3 settembre 2021 - 08:12

Daniele Del Giudice, l’ultimo volo della scrittura perfetta

Era cresciuto in collegio, scriveva su una macchina Underwood che gli aveva regalato il padre. Fu Calvino a lanciarlo. «Lo ha seguito facendolo più concreto»

di Giovanni Montanaro

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Daniele Del Giudice ritratto a  Venezia in una delle ultime foto prima del ricovero in clinica (Archivio Graziano Arici)
Daniele Del Giudice ritratto a Venezia in una delle ultime foto prima del ricovero in clinica (Archivio Graziano Arici)

Sabato sera, Daniele Del Giudice non sarebbe andato all’Arsenale di Venezia a ritirare il Premio Campiello alla carriera, il riconoscimento che la giuria dei letterati ha avuto quasi il presagio di assegnargli a luglio.Da troppi anni, infatti, Del Giudice era ostaggio di una malattia rovinosa. Come a mordere una mela, l’Alzheimer pian piano gli ha tolto l’intelletto, le parole. Eppure, le parole che ci lascia continuano a rischiarare la sua vita rigorosa, anche dolorosa. Erano un rumore, quelle parole, un battito; le due dita che Del Giudice usava sulla tastiera di una macchina da scrivere Underwood che suo padre gli aveva regalato poco prima di morire. «Pareva scrivesse da sola», diceva. Era solo un bambino, Del Giudice, quando restò orfano e accettò quel dono come un fragoroso destino.

La sua opera

Scriveva, Del Giudice. Scriveva nel collegio dove la mamma, risposata, aveva deciso di mandarlo. Scriveva per Paese Sera. Scriveva all’Einaudi, dove faceva il consulente editoriale. Scriveva a Roma dove era nato, a Milano. A Venezia, dove si era trasferito per amore, a metà degli anni Ottanta, e dove ha passato gli ultimi anni ritirato all’isola della Giudecca. Scriveva, ma pubblicava poco. «Un giorno abbiamo avuto una discussione sull’impossibilità di cominciare a scrivere. Lui scriveva sempre lettere o appunti, ma se doveva scrivere una pagina aveva delle difficoltà tremende», dice Ljuba Blumenthal (la «Ljuba che parte» della poesia di Montale), quando accoglie il narratore deLo Stadio di Wimbledon(1983). È solo un giovane, un alter-ego di Del Giudice non ancora quarantenne, che cerca le tracce di Bobi Bazlen, intellettuale triestino della prima metà del Novecento, che mai ha pubblicato un libro in vita. Fu l’esordio di Del Giudice, fu un grande successo di pubblico. Seguì Atlante Occidentale(1985), l’amicizia tra Ira Epstein, un vecchio, famoso, scrittore tedesco, e Pietro Brahe, giovane fisico italiano del Cern; è il dialogo tra scienza e letteratura, numeri e verbi, nato da uno scontro tra i velivoli dei due protagonisti: «l’altro aereo veniva sbieco, così vicino e così basso che immaginò il cupolino tranciato dall’elica». Al volo (grande passione di Del Giudice) sono dedicati gli indimenticabili racconti di Staccando l’ombra da terra(1994), tra Saint-Exupéry e l’aeroporto Nicelli del Lido. In mezzo, Nel museo di Reims(1988) con l’immagine di Barnaba, giovane ex ufficiale della Marina Italiana, che sta diventando cieco e passa il tempo davanti ai dipinti del museo per memorizzarli, finché non arriva Anne. SeguirannoMania(1997), Orizzonte Mobile(2009), e poi In questa luce(2013).

Il riferimento di Calvino

Sempre pubblicato da Einaudi, Del Giudice fu lanciato da Italo Calvino con cui collaborava. Calvino, nella quarta di copertina deLo Stadio, scrisse, riferendosi al protagonista ma soprattutto all’autore: «Il giovane ha fatto la sua scelta: cercherà di rappresentare le persone e le cose sulla pagina, non perché l’opera conta di più della vita, ma perché solo dedicando tutta la propria attenzione all’oggetto, in un’appassionata relazione col mondo delle cose, potrà definire in negativo il nocciolo irriducibile della soggettività, cioè se stesso». Grande intellettuale, Del Giudice è stato protagonista della vita culturale italiana e veneziana. Si è inventato nel 1999 «Fondamenta», un ciclo di incontri, da Saramago a Magris; più che un festival (Del Giudice non li amava troppo) era il tentativo di creare una comunità tra scrittori e lettori. Ha collaborato con Paolini, proprio su Ustica. Ha scritto articoli con garbo; ha coltivato polemiche con benedetta intransigenza. Dire che con Del Giudice se ne va il più grande scrittore italiano degli ultimi quarant’anni non è un vezzo, o una censura alla letteratura à la page più svaporata. È solo la constatazione che Del Giudice, ormai troppo poco letto, è stato il più bravo. Perché, seguendo Calvino ma facendolo più concreto, ed evitando ogni tentazione retorica o della politica più deteriore, ha raccontato la grande avventura umana di ogni individuo. Perché scriveva con naturale serietà e familiare eleganza di amici e computer, di amore e fusoliere, di pullover e diatribe, della fangosità dell’amarezza e del bagliore dell’allegria, della solidità vitrea dei sentimenti, della corrida dei fallimenti umani, che sempre rivelano inaspettate grandezze. Perché nessuno scriveva come lui; con il suo stile esatto, la scrittura come matematica. Daniele Del Giudice si è spento alle sei di giovedì mattina, poco prima dell’alba; negli ultimi anni lo accudiva un gruppo di amici, oltre alla moglie Duccia Zilio Grandi. Nato nel 1949, aveva compiuto settantadue anni l’undici luglio.

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