UNDICESIMA PUNTATA di PAOLO RUMIZ

La casa fantasma di Tommaso Landolfi
Il poeta nottambulo di Pico Farnese

Paolo Rumiz raggiunge la dimora del poeta frosinate, un'altura in bilico fra i Monti Ausoni e gli Aurunci, che stava cadendo in rovina. Dopo una strada intorcicata dal Tirreno di Sperlonga e le montagne selvose, approda in questa terra di villaggi arroccati fra l'ex Regno delle due Sicilie e l'ex Stato della Chiesa

Che dire dopo le Calabrie, archivio incomparabile di abbandoni e rovine? Riguardo la mappa dell'Italia perduta e constato che - risalendo a Nord - tutto impallidisce al confronto: anche le strade del selvaggio Pollino, anche le ostiche valli degli eremiti sopra Manfredonia o i villaggi terremotati dell'Irpinia. Sbiadisce nella memoria persino Craco in Basilicata, arroccata e stupenda nel temporale, talmente bella da rendere incomprensibile la fuga degli umani. A ripensarci, non regge al paragone nemmeno il grande anello dei radar dismessi vicino a Brindisi, un luogo di potenza astrale che mi evocò i menhir di Stonehenge. Così anche le chiese bizantine di Santa Maria di Pulsano, che vidi tra le rocce garganiche una sera di vento mannaro.

Di fronte ai tempestosi abbandoni di Roghudi e Africo tra le fiumare d'Aspromonte, nemmeno i nobili resti di età borbonica, dimenticati dagli atlanti post-unitari, hanno saputo comunicarmi la stessa lancinante dimensione dello spopolamento e dell'incuria. Luoghi come la valle delle industrie a monte di Amalfi, il grande ponte in ferro sul Garigliano, o la struggente San Leucio, città-modello del tessile dalle parti di Caserta, che vidi nel 2005 con Roberto Saviano. Per questo, delle terre a Sud di Roma, preferisco ricordare gli abbandoni fuori ordinanza, quelli dove non c'entrano frane, miseria o malavita. Posti come la dorsale del Monte Partenio sopra Avellino, irta di ripetitori per metà dismessi, che ho narrato all'inizio della storia. O Pico Farnese in Ciociaria, con la casa semi-abbandonata di Tommaso Landolfi. Quella di cui ora narreremo.

Era successo che il poeta nottambulo dei luoghi-fantasma e delle "lune veleggianti" mi aveva tenuto sveglio una note col suo "Racconto d'autunno", dedicato a una casa abbandonata e ai suoi sinistri abitanti. Poco tempo dopo avevo saputo che all'Autore toccava di scontare post-mortem, sul luogo natale, lo stesso destino dei suoi libri. La casa avita di Pico Farnese, su un'altura in bilico fra i Monti Ausoni e gli Aurunci, stava cadendo in rovina e persino i suoi manoscritti rischiavano di essere messi all'asta dagli eredi. Così una bella mattina di maggio presi una strada intorcicata dal Tirreno di Sperlonga e mi addentrai fra montagne selvose fino a una terra di villaggi arroccati fra l'ex Regno delle due Sicilie e l'ex Stato della Chiesa. All'arrivo, trovai Pico in ostaggio di un rally motociclistico, fumante di porchetta e amatriciane. L'esatto contrario di quanto mi aspettassi.

Mi accorsi subito di aver sbagliato stagione. Sarebbe stato difficile in un giorno simile ritrovare tracce di quell'uomo lunatico che aveva scritto alcuni tra i più bei racconti italiani. Lo sappiano quindi i lettori d'agosto: i luoghi perduti si affrontano d'inverno, con pioggia, nebbie vaganti o groppi di vento annidati tra i muri delle case. E se proprio non c'è alternativa alla bella stagione, allora ci si vada di notte, con le nubi in corsa sotto la luna, e se possibile vi si allestisca un bivacco di contrabbando per meglio sentire le voci degli spiriti. La raccomandazione vale ancora di più per uno come Landolfi, ombroso adoratore delle notti d'autunno. Comunque sia, io ero lì un mezzogiorno di maggio e non avevo scelta. Così andai.

Bastò che mi allontanassi da grigliate, assembramenti e motori sullo stradone, per ritrovare il silenzio. Salii verso il paese vecchio, semideserto, e vidi una donna pallida in vestitino rosso fuoco salire ancheggiando, come senza peso, per le scalette di Vico Pompeo. Subito pensai alla Dark lady, "innocente e perversa" che il protagonista del racconto d'autunno evoca con una necromanzia nelle stanze segrete della casa degli spettri. Le chiesi dov'era villa Landolfi, ma quella sembrò non sentirmi. Rimasi fermo e, con sorpresa, la vidi raggiungere la cima della scala e solo allora girarsi lentamente, sollevare un braccio e indicare la direzione senza pronunciare parola.

La casa era dietro l'angolo; antica, massiccia e sbarrata. Le finestre al primo piano erano chiuse. Una era cementificata, sembrava un'occhiaia vuota. Il sottotetto mostrava finestrelle come di granaio e un gran traffico di rondini nei due sensi. Dall'altro lato, oltre un cancello di ferro, c'era un giardino mangiato dalle erbacce che era possibile vedere solo arrampicandosi sul muro perimetrale.

Subito mi accorsi che stavo ripercorrendo le pagine del racconto. Avevo il libro con me e trovai a pagina 18: "Cominciai col fare il giro della casa, a una certa distanza, perché alcuni ostacoli di non ben precisabile natura mi impedirono di farlo più davvicino". Era esattamente così, giravo attorno al palazzo, con passo felpato da cheyenne e una circospezione che non aveva nessuna ragione di esistere.

Mi chiesi cosa doveva essere rimasto nelle soffitte di casa Landolfi. Le soffitte - pensai - sono la memoria delle case, più ancora delle cantine, ed era forse per questo che oggi, nel tempo che perde la memoria, non si fanno più soffitte nelle case. Ricordai la slitta di Citizen Kane che nel film di Orson Welles è dimenticata in un sottotetto, mi tornò in mente la soffitta della mia prima casa, dove da bambino avevo trovato un elmetto tedesco e un moschetto 91 della prima guerra mondiale, e pensai che i miei figli non avevano mai frugato in quegli spazi segreti e polverosi dove il bambino costruisce la percezione del tempo e del suo sedimentarsi.

Ero lì a fantasticare, quando due donne anziane mi soccorsero. Una disse: "L'ho conosciuto", senza nemmeno chiedere chi stessi cercando. L'altra aggiunse: "Era un tipo particolare, ma era un grand'uomo". La prima: "Aveva l'offesa facile, e aveva la malattia del gioco". Dissero ancora: "Purtroppo è una casa abbandonata... E' un peccato, sarebbe una ricchezza per il paese". E ancora: "La figlia è morta. Il figlio non viene mai... sta a Roma, nessuno lo vede più". Fu a quel punto che apparve una donna giovane, che poi si qualificò come Maria, un'insegnante di Roccasecca, paese poco distante. Anche lei cominciò a raccontare. Era la quarta donna, di uomini neanche l'ombra attorno alla villa. L'abbandono contemplava solo vestali.

Maria si offrì di accompagnarmi al piccolo museo landolfiano in una piazzetta poco sopra. Salendo, spiegò che dal '79, l'anno della morte di lui, nessuno aveva fatto più lavori. Disse ancora: "Lui non si vedeva mai di giorno, così raccontavano i vicini. Usciva per le strade solo quando la gente rientrava dai campi". Al museo, deserto, c'era la piccola scrivania e un gufo di legno che sembrava candidarsi ad animale totemico dell'autore. Lessi su un manoscritto: "Qualche volta la fanciulla girava tra le rovine del castello e ritornava sul ciglio del suo scoscendimento, seduta su un'architrave crollata". Mi accorsi che il sole alto picchiava sui tetti, eppure tutto, in quell'attimo, chiamava la luna.

10 agosto 2011

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