La Porta è ancora aperta: per il ventennale di Antonio Porta

di GIUSEPPE GENNA

antonio_portaLa sera del 12 aprile 1989, diciannovenne, io ero a una riunione della rivista poetica milanese Schema. Erano altri tempi, rispetto a questi. La poesia contava socialmente, sebbene il declino transitorio (ma drammatico, se visto con lo sguardo di chi fa del presente una verità oggettiva ed eternizzabile) fosse già avvertibile. C’erano riviste, iniziative, incontri. Esisteva MilanoPoesia. Milano pulsava. Giunto a quella riunione di Schema, un amico mi disse con aria frivola e svagata: “Lo sai?, è morto Porta”. 
Antonio Porta era il mio appiglio edipico, l’unica persona che in quel momento potevo e in futuro non avrei smesso di chiamare “maestro”.  All’annuncio effettuato con frivolezza vagamente morbosa, mi congelai. Avvertii un freddo interiore, un antartide viscerale.
La riunione si spostò a casa di uno dei due direttori di Schema, Franco Manzoni. Un consesso assurdo, in cui parlavano di ciclismo. Io non riuscivo a pronunciare parola. In quel consesso emerse uno dei tanti ignorabili poeti del sottobosco, peraltro più musicista che scrittore, appartenente alla fauna parassitaria che sfrigola la sua esistenza minimale e muschiva nel basso e nell’invisibile, senza che nessuno se ne accorga, nonostante l’unico desiderio del paramecio sia che qualcuno si accorga di esso. Tale ente, dotato di parola disumana, pronunciò una frase che mi si stampò nell’intimo e che innescò il primo conato di una nausea che mi sarei portato addietro per vent’anni, fino all’altro giorno – dicendo esso organismo: “Beh, possiamo dire che la Porta si è chiusa”.
Tornai a casa in un diluvio e poi fu il diluvio di lacrime. Mi ricordo, serrato in bagno, il pianto convulso, la tosse, il muco, la compulsiva litanìa ancestrale di uno stridìo animale che mi sibilava direttamente dai polmoni, la gola che mi faceva male. Il “maestro” era morto e mi sentivo dunque morto anch’io. Questo egoismo ingenuo che è proprio del lutto, quando l’identificazione trionfa sullo sguardo aperto all’altro…
Era morto a Roma, di I.M.A.: infarto miocardico acuto – la stessa causa di decesso di mio padre, diciassette anni dopo quell’evento. Mio padre che fu completamente sorpreso dal mio lutto, nerissimo, in quei giorni, e chiese a mia madre cos’era successo. Io non riuscivo più a mangiare, non mi veniva da pensare, giravo per ore sulla Uno bianca del mio amico Brunetto. Dovevo apprendere le fatidiche grammatiche del lutto e, di fatto, pur essendo l’anagrafe una scusa buona, io non avevo compreso a fondo il cuore del magistero di Antonio Porta, che è il cuore del magistero di tutta la letteratura autentica: cioè che la morte non esiste.
E nemmeno ce la feci a partecipare al funerale. Nemmeno ce la feci a presentarmi, anche in solitudine, al cimitero. Ci riuscii soltanto dopo, a tre anni di distanza. Con la mia fidanzata, ricordo, che mi aveva accompagnato una domenica o un sabato a uno dei prestigiosi incarichi fornitimi dal mio datore di lavoro in nero, che era una tv affiliata al circuito Odeon: dovevo commentare in diretta una partita di un torneo calcistico in quel di Rozzano – il torneo dedicato a Scirea, una delle mitologie della mia infanzia. Era un periodo esistenziale assurdo e infatti, per l’assurdità in cui ero immerso, gridai al gol, essendo la palla uscita sul fondo per una distanza dal palo di una decina di metri. Ero frastornato per tanti e già confessati motivi.
Al ritorno, sulla Golf erotizzata della mia fidanzata, le chiesi se potevamo deviare e visitare la tomba di Antonio Porta: il cimitero era lì accanto.  La fidanzata acconsentì, sapeva quale gesto stavo compiendo, conosceva perfettamente l’importanza che Porta aveva rivestito e rivestiva per me, esistenzialmente intellettualmente letterariaramente.
Stava in un’agghiaciante costruzione a cubo, la cosa più simile all’evocazione del monolito di 2001 che io avessi mai visto. Un cubo grafitico aperto. Si salivano scale. Soffiava un vento diaccio e spettrale. Era forse all’ultimo piano, deposto non in cielo e nemmeno in terra, la lapide recitava le parole da Invasioni: “Andate mie parole, calcate le tracce dei linguaggi infiniti”. Toccai quella lapide gelida, non sentii nulla, anni dopo riprodussi la scena: Hitler che tocca la tomba di Napoleone e non prova nulla, ma fa finta di sentire qualcosa.

La notte della morte di Antonio Porta il poeta Cesare Viviani letteralmente ululò per ore nella sua casa e i vicini si preoccuparono.

Perché non avevo compreso il magistero di Antonio Porta? Avevo succhiato come miele tutto quanto mi aveva insegnato, in pubblico e poi in privato, a casa sua. E non avevo capito. Avevo compreso le tecniche, avevo imparato le metriche, avevo appreso le retoriche. Ma non avevo capito l’infinitudine del progetto infinito: il progetto infinito è infatti il cuore della poetica e del magistero letterario di Antonio Porta. Cosa significa progetto infinito? Significa anzitutto stare a contatto con la realtà e cercare di intrudersi, sì per comprenderla, ma anche per giungere davanti al muro d’ombra del suo mistero. Significa che il linguaggio, la lingua è trasmutante e non c’è: esiste, diviene, ma non c’è, e bisogna puntare ad alludere a quanto è. Significa sperimentare gli stili, i generi, qualunque modalità artistica: per trovare dentro il fare, che sarebbe lo scrivere in quanto pòiesis, il cuore stesso della nominazione, del ritmo, del tono – cioè la forma stessa dentro una forma artistica.

Disse: “Il pensiero si trova scrivendo”.

A differenza di molti altri poeti, Antonio Porta, e lo si può costatare oggettivamente a vent’anni dalla morte, non è passato affatto. Io pensavo che se ne sarebbero ricordati in pochi. C’erano poeti più importanti, più formalmente avvertiti e potenti di lui – e non era vero. In questo transito di forme, laddove la narrazione è in ricerca libera del suo statuto formale e la poesia più che mai, i libri di Porta, da quello che vedo in Rete e dal percorso dell’ultimo e postumo Yellow, hanno un presente che sta formando un futuro. Porta parla, Bertolucci (un esempio tra molti) no: la scrittura poliforme ed extragenere del primo è viva, quella del secondo è messa sotto ambra accademica. A vent’anni dalla morte, Antonio Porta continua a essere dinamico e ciò che percepisco è che questi sono i suoi anni, sono gli anni della sua rinascita inattesa. Per parte mia non ho mai smesso, per due decadi, di applicare quanto avevo da lui appreso, e di meditarci sopra. Mi accorgo che in questo tempo antiumano la sua ricerca mai definita e mai definitiva, questo nomadismo che è in grado di mettere sotto scacco, nella prassi, ogni ideologia del verso, della narrazione, dei movimenti storici – questo nomadismo è ciò che io ho tentato ed è l’unica forma autentica dell’umano. Il magistero è maturato senza che me ne accorgessi, anche se in ogni libro io ho inserito consapevolmente versi, passi, movenze, assonanze, temi e motivi della poesia di Porta (i risultati ottenuti sono assolutamente trascurabili in questo discorso).
Mi è chiaro che Porta è matriciale: in effetti considero un testo come Aprire uno dei fondamenti della possibilità narrativa di genere nell’Italia contemporanea. L’esondazione di Porta nelle forme chiuse e aperte, ma soprattutto nell’idea di centralità futura della forma-poemetto e, quindi, della forma-poema, tendente verso il prosastico, è ciò che si è spalancato negli anni Novanta e che paradossalmente ha i suoi avversari proprio laddove Porta fu e abbandonò: in area neoavanguardista. Lo scavalcamento del “sapere di testa” a favore dell’idea nucleare del “sapere nel corpo e col corpo” è l’unica strada che può condurre oltre questa nebbia di simulazioni e dissimulazioni che, esattamente da vent’anni, è il nostro presente italiano. Il teatro di Porta (La festa del cavallo, soprattutto) è testo che si dispone all’idea stessa e grotowskiana dell'”arte come veicolo”.
Il corpo è tutto: ecco il senso del progetto infinito di Antonio Porta. La centralità del corpo, che è somatico, emotivo, inconscio e conscio, mentale, atto misterioso della coscienza nuda, è il perno attorno a cui ruota la letteratura consegnataci da Porta – ma, se ci si riflette sopra con compiutezza e onestà, è il perno su cui ruota la letteratura tutta.
Dal punto di vista formale può sembrare che certi ex compagni di strada di Antonio Porta, come a esempio Sanguineti, siano più fondamentali di lui. E’ indubbio, ma va messa sotto lente la prospettiva secondo cui è indubbio: è così solo dal punto di vista di un determinato canone e da quello che cristallizza la tradizione, atto del presente che non si accorge di compierlo, atto che Porta stesso cerca al contrario (di Sanguineti, poi, in particolare) di lasciare nel suo intatto potenziale energetico.
Se si cerca una certa erudizione e letterarietà in base alle categorie novecentesche in Porta, non si trova nulla. Ma, come dice un emblematico suo titolo desunto e distorto da un precedente cinematografico arcinoto, se noi rovesciamo la palpebra e apriamo a uno sguardo privo di ostacoli, ecco che l’opera di Porta assume una letterarietà potentissima: che è quella anticipatoria. La nozione per cui “i generi non esistono, ogni opera fa genere a sé” io l’ho mutuata dalla sua viva voce; e poi dalla sua poesia e dalla sua prosa parabeckettiana.

Misconoscere i maestri è un’esperienza naturale. Attraversarli, col corpo che è anche mente, è un’esperienza fondamentale dell’umano. Se io ho compiuto letterariamente ed esistentivamente una simile esperienza, lo devo ad Antonio Porta.

Va fatto comprendere intensamente, profondamente, anche a chi gli fu vicino fisicamente, che non può essere considerato morto e non per avere affidato una qualche eredità, che infatti non ha affidato nessuno: ci sta dicendo da vent’anni, con la stessa acribia che sarebbe errato catalogare come vitalismo, che la morte non esiste, e quindi, essendo egli morto, resta la domanda su cosa significa morire. Non si può che ripartire da qui, che si sia degli ammiratori o dei detrattori dell’opera di Antonio Porta.

Antonio Porta, pseudonimo di Leo Paolazzi, è nato a Vicenza nel 1935 ed è morto a Milano il 12 aprile 1989.
È stato tra i fondatori del Gruppo 63, redattore della rivista «Il Verri» e tra i creatori di «Alfabeta». Dirigente Bompiani e Feltrinelli.
Tra le tante, si ricordano le raccolte poetiche «Metropolisc (1971) e «Invasioni» (1984).
L’editore Garzanti manderà in libreria il 26 marzo, per la collana Gli Elefanti, «Tutte le poesie« di Porta, a cura di Niva Lorenzini, con un’ampia antologia critica (pp. 664, e 20).

fb Il Gruppo Facebook dedicato ad Antonio Porta

dal Corriere della Sera di oggi, 3 marzo 2009:

Archivi Sodalizi e critiche: dalle carte del Centro Apice emergono i rapporti dello scrittore con gli altri protagonisti della letteratura italiana

Antonio Porta

L’intellettuale imprenditore che giudicò le avanguardie senza paura.
I litigi con Balestrini e Siciliano. Fortini? Presuntuoso come Jago

di PAOLO DI STEFANO

antonio_porta3Fa impressione, ripercorrendo l’itinerario intellettuale di Leo Paolazzi, in arte Antonio Porta, constatare come si siano potuti concentrare in un solo uomo lo scrittore e il poeta, il giornalista e il critico letterario, l’organizzatore culturale, il redattore e direttore di riviste, il funzionario e dirigente editoriale e altro ancora. E soprattutto come nessuna di queste molteplici facce sia secondaria rispetto alle altre. Nei vent’anni dalla morte, il ricco carteggio di Porta (finora rimasto nel suo complesso pressoché inesplorato), conservato nel Centro Apice di Milano con gli autografi delle opere e la biblioteca, dimostra come l’intellettuale sia stato per trent’anni al crocevia della nostra cultura letteraria, instancabile punto di riferimento per diverse generazioni. A cominciare dai tempi in cui, poco più che ventenne, stabilì i primi contatti con Luciano Anceschi, il maestro con il quale intratterrà una fitta corrispondenza per tutta la vita.
Nel ’58 Porta è redattore della rivista «Il Verri », fondata da Anceschi e destinata di lì a poco a diventare il laboratorio della neoavanguardia, con giovanissimi autori come Balestrini, Eco, Sanguineti, Giuliani, Pontiggia. Dopo una prima serie, la rivista passerà, tra il ’58 e il ’61, alla Rusconi-Paolazzi, in parte proprietà del papà di Leo, Pietro Paolazzi: in una lettera del 3 dicembre 1960, Anceschi non manca infatti di ricordare «l’aiuto e l’appoggio così generoso di tuo padre e tuo». La rivista avrebbe figliato, sotto la stessa sigla, una collana in cui sarebbero apparsi non solo i saggi di Anceschi ma anche le prime prove poetiche e in prosa dei suoi giovani «allievi». Il tutto grazie al coordinamento di Porta, attivissimo all’interno pure con compiti di organizzatore industriale.
Lo scambio epistolare con Anceschi è dunque improntato, in origine, al lavoro operativo.
Il 5 febbraio 1961 viene presa la decisione di affidare rivista e collana alle cure di Nanni Balestrini, mentre ad Alfredo Giuliani spetta il compito di mettere insieme l’antologia dei Novissimi, nucleo originario della neoavanguardia. Battezzato il Gruppo 63, affiorano evidenti tensioni. Il 24 giugno ’64, Anceschi conferma la responsabilità dell’«insostituibile » Balestrini. Già in novembre, però, il maestro non risparmia severe bacchettate all’eccessivo ecumenismo del Gruppo. Troppi «intrusi»: «alcuni giornalisti e scrittori mediocri» e «la pletora di narratori e prosatori non esistenti (…) e senza meriti». Ma prima o poi «verrà la resa dei conti», minaccia Anceschi. Il quale chiede una maggiore selezione «secondo un criterio di qualità », per non costringere la rivista ad «avallare presenze assolutamente nulle (…) o anche posizioni astratte e vuote assolutamente infeconde come quelle di Giuliani e Manganelli». I figli diventano figliastri, e sotto la scure di Anceschi finirà lo stesso Balestrini, nel ’66, all’uscita del suo Tristano,
definito poeticamente «arido»: «D’altro canto, vi è in quella aridità (o vi si può vedere) non so che squallore terribilmente moderno».
Leo Paolazzi sembrerebbe il confidente prediletto del guru semipentito della neoavanguardia anche quando passa alla Bompiani (braccio destro di Valentino e infine consigliere di amministrazione dal ’68 al ’72) e poi alla Feltrinelli. Non solo. Porta ha antenne sensibilissime. Nella redazione del «Verri» verrà arruolato anche il giovane Giuseppe Pontiggia, con cui alla fine del ’62 avrà un intenso scambio sulla fede: «Caro Peppo, non sbagliamo credendo in ciò che diciamo, perché noi non parliamo credendo, non partiamo da un credo. Entriamo in contatto con la realtà (…) e cerchiamo di capire scrivendo». Il fitto carteggio con Balestrini, si apre sempre su questioni legate al «Verri » ma registrerà momenti burrascosi all’inizio degli anni 80 in relazione al mensile «Alfabeta », di cui i due amici sono tra i fondatori.
Un’amicizia non proprio pacifica. Balestrini, perseguito dalla giustizia per banda armata come esponente di Autonomia Operaia (accusa da cui verrà assolto nel 1984), è rifugiato a Parigi dal ’79 e da lì coordina i lavori. Porta lo tiene al corrente di tutto. E con il «carattere cattivo» (parole sue) che gli consente di litigare «apertamente» senza «scaricare barili», il 17 dicembre 1980 scrive a Nanni riguardo a un saggio del filosofo Alessandro Fontana. Il saggio è stato richiesto da Balestrini e pubblicato nonostante le riserve della direzione di «Alfabeta» e la preghiera, respinta dall’autore, di qualche aggiustamento: «la pochezza stilistica e la sciocchezza filosofica delle prime due cartelle rimane e non è atto di censura criticarle (…)». Balestrini non esita a replicare: «L’articolo di Fontana è scritto bene (non sotto la media degli articoli di Alfabeta), (…) e se il suo inizio dice che la più parte della cultura è ridotta in Francia e in Italia a politica culturale, questa è per esempio una cosa che tu non condividi ma io sì». Dichiara la sua «completa sfiducia» nel Comitato (un comitato costituito, tra gli altri, da Maria Corti, Eco, Leonetti, Rovatti, Spinella, Volponi), accusandolo di presentarsi come «una specie di intelligenza collettiva, superiore a quelle individuali, che ad esse dovrebbe imporre il rispetto delle verità», e incalza: «Ora, se sulla dittatura delle maggioranze avrei qualcosa da obiettare anche in politica, nella cultura ciò mi sembra la cosa assolutamente più nefasta sotto tutti gli aspetti ». Quando l’amico accenna a oscuri «mercanteggiamenti» interni alla rivista, Porta si infuria: «Prego: nomi e cognomi e fatti… A me le accuse generiche dànno un fastidio d’inferno! Non riesco più a stare fermo sulla sedia, mi sollevo per la rabbia e per i peti che vengono prodotti da questa rabbia, peti infernali, appunto…». Il «carattere cattivo », però, è anche capace di mediare. Per esempio quando lo stesso Balestrini si sente offeso da una recensione critica di Giuliani alle sue poesie. Una polemica che Leo considera «superbamente idiota, da entrambe le parti»: «Siamo già tutti pieni di nemici, in ogni dove, e voi due, come i tacchini di Renzo, cercate di farvi fuori a beccate».
Litiga e media con gli amici. E a maggior ragione con gli avversari. Come nello scambio con Enzo Siciliano a proposito di un bilancio della poesia apparso sull’«Espresso» nell’aprile 1966, dove si valorizza la poesia «neocrepuscolare» di Pagliarani, senza tener conto del contributo della neoavanguardia, e in particolare di «Sanguineti, Balestrini e Giuliani, che lei evita, assurdamente, di nominare». Siciliano risponde liquidando Giuliani e Sanguineti come «scrittori squisiti»: «Voglio dire che la “squisitezza” dei due è un involucro letterario, estetico, novecentesco, che da Pagliarani e da lei è scantonato». Quanto a Balestrini, «è un poeta fumiste: ama il gioco verbale per un gusto tutto fonico». Ne nascerà stima reciproca e amicizia: «A quando il romanzo?», chiede Enzo nel marzo del ’67. Nell’80 si dice entusiasta della raccolta Passi passaggi («C’è in questo tuo libro un esaltato attaccamento alla vita che mi ha commosso. È come se tu avessi lacerato il tuo ordine letterario per raggiungerti al cuore»).
L’anno dopo, quando esce il romanzo di Siciliano
La principessa e l’antiquario, Porta non ricambia gli apprezzamenti ed esprime un parere negativo giudicandone lo stile «troppo alto»: «Domina lo sfondo di un’Ansia che sta quasi per trasformarsi in Angoscia superna e tu, per placare il mostro, gli offri in sacrificio una prosa eccessiva, che, a volte, gronda di metafore e di immagini che sono monumenti al déjà vu ». Risposta: «La tua sincerità mi ha fatto piacere. Ma credo che tu abbia torto: credo che tu abbia preso il mio romanzo per un verso sbagliato (…). Vedi, la ragione dell’arte non è un due+due=quattro. L’arte fa sgambetti (…). La follia dell’arte è ciò che parla fra le nostre righe a scorno di progetti o altro». Si sente, qui, un velo di polemica contro i progetti neoavanguardisti. Che non basta a incrinare l’amicizia. Il vero obiettivo polemico della lettera è, più in là, Franco Fortini: «Lui si è seduto a tavola con chiunque nella buffonesca presunzione di farsi padre di chiunque; ma è secco e vuoto come una canna, e non può essere padre, zio, cugino di nessuno. Fortini è Jago». I nodi di due diverse prospettive nell’intendere la letteratura, e non solo, verranno però ben presto al pettine: «Forse non ci si capisce, — scriverà Siciliano il 5 giugno 1982 — o forse non vuoi capirmi, e la cosa mi dà molta malinconia. Io so che c’è una cosa che realmente ci divide, ed è il giudizio sul Sessantotto, che tu dai positivo, ed io no per quel che riguarda il comportamento di molti intellettuali nei suoi confronti». E con un secco «Caro Porta» che abbatte ogni confidenza si apre una lettera del dicembre ’86, piena di risentimento per una dichiarazione dell’ex amico a «Italia Oggi» a proposito della Letteratura italiana Mondadori curata da Siciliano: «Dici, “un libro morto”, e aggiungi che preferisci la “verve” di De Crescenzo – Grazie: meglio chiarirgli gli equivoci». Risposta: «E’ pur vero che il mio giudizio sul tuo libro non è positivo, per tutta una serie di ragioni. Mi dispiace ma credo che ci sia ancora in vigore il diritto di avere un’opinione personale, al di fuori dei rapporti di amicizia e di stima».

Antonio Porta: APRIRE

antonio_porta2“Il testo si articola secondo la regola disgiuntiva dello ‘sviluppo per contraddizione’ teorizzata dallo stesso Porta per distanziarsi dai processi analogici ermetici. La poetica dell’oggetto si concretizza nel ricorso a assonanze, allitterazioni, analogie di elementi grammaticali, ripetizioni. Anche le soluzioni metriche rispettano l’apertura verso la realtà, formalmente scandite dal ritmo martellante degli accenti (di norma, quattro) che creano un ritmo penetrante, quasi a battere sulla compatta consistenza delle cose (…). La dissoluzione del personaggio è manifestata dalla figura dell’accecamento edipico: APRIRE mette in scena un delitto, condensando sulla scena spunti da film noir, dove i versi si dispongono in una ‘successione di flashes’ rivelando il caotico manifestarsi dei fenomeni. Nell’orizzontalità fotografica le determinazioni spazio-temporali vengono rovesciate: le azioni vengono presentate attraverso il ripetersi delle proposizioni, finendo per predeterminare la costruzione dei segmenti e l’opposizione dei significati”. (da LE POETICHE DELL’OGGETTO DA LUCIANO ANCESCHI AI NOVISSIMI di Tommaso Lisa, edito da Firenze University Press)

APRIRE
[Da APRIRE – POESIE, edito nel 1964 presso Scheiwiller]

1
Dietro la porta nulla, dietro la tenda,
l’impronta impressa sulla parete, sotto,
l’auto, la finestra, si ferma, dietro la tenda,
un vento che la scuote, sul soffitto nero
una macchia più scura, impronta della mano,
alzandosi si è appoggiato, nulla, premendo,
un fazzoletto di seta, il lampadario oscilla,
un nodo, la luce, macchia d’inchiostro,
sul pavimento, sopra la tenda, la paglietta che raschia,
sul pavimento gocce di sudore, alzandosi,
la macchia non scompare, dietro la tenda,
la seta nera del fazzoletto, luccica sul soffitto,
la mano si appoggia, il fuoco della mano,
sulla poltrona un nodo di seta, luccica,
ferita dal chiodo, il sangue sulla parete,
la seta del fazzoletto agita una mano.

2
Le calze infila, nere, e sfila, con i denti,
la spaccata, il doppio salto, in un istante, la calza maglia,
all’indietro, capriola, poi la spaccata, i seni
premono il pavimento, dietro i capelli, dietro la porta,
non c’è, c’è il salto all’indietro, le cuciture,
l’impronta della mano, all’indietro, sul soffitto,
la ruota, delle gambe e delle braccia, di fianco,
dei seni, gli occhi, bianchi, contro il soffitto,
dietro la porta, calze di seta appese, la capriola.

3
Perché la tenda scuote, si è alzato,
il vento, nello spiraglio la luce, il buio,
dietro la tenda c’è, la notte, il giorno,
nei canali le barche, in gruppo, inquieti canali,
navigano, cariche di sabbia, sotto i ponti,
è mattina, il ferro dei passi, remi e motori,
i passi sulla sabbia, il vento sulla sabbia,
le tende sollevano i lembi, perché è notte,
giorno di vento, di pioggia sul mare,
dietro la porta il mare, la tenda si riempie di sabbia,
di calze, di pioggia, appese, sporche di sangue.

4
La punta, la finestra alta, c’era vento,
si è alzato adagio, stride, in un istante,
ovale, un foro nella parete, con la mano,
in frantumi , l’ovale del vetro, sulle foglie,
è notte, mattina, fitta, densa, chiara,
di sabbia, di diamante, corre sulla spiaggia,
alzato e corso, la mano premuta, a lungo,
fermo, contro il vetro, la fronte, sul,
il vetro sulla mattina, premette, oscura,
la mano affonda, nela terra, nel vetro, nel ventre,
la fronte di vetro, nubi di sabbia,
nella tenda, ventre lacerato, dietro la porta.

5
Ruota delle gambe, la tela sbatte nel vento,
quell’uomo, le gambe aderiscono alla corsa,
la corda si flette, verso il molo, sulla sabbia,
sopra le reti, asciugano, le scarpe di tela,
il molo di cemento, battono la corsa,
non c’è il mare, sempre più oscuro, il cemento,
nella tenda, sfilava le calze coi denti,
la punta, ha premuto un istante, a lungo,
le calze distese sull’acqua, sul ventre.

6
Di là, stringe la maniglia, verso,
non c’è, né certezza, né uscita, sulla parete,
l’orecchio, poi aprire, un’incerta, non si apre,
risposta, le chiavi tra le dita, il ventre aperto,
la mano sul ventre, trema sulle foglie,
di corsa, sulla sabbia, punta della lama,
il figlio, sotto la scrivania, dorme nella stanza.

7
Il corpo sullo scoglio, l’occhio cieco, il sole,
il muro, dormiva, il capo sul libro, la notte sul mare,
dietro la finestra gli uccelli, il sole nella tenda,
l’occhio più oscuro, il taglio nel ventre, sotto l’impronta,
dietro la tenda, la fine, aprire, nel muro,
un foro, ventre disseccato, la porta chiusa,
la porta si apre, si chiude, ventre premuto,

che apre, muro, notte, porta.