. impokerarsi 282. in più infinito 41, 94. incolato 97. incomprendevolità 45. indossare 283. ineccitabile 220. ingiongere 38. inquirere 97. intiero 230, 276, 276n. intraprenditore 283. 341 ipotassi 42, 96. isfuggire 89. istoria e affini 89. istraricchire 99. istromenti 89. ito 258. là (fr.) 207n. lacrima, lagrima141. latinismi lessicali 46, 97, 98, 108, 154, 164, latinismi sintattici 41, 67n, 96, 260 lg (grafia) 144. libellatrice 154. libero muratore, libera muratoreria 246. libraria 88n. libricciuolo 182, 182n. ligame 37. lingua morta 67, 67n, 128, 129, 210, 237, 238. linguaggio giuridico 96, 97, 97n, 133, 154, 176, 180. litterato, letterato e affini 38, 38n. lui soggetto 278. magnificaggine 150. malgrado 184, 244, 244n, maninconia 281. manuscritto 88. mantachetti 151. manupolio 154. maraviglia 88, 88n. maschiezza 220. masserizia 266. meglior 302. mellonaggine 99, 99n. mendicume 151. mercordì 220. meridionalismi 45, 90, 92, 98, 107. messi, messero e affini 303. minchionada 198. mitraille 184. miulsini 185. 342 monarchien 207. morbin 198, 198n. mora 276. multiplicare 88. multiplici 88. muriccie 229. musichevoli 220. napoletanismi v. meridionalismi. negare, niegare 36n, 135n. neoformazione 64, 150, 154, 219, 242. nimico 137, 137n. niuno 147. nodrire 138. nominale, stile 217. novellamente 267. numerali 145, 180, 220. omai 280, 280n. ordine naturale (sintattico), stile naturale, 105, 160, 161, 229. ormesini 176, 176n. osofago 137. padria 109, 109n. palleggiare 220. palmario 97. panicocolo 304. panimbruo 199, 199n. parabolano 151. parasintesi 99, 291, 282. paratassi 54, 105, 162, 182, 191, 257. parlabile 221, 236. paroli 184, 184n. paroncin 176, 197, 198n. particolarizzarsi, particolarizzare 154, 245, 305. partito dell’opposizione 306. passeggero 254n. pastinaca 107. pastricciana 304. pei 279. pel 279. percantazioni e affini 98, 98n. perfetto indicativo 40, 92, 179, 279, 303. periautografia 16. periautologìa 17. perifrasi pronominali 93, 220. perifrasi verbali 164, 181, 259. periglio 281, 281n. per lo 110, 110n, 146, 146n, 258n. pernizioso 144, 144n. però ’perciò’ 280. piagnere, piangere142, 142n. piastra 284, 284n. pillotta 304. picciola 230. pisciarello 152. plagiario 245n. pocolino 182n, 228n. polise 110. politia 98. poltron 201. polzo 144. ponsò 153. posticamente 108. poter esecutivo 306. pozzanchere 87. pregiudizio 130, 130n, 245. prender giorno 245n. prendere le misure 245. presentimento 245n. pressappoco, presso poco 164. preposizioni articolate 279. pressione 65. pria 258, 280. proggetto 107. pronunce regionali e idiosincratiche dell’italiano 140, 144, 145, 179, 209, 212, 235, 236, 236n. pronunzia 144. propio 39, 39n. proverbi 100, 172, 184, 291. provvisorio 245n. pruova 36, 135, 276, 276n, pulizzia 178n. punto con valore avverbiale o aggettivale 221. purismo 30-40, 48, 75, 82, 88, 90, 112, 128, 134-155, 171, 193, 204, 205, 225, 274, 279. quai 258. qualche con sostantivi plurali 244. quartale 98. ragazzofilosofico 155. raggionamento 178. raggiugnere 179. ragnaja 151. recrutare 305. reddizione 97. reiezione, regezione 154. ricadìa 151. ricapito 89, 89n. ricolta 136, 138, 138n. ricuperare 89. ridimere 89. rifflettere 178. ridondanze pronominali 95, 218 ridondare 164. rimbambinare, rimbambire, rimbambimento 220. riminiscenza 89, 89n. rimoto 89, 89n, 136. rimprotto 107. rinonziare 38. rinunzia e affini 38. ripettere 178. riputare 37, 89. rispingere 136. ristucchevole 99. ruina e affini 109. sabo ’sabato’ 211. sacrifizio/sacrificio 143n, 278. sansculotisme 207. saper malgrado 184. 343 saria, sariano, sariamo, sarieno 92, 92n, 258. sbaviglio e affini 143. sc (grafia) 144. scamoffia e affini 152. scanzie 88n. scaranzia 184, 184n. scarsella 152. scemitragico 155. scerifo 283. scerpellino 151. scevra 212. schiavi-democratizzata 219. schiccherare, schiccheratura 151, 151n. schignazzando 141. schiranzia 184. sciabla 203. sciaurato 281. scillaba 144. scilloppata 140. scimiotigri 219. scola 134, 276. sconcacatura 151. scoverto e affini 39, 39n. scritoio 178n. scruttinar 202. scuopo 87. scuoprire e affini 301n, 302n. se’ ’sei’ (numerale) 220. seccentista 178. seco lui 180, 180n. secreto, segreto 141. sedicente 245, 245n. seguire, sieguire 36n, 37n. semibarbaro 239. semiplatonico 155. sentimentale 246. serviggio 87. servipadroni 219. sessantetti 283. sguadrone 87. si per la prima persona plurale 220, 304. 344 siccome con valore causale 244. siedendo e affini 135. siei ’sei’ 296. Siena, possibile modello alternativo a Firenze 211, 236, 237. simigliare, somigliare 139. smucciarono 151. solecismo 241. sommariare 176. sopiattoni 151. sopraluogo 178. sorprendere, sorpresa 245n. sortire ’uscire’ 182, 304, 304n. sozio 144, 144n. spampinare 45. sparamiare 98. spasseggiare 98. spedale, spedalesco 220. spensare 225. spezie ’specie’ 278. spicilegio 98. spiemontizzare 232, 234, 240. spigolistro 99, 99n, 152. stomaccato 178n. stiedi 179, 303. stratagemmatico 154. style coupé 42, 107. stracqui 110. stromento, strumento 138. subbito 87. successo ’riuscita’ 245n. superchieria 202. surgere, surse e affini 37, 37n, 88. susistere 178. svegliarino 152. sveglievole 220. talluto 107. tantosto 182, 183n. tepido, tiepido 135. toccante 245n. tombolare 151. traccurare, traccuramento 45. trasonico 98. travagliare 267. treno 245n. triste, tristo 145. truovare e affini 36, 135, 276. turbiglione 305. -uccio 281. ufizio e affini 294. ugne 142. umbilico 202. uniforme 245n. vafro 98. vagliono e affini 143. veddi e affini 303, 303n. 345 veggono, vedono 40, 107n. vegnente 142. venezianismi lessicali 134, 152, 140, 152, 160, 184, 207n, 211. venzei, venzette 220. vettura 246n. viglietto 153. vindemiare 88. vindicare 88. vo’, vuo’, voglio 54, 54n, 179. volgo, vulgo 135. zeffo 144. zendaline 152. zeppo 144. zolfureo, zulfureo 144. zottico 178n.